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10 Novembre 2013Vogliamo parlare di "Dante e la Venezia Giulia". Perché?
È una domanda preliminare che lo storico si sente spesso rivolgere nel corso del suo lavoro di ricerca.
Johann Huizinga, il geniale storico olandese autore di un affresco grandioso e affascinante come L’Autunno del Medioevo, se l’era posta da sé, e aveva cercato di rispondere nei seguenti termini: "Si vuole conoscere il passato. Perché lo si vuole conoscere? C’è ancora chi risponde: per prevedere il futuro. Ci sono molti che pensano: per comprendere il presente. Personalmente, io non arrivo a tanto. Io penso che la storia cerchi di dare uno sguardo al passato in sé e per sé. Ma a che scopo? Il fattore finalistico, nella nostra sete di conoscenza, non può essere trascurato. Evidentemente, in ultima analisi, sempre allo scopo di ‘comprendere’. Che cosa? Non le circostanze e le possibilità particolari del confuso presente. Chi volesse sostenere una cosa simile, non dovrebbe poi meravigliarsi se qualcuno ne concludesse che egli vuol conoscere Lutero allo scopo di capire la politica ecclesiastica del Terzo Reich, o Michelangelo per capire l’espressionismo del 1920. No, non si tratta della tempesta del fosco presente,ma del mondo e della vita nel loro eterno significato., nella loro eterna tensione e nella loro eterna quiete. Ricordiamo la felice espressione di Jakob Burckhardt: ‘Ciò che un tempo fu gioia e dolore, ora deve diventare conoscenza, come del resto anche nella vita del singolo.’ (…) Il nostrio augurio è che, per mantenere ed elevare ancor più l’esercizio della storia, non manchino neppure due doti ancor più indispensabili dei mezzi tecnici, e della limpida ragione: lealtà e purezza di spirito." (1)
Cerchiamo dunque, con lealtà e purezza di spirito, di restituire i suoi contorni a una pagina di storia, in questo caso di storia letteraria, che era stata ingiustamente dimenticata, così come ingiustamente dimenticata è stata, negli ultimi decenni, l’italianità culturale (in primo luogo linguistica) e spirituale dell’Istria, di Fiume e di una parte della Dalmazia. Il nostro scopo non è quello di imbastire una polemica politica né di strumentalizzare il gran padre Dante ai fini di un disegno revisionistico della nostra storia recente. Non sarebbe questo il luogo e non sarebbe rispettoso nei confronti dello stesso Dante, che non è una bandiera che questa o quella parte possano agitare per i propri, pur legittimi, fini. Dante, come la storia, appartiene a tutti, purchè ci si abbeveri alla sua fonte con atteggiamento sereno e rispettoso. Vogliamo soltanto cercar di capire cosa Dante pensasse del confine nord-orientale dell’Italia, delle sue genti e dei loro dialetti, quali luoghi abbia personalmente visitato, quali conosciuto per via indiretta; quali tracce del suo passaggio, materiale o ideale, vi abbia lasciato.
E partiamo, naturalmente, da quei famosi versi in cui, per descrivere gli avelli infuocati della città di Dite, ove soffrono gli eretici del VI cerchio infernale, Dante ricorre a un doppio paragone geografico, citando sia la necropoli romana di Arles, alla foce paludosa del Rodano, sia quella di Pola, presso il golfo del Quarnaro, che delimita l’Italia e ne bagna i confini:
Dentro li entrammo sanz’alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com’io fui dentro, l’occhio intorno invio;
e veggio ad ogne man grande campagna
piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt’il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ‘l modo v’era più amaro;
ché tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte. (2)
Sulla base di questi versi, alcuni critici hanno affermato, ed altri hanno negato, un viaggio a Pola del sommo poeta; ne riparleremo tra breve; ora vogliamo porci un’altra domanda. Se Dante, con le parole: presso del Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna, abbia voluto adoperare una semplice espressione geografica, un po’ come il principe di Metternich al Congresso di Vienna, quando definiva l’Italia, appunto, un’"espressione geografica" (3), o se abbia voluto fornire una sua propria convinzione circa i confini politici del bel paese, dove il sì suona.
