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Faziosità e conformismo culturale nei manuali di storia: il caso di Armando Saitta

La scuola è il luogo in cui si formano le nuove generazioni dal punto di vista intellettuale, culturale e spirituale; ma la scuola, a sua volta, trasmette i valori e le informazioni che sono il patrimonio della élite culturale in una data società. In Italia, per più di mezzo secolo, l’establishment culturale è stato quasi interamente appannaggio della sinistra marxista; di conseguenza, la maggior parte dei libri di testo, e specialmente quelli che più hanno a che fare con la formazione e lo sviluppo del pensiero, ossia quelli di storia e di filosofia, sono stati scelti fra quelli scritti dagli esponenti di tale élite. Due generazioni di studenti di liceo hanno subito questa operazione di lavaggio del cervello da parte di professori di sinistra che imponevano manuali di sinistra e che volevano sentirsi dire, dai loro alunni, non il risultato di una ricerca spassionata del vero, ma ciò che essi pretendevano essere vero, premiando i più zelanti e scoraggiando o punendo, con voti scarsi o insufficienti, quelli che osavano mostrare una certa attitudine all’indipendenza di giudizio.

Questa è la triste realtà: due generazioni di professori marxisti e di libri di testo marxisti hanno causato danni irreversibili alla formazione di una coscienza critica nella mente e nel cuore dei loro studenti; hanno incoraggiato il conformismo culturale e il servilismo spicciolo; hanno disapprovato e combattuto la nascita di un pensiero critico nei giovani; i quali, divenuti adulti ed entrati nelle professioni, come giornalisti o, a loro volta, come insegnanti, hanno perpetuato, più o meno in buona fede, gli stessi meccanismi perversi del conformismo e del servilismo. Il tutto senza che le famiglie potessero dire verbo; anche perché – diciamolo apertamente, anche se ciò è doloroso — più interessate agli aspetti formali o solo esteriormente culturali: la gita scolastica a Londra, la difesa d’ufficio del figlio svogliato davanti ai brutti voti («Eppure, mi creda, professore: mio figlio/mia figlia ha studiato tanto; è sempre lì, con la testa china sui libri di scuola!»: commovente).

L’opera di devastazione intellettuale e culturale, peraltro, non si è limitata allo studio del passato, e sia pure con continui riferimenti alla realtà presente (dato che tutto, da Giulio Cesare e Carlo Magno in poi, doveva concorrere al "naturale" sviluppo della storia fino all’esito glorioso della Resistenza e della Liberazione, premessa logica e necessaria per la rigenerazione morale dell’Italia antifascista, democratica e repubblicana); si è rivolta anche direttamente ai valori, o ai disvalori, dell’attualità, e specialmente alla sottocultura del ’68, che vedeva i grandi nemici storici nella patria, nella famiglia e nella religione. Due generazioni di professori marxisti, pertanto, hanno inoculato l’idea velenosa che non c’è nulla di più spregevole della famiglia borghese, della Patria con la "p" maiuscola e di Dio: idoli e feticci che bisogna abbattere, per realizzare la piena emancipazione degli individui e dei popoli ed instaurare la società giusta, armoniosa, pacifica e, soprattutto, "progredita".

Non sempre lo hanno fatto in maniera diretta ed esplicita e non sempre con aperta malafede; però hanno esaltato, presso i loro studenti, i grandi meriti letterari di Alberto Moravia, hanno detto loro che non ci può essere pittura più grane di quella di Guttuso, o cinema più profondo di quello di Pasolini, o teatro più geniale di quello di Dario Fo, col suo sacrilego «Mistero Buffo»; che la sola poesia degna di essere letta è quella politicamente impegnata (a sinistra, ovviamente), di stalinisti come Paul Éluard e Louis Aragon, o, comunque, di marxisti, come Pablo Neruda; che solo filosofi di sinistra, come Jean-Paul Sartre, meritano attenzione e rispetto; e che le eroiche imprese di Ernesto "Che" Guevara supervano qualsiasi altra impresa di qualsiasi uomo politico del passato, da Alessandro Magno a Napoleone Bonaparte.

