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Pierino Delpiano fu assassinato per aver gridato: «Viva l’Italia!»

Storicamente, il Risorgimento ha prodotto l’Antirisorgimento; l’amore per l’Italia ha prodotto l’odio per l’Italia (laddove, prima, vi era solo indifferenza). Un processo che ha conosciuto il suo punto di svolta l’8 settembre 1943: è stato allora che le forze che avevano prodotto il Risorgimento sono state rovesciate, e le forze che odiavano l’Italia, la sua indipendenza, la sua dignità, la sua fierezza, si sono scatenate e hanno potuto scrivere una mitologia al contrario, nella quale la sconfitta irreparabile veniva gabellata per vittoria, la guerra civile scompariva e veniva chiamata Resistenza (con la maiuscola), l’amor di Patria usciva per sempre di scena e, al suo posto, faceva il suo ingresso la cultura dei diritti a tutti, senza i corrispondenti doveri e sacrifici.

Il campanello d’allarme era già suonato durante la Prima guerra mondiale, specialmente all’epoca di Caporetto; e poi, di nuovo, subito dopo la fine del conflitto, con la crisi post-bellica e specialmente durante il cosiddetto "biennio rosso". Per due anni, i reduci, i mutilati, gli ufficiali, erano stati scherniti, insultati, aggrediti, ricoperti di sputi; tutto ciò che ricordava la guerra era stato esecrato, maledetto e ripudiato, specialmente da coloro i quali non l’avevano fatta; lo spirito di solidarietà nazionale, che da essa si era formato, divenne il principale obiettivo di quanti volevano servirsi delle sofferenze patite in quei tre anni e mezzo di guerra per scardinare il nascente spirito patriottico e per sostituirlo con lo spirito di classe — che è spirito di guerra civile, proletariato contro borghesia, senza quartiere e senza pietà, fino alla distruzione totale della borghesia. Come era stato fatto in Unione Sovietica e come i socialisti e i comunisti nostrani volevano fare in Italia.

Dopo il 1945, l’Antirisorgimento ha trionfato ed è andato al potere. Sono andati al governo del Paese molti di quegli uomini politici che avevano complottato con il nemico per la sconfitta della propria Patria, e che si erano recati all’estero per meglio organizzarla; e hanno conservato, o ricevuto, i più alti incarichi nella pubblica amministrazione, e persino nelle Forze armate, quegli stessi uomini che non si erano vergognati di favorire la vittoria del nemico e la sconfitta del’Italia, pur di affrettare la caduta del regime politico allora insediato al potere — il fascismo. Protetti da un infame articolo del Trattato di pace di Parigi, cui l’Italia sconfitta aveva dovuto piegarsi, i traditori del giorno innanzi ora si appuntavano al petto, fieramente, le medaglie distribuite loro dagli ex nemici. L’ammiraglio Maugeri si vantava dell’alta decorazione ricevuta dal governo statunitense e non arrossiva a scrivere, nelle sue memorie, pubblicate negli Stati Uniti, di essere giunto alla conclusione, nel 1943 (ma forse anche prima, visto che il famigerato articolo si applicava a quanti avevano collaborato con gli Alleati fin dal 10 giugno del 1940), che la sconfitta del suo Paese era l’unico modo per ripristinarvi la libertà.