Ebbene, diamo subito fuoco alle polveri riportando il commento di uno dei più noti esegeti moderni della Divina Commedia, Tommaso Di Salvo, ai versi in questione, 113-114: "Quest’indicazione a confini orientali dell’Italia che in epoche nazionalistiche venne interpretata come un sostegno a coloro che sostenevano anche Fiume oltre che Trieste dovesse far parte intergrante dell’Italia non ha in Dante altra funzione che di un rilievo territoriale forse sulla base oltre che geografica anche amministrativa da far risalire al tardo impero." (4)
Che in un manuale destinato ad uso scolastico l’Autore abbia sentito il bisogno di confutare drasticamente non già una interpretazione letteraria, bensì politica dei versi di Dante, scendendo così in polemica con un ideale interlocutore su un terreno diverso da quello della pura filologia, è già una cosa che richiama l’attenzione del lettore, anche perché un po’ inconsueta. Entrando nel merito delle sue affermazioni, poi, non si può non notare la disinvoltura con cui esse paiono voler troncare la questione una volta per tutte, questione, ripetiamo, di natura non letteraria e perciò neppure aperta da critici danteschi come Natalino Sapegno (5), Carlo Grabher (6), Giuseppe Giacalone (7), Manfredi Porena (8), Emilio Pasquini e Antonio Quaglio (9), Umberto Bosco e Giovanni Reggio (10), Piero Gallardo (11), Anna Maria Chiavacci Leonardi (12), S. Jacomuzzi e altri (13). L’elenco potrebbe continuare e sarebbe ancora lungo: tutti questi commentatori si limitano a osservare che il Quarnaro, per Dante, segna la frontiera geografica dell’Italia, e non sfiorano nemmeno considerazioni di natura politica contingente. Non sollevano affatto la questione se Dante la considerasse anche una frontiera, almeno idealmente, politica; e meno ancora se oggi noi possiamo, sulla scorta di Dante o di altri autori insigni, considerarla tale.
Ma il commento del Di Salvo ci sollecita a rilevare anche un certo anacronismo metodologico, la cui spia è la forma letteria involuta ("un sostegno a coloro che sostenevano") e una certa indeterminatezza storica ("epoche nazionalistiche", al plurale) e metodologica ("far parte integrante dell’Italia": intesa come Stato italiano? O solo in senso geografico? E poi perché solo Fiume e non, logicamente, Pola e tutta l’Istria?). L’anacronismo consiste in questo: che non si può tirare in ballo Dante né per sostenere l’italianità di Fiume (e con essa dell’Istria) né per negarla, se prima non si chiarisce cosa s’intendeva, al tempo di Dante, per "far parte integrante" di uno Stato; anzi, cosa s’intendeva per Stato e cosa s’intendeva per patria; che non sono le stesse cose di oggi.
Oggi si è affermata la forma politica dello Stato-nazione (almeno nell’Europa occidentale, e con qualche eccezione: Svizzera, Belgio), nonché il concetto giuridico di sovranità personale e territoriale:
Scrive Igino Vergano: "I teorici del diritto individuano gli elementi che compongono lo Stato: il territorio, i cittadini, l’ordinamento giuridico, l’organizzazione politico-amministrativa, la potestà di imperio, i fini. La potestà di imperio (o sovranità) è il potere di dettare norme valevoli per tutta la collettività e circa le cose esistenti sul territorio; perciò si parla di sovranità personale che è quella dello Stato rispetto ai cittadini e di sovranità territoriale che investe il territorio." (14)
Gli elementi fondamentali dello Stato, comunque, possono essere ulteriormente ridotti a tre: popolo, territorio, apparato (governo), come ci informa un qualunque manuale di diritto costituzionale. (15),
intendendo per apparato o governo precisamente la sovranità. Come dicono infatti igli studiosi di diritto: "Il terzo elemento costitutivo dello Stato è rappresentato dalla sovranità, cioè dal suo potere di comando. La sovranità si manifesta sia come supremazia nei confronti dei singoli cittadini e delle varie formazioni sociali esistenti nel territorio statale, sia come indipendenza da altri stati. La sovranità dello stato è originaria, esclusiva, incondizionata e coattiva.