Quanto alla religione, il cristianesimo – e particolarmente il cattolicesimo – era il Male per antonomasia: aveva frenato e congelato per secoli il Progresso, la Scienza e la Libertà di Pensiero; aveva riempito l’Europa di roghi e di torture; aveva instaurato la feroce dittatura dell’Inquisizione e trescato, per duemila anni, col potere politico e sociale dominante: insomma, una terribile pestilenza che solo con l’avvento del’Illuminismo, prima, e del Marxismo, poi, aveva incominciato a essere finalmente debellata, e che meritava soltanto il disprezzo o l’oblio. Gli autori di manuali scolastici si dividevano principalmente in anticlericali, laicisti e filo-protestanti; l’importante era dire del cattolicesimo tutto il male possibile, e mettere in evidenza come solo scrollandosi di dosso la barbarica tirannia dei preti l’umanità può incamminarsi sulla via della felicità.

Fra gli autori di manuali di storia decisamente laicisti e anticlericali, possiamo ricordare Gabriele Pepe; fra quelli filo-protestanti, abbiamo ricordato a suo tempo Giorgio Spini, con la sua infinita e sfacciata faziosità anticattolica (cfr. i nostri precedenti articoli: «Quanta faziosità nella ricostruzione storica di Giorgio Spini della Spagna cattolica», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 18/10/2011; e «Quegli storici politicamente corretti che ce la raccontano come vogliono», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 19/07/2015). Ora vogliamo spendere due parole su un altro storico di formazione marxista, il quale, anche se gli va riconosciuta una indubbia autonomia di giudizio rispetto al Partito Comunista che, all’epoca, pretendeva di custodire l’ortodossia del marxismo come una vera e propria chiesa – quella, sì, più che mai fanatica e intollerante -, nondimeno ha esercitato un profondo influsso su una generazione di studenti, anche perché il suo manuale ad uso scolastico ebbe larghissima diffusione e fu brandito da migliaia di professori come un’arma per instaurare la Verità di Marx sulla terra: un influsso che, pertanto, non è stato affatto positivo, ma tale da rafforzare la tendenza all’appiattimento conformistico e al vero e proprio servilismo ideologico nei licei, con l’aggravante di una certa ipocrisia intellettuale. Stiamo parlando di Armando Saitta, nato a Sant’Angelo di Brolo, presso Messina, nel 1919 e morto a Roma nel 1991, autore del manuale «Il cammino umano» (Firenze, La Nuova Italia, 1968).

Ci piace riportare qui alcune osservazioni svolte in proposito ben mezzo secolo fa da Giacomo Martina (Tripoli, 1924 — Roma, 2012), sacerdote gesuita, educatore e storico di vaglia, tratte dall’interessante volume collettivo «Studio ed insegnamento della storia», Ave-Uciim Editori, 1963, pp. 89-92):

«Gabriele Pepe si muove nella linea del vecchio anticlericalismo, che attacca la Chiesa a viso aperto, senza nascondere le sue intenzioni, e imposta la sua polemica soprattutto suo terreno propriamente religioso I nuovi anticlericali usano una tattica più fine ed insidiosa, spostando l’attacco dal campo religioso a quello politico-economico-sociale, nascondendo talora le loro intenzioni sotto un velo umanitario, preferendo far parlare gli altri, cercando di persuadere i lettori delle proprie tesi attraverso un’abile scelta di testi. Maestro in quest’arte è Armando Saitta. Solidamente costruito, il suo manuale si propone di dare un orientamento formativo (n"non anodino susseguirsi di date e di avvenimenti, ma rivivere di concrete esperienze"), nazionale ma non nazionalistico, a contatto continuo con la vita. […] Storia dunque obiettiva, che si preoccupa di comprendere il passato ed il faticoso cammino che le età precedenti hanno compiuto per chiarire i principi che oggi sono alla base della civiltà moderna? Non oserei dirlo. "È tempo che alla storia non si chieda più una fredda comprensione, che tutto giustifichi", afferma lo stesso Saitta nella prefazione della sua antologia "Dal fascismo alla resistenza". Queste parole, che in sé potrebbero essere rettamente intese (e anzi apparire superflue: quando mai la storia ha preteso di giustificare tutto, l’incendio di Roma e gli orrori di Dachau?), sembrano piuttosto la confessione implicita di chiari pregiudizi (non vorrei chiamarli postulati), che determinano la scelta necessaria in ogni esposizione storica, e la visione da cui fatti e uomini sono giudicati. Non è difficile cogliere questi presupposti del Saitta, marxista convinto: il predominio del fattore economico, la necessità assoluta della lotta di classe e della rivoluzione, l’esaltazione del comunismo, l’incomprensione per la Chiesa, considerata da un punto di vista puramente umano, come una società che miri al’egemonia politica. "I social pacifisti non sanno che è sciocco attender una pace democratica da governi borghesi che conducono una guerra di rapina… I socialpacifisti sono degli ipocriti, che mirano a distogliere il popolo della lotta rivoluzionaria, consigliandogli la calma" (vol. III, p. 557). […]