Al Sud, intanto, era tornata la mafia, insieme ai "liberatori" angloamericani, fin dal luglio del 1943, e spadroneggiava in tutta la Sicilia "democratica e repubblicana"; a Nord-est, il maresciallo Tito si annetteva larghe zone e intere città che erano sempre state italianissime, minacciando d’infoibare gli Italiani per costringerli a fuggire. E fu allora che si vide il trionfo dell’Antipatria: quando quei poveretti, stremati e terrorizzati, privati di tutti i loro beni, vennero accolti con ostentato disprezzo e con insulti bestiali da quei "fratelli", specialmente comunisti, che, vedendoli arrivare da Pola, da Capodistria, da Fiume, da Zara, non seppero far di meglio che accusarli di portar via posti di lavoro e di essere dei "fascisti" in fuga dalla loro vera Patria: la Jugoslavia comunista del maresciallo Tito. Quanti avevano creduto nell’Italia, nella sua grandezza, nella sua indipendenza, venivano epurati, licenziati, circondati di diffidenza: i nostri ascari coloniali, per esempio, che avevano avuto il torto di credere nell’Italia, vennero abbandonati al loro destino e alle rappresaglie dei vincitori. A partire dal 1945, gridare "Viva l’Italia" smise di essere una cosa patriottica e degna di ammirazione, come lo era stata durante il Risorgimento, e divenne una cosa sospetta, biasimevole. I Triestini, che osarono farlo per proclamare a chiare lettere che non volevano fare la fine dei loro fratelli istriani, fiumani e dalmati, vennero presi a fucilate dai poliziotti britannici come una miserabile plebaglia, e bollati come "nostalgici" del fascismo da gran parte dell’intellighenzia italiana, quasi tutta di sinistra, sotto l’ispirazione del "Migliore": Palmiro Togliatti. Quel tristo figuro che aveva plaudito l’assassinio di un vecchio inerme, il filosofo Giovanni Gentile, e che si era rallegrato della prigionia dei nostri alpini in Unione Sovietica, rifiutandosi di muovere anche solo un dito per alleviare le durissime condizioni in cui versavano nei gulag del compagno Stalin. Da quando l’eroe di guerra e grande invalido, Carlo Borsani, Medaglia d’oro, era stato fucilato come un cane, dopo aver predicato la pacificazione fra gli Italiani in piena guerra civile, per venire poi caricato su un carretto della spazzatura, insieme a un prete che non aveva voluto piegarsi alla sconfitta, don Tullio Calcagno, ebbene, da quel momento l’amor di Patria, in Italia, smise di essere una virtù e cominciò ad essere considerato un vizio.

Dicevamo che le prime avvisaglie di questo rovesciamento spirituale e culturale si erano manifestate più di vent’anni prima, immediatamente dopo la conclusione della Prima guerra mondiale. C’è un episodio poco conosciuto, e che merita di essere restituito alla memoria collettiva, perché specialmente i giovani d’oggi, ai quali viene raccontata la storia dell’Italia contemporanea in una maniera estremamente faziosa, sappiano quali erano i veri termini della questione nel primo dopoguerra. Un episodio che è legato a un nome sconosciuto, crediamo, ai più, se non addirittura a tutti: il nome di un certo Pierino Delpiano. Chi era costui? Un ragazzo di neppure vent’anni, abitante a Torino (era nato il 23 giugno 1900), ma di famiglia biellese di modeste condizioni economiche, cattolico fervente e appassionato esponente dello scoutismo, il quale, nel 1918, appena diciassettenne, era stato richiamato alle armi, aveva combattuto in prima linea, era rimasto congelato sul Monte Grappa e infine, nel marzo del 1919, era tornato a casa con i gradi di caporale, dopo aver prestato un servizio più che onorevole ed essersi fatto benvolere da tutti, per riprendere gli studi interrotti presso l’Istituto Sommeiller.

Il 3 dicembre a Torino vi fu un grande sciopero e una manifestazione carica di odio da parte delle sinistre. Un gruppo di ufficiali venne aggredito e minacciato di morte; per salvarsi, uno di costoro cercò rifugio dentro l’istituto, il cui portone venne richiuso e resistette a tutti gli assalti. I dimostranti non desistettero e posero l’assedio alla scuola. Dopo un certo tempo, un gruppo di studenti uscì da una porta laterale: forse per convincere i manifestanti che, all’interno, non c’era nessuno; o forse, semplicemente, per tornare alle proprie case. I ragazzi vennero subito raggiunti e insolentiti dalla folla minacciosa: tutti fuggirono, meno Delpiano, che rimase ad affrontarla. Gli venne ordinato di gridare "Abbasso l’Italia!": a quelle condizioni, lo avrebbero risparmiato. Lui non solo rifiutò, ma disse che sempre avrebbe gridato: "Viva l’Italia!"; al che o dei manifestanti lo freddò con un colpo di pistola alla testa. La città ne rimase turbata e commossa: al suo funerale sfilò una folla immensa, cinquantamila persone.

Il fatto è stato rievocato, a testimonianza d’un capitolo dedicato all’amor di Patria in senso cristiano, da Gesualdo Nosengo — nato a San Damiano d’Asti il 20 luglio 1906 e morto a Roma il 13 maggio 1968 – una figura d’intellettuale e, diremmo, di autentico umanista, che è, oggi, anch’essa un po’ dimenticata, ma che ebbe una larga e meritata notorietà negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, come esponente, insieme ad Aldo Agazzi e Luigi Stefanini, del pensiero pedagogico del personalismo cristiano (da: G. Nosengo, «Incontro a Cristo. Testo di religione per la Scuola Media Inferiore», Firenze, Felice Le Monnier, 1957, vol. 2, pp. 170-171; 173):

«La Patria deve essere riconosciuta, rispettata e amata.