– originaria, perché nasce insieme allo stato, è ad esso connaturata e non ha bisogno di alcun riconoscimento;
-
esclusiva, perché appartiene solo allo stato;
-
incondizionata, perché non ha quei limiti chwe lo stato pone agli altri enti pubblici (es.: regioni, province, comuni);
-
coattiva, perché fa osservare anche con la forza i suoi comandi a chi non lo faccia spontaneamente." (16)
Ora è facile vedere come, a cavallo fra 1200 e 1300, al tempo cioè di Dante Alighieri, non esisteva né l’esempio concreto, né la concezione teorica dello Stato e della sovranità, così come noi la intendiamo oggi; e men che meno esistevano il fatto e l’idea dello stato-nazione (tranne che in alcuni Paesi dell’Europa occidentale, ove peraltro muovevano appena i primi passi). In Italia esistevano una congerie di comuni, signorie, marchesati, contee, principati ecclesiastici, il tutto in perenne stato di ebollizione sia all’interno che all’esterno, in una condizione di bellum omnium contra omnes. Teoricamente, ma solo teoricamente, quelli del centro-nord riconoscevano la sovranità del Sacro Romano Impero; al centro, quella particolarissima creazione dei papi che era il potere temporale della Chiesa, anch’esso, come l’Impero, con pretese di universalità e quindi in continuo conflitto con esso; al sud, una monarchia indipendente, l’angioina (dal 1266), che aveva preso il posto della sveva e, prima ancora, della normanna. Nessuna di queste realtà politiche frammentate e lacerate da guerre e lotte di fazioni godeva del privilegio della sovranità in senso stretto; nessuna, tranne la monarchia angioina (peraltro minata all’esterno dalle lotte con gli Aragonesi e dalla perdita della Sicilia, all’interno dalla strapotenza dei baroni) poteva dirsi un vero Stato. La giurisdizione imperiale si sovrapponeva a quelle comunali e signorili; quella dell’aristocrazia feudale sostituiva spesso, de facto, l’una e l’altra; e quella ecclesiastica sempre e dovunque s’intrecciava con i poteri laici con un proprio apparato giudiziario, un proprio sistema di tassazione (le decime), una propria rete di garanzie extraterritoriali (diritto d’asilo) nonché un potere coercitivo nei confronti di tutti: città libere, signorie, principati e perfino l’imperatore (cioè la scomunica e l’interdetto). In molte parti della Penisola, insomma, si accavallavano, e talvolta si scontravano, diverse forme di sovranità, ciascuna indipendente nel proprio ambito; mentre muoveva i primi passi una sorta di polizia ecclesiastica internazionale, il tribunale della Santa Inquisizione, capace di esercitare un controllo capillare su tutto e tutti, accanto e, se necessario, al di sopra degli altri poteri giurisdizionali. Per completare il quadro caotico e drammatico di quel tempo, esisteva una protesta sociale diffusa che solo raramente prendeva le forme di una lotta sociale indirizzata coerentemente ad un fine (come avverrà nel tumulto dei Ciompi, a Firenze) mentre più spesso si travestiva da movimento religioso popolare, talvolta interno (l’ala intransigente del francescanesimo) talvolta esterno (catarismo) alla Chiesa e ad essa contrario, talaltra pericolsamente in bilico tra le due alternative (movimenti gioachimiti e patarini), quando non esplodeva in forme di ribellione disperata e violenta contro tutti i poteri costituiti (dolciniani). (17)