Le origini del comunismo italiano, i suoi caratteri essenziali ("profonda esigenza di cultura, spiriti fresco e libero, netta intransigenza rivoluzionaria furono le caratteristiche migliori del giovane comunismo italiano"), i suoi principali esponenti a cominciare da Gramsci, la persona di Lenin e la stria della Russia contemporanea sono trattati non solo con una certa ampiezza, ma in un tono che sembra additare il comunismo come la soluzione inevitabile e necessaria di tutta la storia recente. Il Saitta riconosce, sì, il carattere totalitario del regime staliniano, ma si affanna poi con visibile imbarazzo a cercare una spiegazione inoffensiva del patto russo-tedesco del 1939, e riduce tutti i massacri compiuti dal dittatore ad una lotta interna in senso al partito. Nemmeno una parola egli spende sulla crisi del 1933 che portò alla morte di milioni di contadini, sulla deportazione di dodici milioni di cittadini russi, sulla grande purga del 1936-1938, sul sistema di terrore imposto dal dittatore comunista, in una parola sul sacrificio completo della persona umana voluto da Stalin. […]

I rapporto fra la Chiesa e lo Stato sono visti parendo da un rapporto ben chiaro: "La Chiesa cattolica, e per essa il papato, rivendicava l’assoluto predominio sul potere politico" (II, 48). Che la Chiesa avesse interessi specificamente religiosi da difendere, che essa per esempio cercasse di impedire l’ascesa al trono di un sovrano protestante per un motivo religioso, data la stretta connessione allora esistente fra la religione del principe e quella dei sudditi, non appare mai. Lo stesso spirito partigiano appare nel titolo del capitolo "La controriforma politica ed il suo fallimento", in cui l’appoggio degli Stati cattolici alle decisioni tridentine , richiesto da Roma, che altrimenti non avrebbe potuto realizzare efficacemente i provvedimenti già sanciti, è visto come un tentativo di domino politico. Troviamo il solito ritratto a tinte fosche della Spagna, la cui decadenza sarebbe dovuta principalmente alla "repressione religiosa, spinta fino all’eccesso" (II, 152). […]

La materia diventa più scottante nell’ultimo volume, dove l’atteggiamento antisabaudo ed antimonarchico va di pari passo con lo spirito anticlericale e con le simpatie per il comunismo. L’alleanza della Chiesa con l’assolutismo prosegue anche dopo il 1815, quando il prete opprime le coscienze, e, nel segreto di un confessionale, annulla la forza di molte disposizioni legislative. Con lo stesso tono sono commemorate le "orrende stragi" compiute a Napoli nel 1799 (per le vittime del Terrore e di Elisabetta l’autore non spende una parola di commiserazione).»

Sembra quasi incredibile che si sia insegnata la storia nei licei italiani servendosi di testi così smaccatamene faziosi e intellettualmente disonesti: eppure è accaduto precisamente questo. I professori della generazione immediatamente successiva al 1968, che si presentavano con la sigaretta fra le labbra, alla Sartre, e che andavano a bere il caffè con i loro studenti, facendosi dare del "tu" e incoraggiandoli a creare "collettivi" dalle competenze tanto ambiziose, quanto vaghe e inconcludenti, rassicurandoli sulla ineluttabilità della vittoria finale del comunismo e disquisendo sul numero di peli della barba di "Che" Guevara o sui chilometri effettivi della "Lunga marcia" del presidente Mao, adottavano manuali di storia come questo e tenevano in ostaggio la vera conoscenza ed il vero spirito di ricerca, in nome della purezza ideologica e della bellezza morale della loro personale ideologia politica, quella marxista. Non hanno soltanto mal guadagnato lo stipendio, dal momento che lo Stato paga un insegnante perché trasmetta agli studenti delle conoscenze e non per fare propaganda al proprio partito o alla propria ideologia; si sono anche adoperati attivamente per trasmettere ai giovani loro affidati una visione faziosa del passato e per fornire loro delle lenti interpretative preconfezionate. L’ironia della sorte è che, nel 1968, Armando Saitta pronunciò parole di fuoco contro quella che definì la "distruzione consapevole" del sistema scolastico, dell’onestà intellettuale e del rigore metodologico; troppo tardi: egli stesso aveva contribuito, e non poco, a quella distruzione. I brani sopra citati parlano chiaro. Del resto, la storia del marxismo è costellata di tali anime belle, che chiudono le stalle quando le vacche sono fuggite…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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