Andrebbe contro la natura, contro tutti i sentimenti filiali ed umani e contro la legge divina ci affermasse e facesse il contrario. Solo coloro che rinnegano Iddio, lo spirito e i valori spirituali possono insegnare a rinnegare la patria. Sarebbe come rinnegare una parte di se stessi.

Il vero e migliore amore per la Patria non è però costituiti da un orgoglio collettivo o dal desiderio di umiliare, di aggredire e di assoggettare le Patrie degli altri, ma dal desiderio che essa sia sempre meglio ordinata, rifornita dei beni spirituali e materiali e sia anche in grado di fare sempre maggior bene agli altri popoli che in Cristo sono amati come popoli fratelli. L’amore per la Patria deve essere un amore fattivo rivolto concretamente a tutti gli uomini che ne fanno parte e anche a tutti gli altri popoli che costituiscono, insieme, una sola famiglia umana. Oggi per noi Italiani, e per i cittadini di altre nazioni vicine alla nostra, si viene componendo una patria più grande che dovremmo già amare e contribuire a costruire: l’Europa.

Amare veramente la Patria, non a parole, ma a fatti, significa innanzi tutto osservare le leggi della morale che fanno grandi e potenti i popoli.

La nostra Patria, l’Italia, è cattolica, e, cioè, i nostri padri, la nostra cultura, le nostre tradizioni millenarie sono cattoliche. Amare e rispettare le cose dei Padri, per noi Italiani, è rispettare il cattolicesimo, anzi è vivere in seno al cattolicesimo. Contrastare la religione cattolica significa non soltanto offendere Gesù Cristo, ma anche rompere l’unità della nazione e retrocedere nel livello di civiltà sociale.

Il buon cristiano serve generosamente la sua Patria, e la Patria, da parte sua, non deve nulla temere dal buon cristiano, perché il cristiano vede, nei reggitori, Iddio, e nei compatrioti tanti fratelli che ama per amore di Gesù Cristo.

Insieme all’amor di Patria il buon cristiano nutre nel suo cuore anche un sentimento di amore per tutta l’umanità che è una famiglia sola e aderisce con la sua mente ed il suo cuore a tutti quei tentativi che vengono fatti per unire i popoli fra di loro e farli r nella pace.

Il cattolico sa che la Chiesa cattolica è la Madre e la Casa di tutti gli uomini.[…]

Pierino Delpiano usciva dalla scuola con i compagni.

Alla vista degli studenti, l’urlo selvaggio della folla si fa più intenso: parole d’odio e grida di minaccia si levano dagli uomini imbestialiti.

Gli studenti cercano di rispondere, di reagire; ma vengono accerchiati, insultati…

Pierino si ferma risoluto e affronta la marea urlante.

Ritirarsi, fuggire… è cosa troppo vile per un giovane che milita nelle file cattoliche, e che è invalido di guerra. È circondato, assalito d’insulti: i bastoni si levano minacciosi, echeggiano grida di morte. Gli urlano:

– Di’ anche tu: "Abbasso l’Italia!".

– Pierino ha un sussulto, e prova una stretta dolorosa al cuore: alza fiera la fronte e grida:

– Io dirò sempre: "Viva l’Italia!".

Un colpo di rivoltella sparato a bruciapelo lo colpisce alla tempia sinistra, mozzandogli il grido eroico sulle labbra.

Era il 3 dicembre 1919.

Aveva dato la vita per l’ideale di Patria amata nell’ideale cristiano.»

Questo episodio è, di per sé, talmente eloquente ed istruttivo, che crediamo non sia il caso di fare alcun ulteriore commento. Pure, una coda c’è, e vale la pena di narrarla. Dopo la morte di Pierino Delpiano, vi fu una vergognosa corsa per contendersene l’appartenenza ideologica. I fascisti lo rivendicarono come uno dei loro:nel 1925 gli venne concessa la Medaglia d’argento al valore civile, alla memoria; nel 1935, essa venne commutata nella Medaglia d’oro. Dopo il 1945, i comunisti, i socialisti e, più recentemente, anche i cattolici di sinistra, si son dati un gran daffare per negarlo. Ma il punto non è se Pierino Delpiano fosse un fascista, oppure no. Il punto è se è vero o no che venne ucciso per aver gridato: "Viva l’Italia" ad una folla che gli aveva ordinato di gridare "Abbasso". Si mettano l’anima in pace, i soliti signori della sinistra politically correct, che vorrebbero intestarsi tutte le buone cause, e infangare tutte quelle altrui: il fatto è vero. E parla da solo: anche troppo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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