E Dante, cosa ne pensava dello stato e della sovranità? Nel De Monarchia, composto, come oggi sembra, fra il 1312 e il 1313, egli si sforza di dimostrare la necessità di un sovrano universale, l’imperatore appunto, dal momento che un bene è l’unità, un male invece — a suo dire — la molteplicità. Solo un unico monarca può tendere verso il Bene, perché egli solo può rappresentare l’insieme dei cittadini, trascendendo gli interessi particolari ed egoistici: per tale motivo egli si era entusiasmato alla discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo, nel 1310 (e fu l’ennesima, amara delusione): finalmente un sovrano era venuto a metter ordine nel viluppo sanguinoso dei partiti, delle consorterie, delle famiglie che si massacravano e si condannavano all’esilio l’un l’altra, in una sorta di girandola senza pace né fine. Chiariti questi concetti nel I libro, nel II Dante passa a dimostrare come solo Roma possa essere la sede naturale della monarchia universale, poiché voluta tale da Dio all’interno di un disegno provvidenziale chiaramente riconoscibile nella storia. Infine nel III libro, il più importante, affronta di petto la scabrosa questione dei reciproci rapporti fra Chiesa e Impero, i due grandi poteri universali. Per lui non vi può essere conflitto di priorità, perché i loro ambiti sono nettamente delimitati dalla stessa Volontà divina (teoria dei due Soli): al potere politico il compito di governare in pace e giustizia il genere umano, a quello spirituale di assicurare il bene dell’anima e la vita eterna. Entrambi hanno origine da Dio, ma nessuno dei due è superiore all’altro: certo la Luna (l’Impero) riceve la luce riflessa dal Sole (il Papato), ma non deve a questo la sua essenza: ciascuno dei due è sovrano nel proprio ambito e ciascuno è necessario agli uomini, così come l’anima è superiore al corpo, ma entrambi, corpo e anima, concorrono alla vita pienamente realizzata dell’individuo.(18)
Queste idee varranno al De Monarchia la condanna al rogo e a Dante, già morto, il pericolo della riesumazione della salma e della condanna capitale postuma, poi songiurata in extremis per l’intervento di alcuni potenti personaggi presso l’implacabile cardinale Bertrando del Poggetto, legato del papa Giovanni XXII (allora residente in Avignone) con pieni poteri sull’Italia.(19)
Chiarito, dunque, che al tempo di Dante (come da sempre, del resto, dopo la caduta dell’Imper Romano) la parola Italia non poteva avere che un significato geografico, linguistico e culturale, possiamo tornare a vedere se, in quelle condizioni, si potesse parlare di un confine orientale dell’Italia che non fosse semplicemente geografico, linguistico e culturale.
All’estremo nord-est della Penisola (20) c’era il più vasto degli Stati, se così, impropriamente, vogliamo chiamarli, dell’Italia settentrionale: il Patriarcato di Aquileia, creato da Enrico IV nel 1077 per tenersi aperto il valico delle Alpi orientali mediante dei principi-vescovi ghibellini a lui fedeli e ai suoi successori. Il Friuli, ch’era stato sede di un importante ducato longobardo e che aveva avuto, con Berengario I, uno dei primi re d’Italia (nell’888; mentre nel 915 era riuscito addirittura a cingere la corona imperiale) aveva una classe feudale germanica e, dopo le disastrose incursioni degli Ungari, fu largamente ripopolato da coloni slavi. Al tempo di Dante, cioè fra Due e Trecento, l’elemento etnico italiano stava riprendendo lentamente il sopravvento, dopo un’eclisse durata due o tre secoli; mentre Udine era divenuta, de facto se non de jure, la nuova capitale dei patriarchi (dopo Aquileia e Cividale), città che allora conobbe, anche per merito dell’afflusso di mercanti lombardio e soprattutto toscani, una straordinaria espansione economica e demografica, attestata fra l’altro da una famosa novella del Boccaccio. (21)
Nel 1248 il patriarca Bertoldo di Merania, per salvare il suo principato minacciato all’esterno da potenti nemici (i Caminesi di Treviso, la Serenissima di Venezia, i conti di Gorizia) e all’interno da una nobiltà feudale estremamente violenta e riottosa (il patriarca Bertrando di San Genesio verrà trucidato nel 1350 in seguito a una congiura aristocratica: e non fu il solo a fare quella fine) decise di aderire alla Lega Guelfa e diede inizio alla serie dei patriarchi di parte guelfa. Questa brusca svolta politica nell’indirizzo dei patriarchi di Aquileia era un contraccolpo del Concilio di Lione del 1245, in cui l’imperatore Federico II di Svevia era stato deposto e scomunicato da papa Innocenzo IV. (22)
Nel 1301 papa Bonifazio VIII aveva nominato patriarca di Aquileia il piacentino Ottobono Rovari, ma lo stato teocratico friulano era ormai in dissoluzione, travolto da invasioni esterne e da continui rivolgimenti interni. Nel 1309 Rizzardo da Camino aveva compiuto un audace tentativo di conquistare Udine, ma era stato respinto con gravi perdite. Il vero padrone del Friuli era comunque a quell’epoca il conte Enrico II di Gorizia, che dopo aver rosicchiato tutta una serie di territori patriarchini di cui era, in teoria, il difensore (sull’esempio del suo predecessore, Alberto II, che aveva preso Tolmino sull’alto Isonzo, Albona e Pinguente in Istria) si era fatto nominare capitano generale a vita del Patriarcato. Fuggito e morto in esilio, nel 1315, Ottobono Rovari, dopo due anni di vacanza Giovanni XXII, da Avignone, aveva eletto suo successore Gastone della Torre, nipote del defunto patriarca Raimondo, che non giunse mai nella sua nuova sede perché morì per una caduta da cavallo.(23)
L’anno dopo, il 1319, giunse in Friuli un suo parente, Pagano della Torre, che appena insediato dovette sborsare al conte Enrico di Gorizia la cifra astronomica di 6.000 marche per riavere una serie di località da quello abusivamente occupate. Pagano morì alla fine del 1332, ma dal 1322 al 1327 rimase lontano dal Friuli, avendo partecipato alla sfortunata campagna di guerra voluta da Giovanni XXII (che morirà a sua volta nel 1334) contro il suo acerrimo nemico Matteo Visconti Fu lui, forse, a ospitare Dante nel suo castello di Udine, città dove preferiva risiedere e dove coltivava l’alleanza con la potente famiglia dei Savorgnani, che avrà poi un ruolo decisivo negli spasimi finali e nell’agonia del Patriarcato di Aquileia (annesso alla Repubblica di Venezia nel 1420).(24)
Ma com’era questa Patria del Friuli che, sotto le vesti di monarchia teocratica, si governava di fatto a repubblica il cui Parlamento, uno dei più antichi d’Europa, svolgeva un ruolo centrale. Questa particolarissima istituzione, cui partecipavano le tre classi del clero, dei nobili e dei comuni, "senza però far mai una politica di classe, ma sempre provvedendo ai maggiori interessi della Patria" (25), aveva nel Consiglio il proprio organo esecutivo. Convocato dal Patriarca, anche più volte l’anno (ma giunto al punto di controllarne l’operato), svolgeva un’intensa attività legislativa da cui nacquero, nel corso del 1300, le Costituzioni della Patria del Friuli. Nel resto d’Italia, generalmente, i Comuni erano sorti in opposizione all’aristocrazia feudale; in Friuli, invece, la vita comunale di Udine e Cividale si sviluppò attraverso una efficace collaborazione tra borghesia mercantile e lo stesso patriarca che, bisognoso di appoggi contro i suoi potenti nemici esterni, non costituiva affatto un pericolo per i ceti popolari in ascesa. In pratica, se la forma dello Stato patriarchino era quella teocratico-feudale, si può affermare senza tema di cadere in un eccessivo anacronismo che la sostanza era molto vicina a quella di una libera Repubblica. (26)
Abbiamo detto che il Patriarcato di Aquileia era lo stato più esteso dell’Italia centro-settentrionale, ma era anche uno dei più deboli: in un certo senso, potè sopravvivere nei circa 170 anni dei patriarchi guelfi perché molti dei suoi aggressivi vicini, non riuscendo a mettersi d’accordo sulla sua spartizione, trovavano preferibile mantenerne l’indipendenza formale. Sulla carta costituiva un’entità ragguardevole: andava dal Livenza all’Isonzo ed oltre; comprendeva il Cadore, la Carnia, parti dell’Istria tra cui Pola (persa nel 1331 a favore di Venezia) e la stessa Trieste, almeno fino al 1295 (e che nel 1368 farà atto di dedizione agli Asburgo per sfuggire all’inevitabile conquista veneziana). Ad est, la Contea di Gorizia (nominalmente vassalla del patriarca) è la sua peggior spina nel fianco; ai conti di Gorizia appartengono una serie di feudi all’interno del Friuli, tra cui Ramuscello (vicino a Concordia), S. Vito al Tagliamento e Pordenone. Una delle due capitali patriarchine, Cividale sul fiume Natisone, è a un passo dal confine, esposta in ogni momento alla minaccia goriziana. Solo dal 1323, quando al defunto Enrico II succedette il figlioletto Giovanni Enrico di due mesi e quindi, in pratica, la bella e intelligente vedova Beatrice di Baviera, i rapporti col patriarca aquileiese cominciarono a distendersi.(27)
Tra le valli superiori dell’Isonzo e della Sava si estendeva il feudo di Veldes che, insieme ad alcune località del Tirolo meridionale (oggi Alto-Adige) apparteneva al vescovo-conte di Bressanone (la cui giurisdizione, peraltro, non era a contatto diretto con quella dell’assai più potente principe-vescovo di Trento, bensì con quella dei Caminesi che si spingeva fino ad Agordo, nella valle del Cordevole, e includeva i due vescovadi di Ceneda e Feltre). A nord delle Alpi Carniche il Patriarcato di Aquileia confinava con il Ducato di Carinzia e con un feudo del vescovo-conte di Bamberga (in Baviera) che comprendeva Villach, sul fiume Drava, e Tarvis (che allora era un semplice villaggio di minatori, boscaioli e pastori) nell’alta Val Canale.(28) A est del feudo di Veldes (pertinente, come si è detto, al Vescovado di Bamberga), nella valle superiore della Sava, il Patriarcato aquileiese confinava anche con un feudo del vescovo-conte di Frisinga, altra città tedesca della Baviera; più a sud-est, oltre che con la Contea di Gorizia, col Ducato di Carniola. Ancora più a sud, come si è visto, manteneva alcune enclaves in Istria e, dopo la perdita delle zone costiere (Pola, Capodistria e la stessa Trieste) conserverà ancora per qualche anno, in una vicenda piuttosto confusa di partenze e ritorni, un discreto settore di quella che oggi è nota come Ciceria o Istria rossa (la parte montuosa a nord della Penisola) con i paesi di Pinguente e Montona. Infine, a ovest le terre del patriarca erano limitate dai dominii dei Caminesi (sulla Livenza) e di Venezia (che controllava anche la foce del Tagliamento e, quindi, l’accesso alla Laguna di Grado). (29)
Questo era il Patriarcato di Aquileia ai primi del 1300, al tempo, cioè, dell’esilio di Dante Alighieri.Una specie di mondo a parte, diversissimo dalle altre signorie dell’Italia del nord; un mondo solo in parte italiano, dominato da feudatari tedeschi, da patriarchi che furono a lungo, anch’essi, tedeschi (durante il periodo ghibellino soprattutto). Un mondo non privo di bellezza, ricoperto da estese foreste popolate di cinghiali, lupi e orsi; un mondo caratterizzato da aspetti politici anche avanzati, ma minato inesorabilmente da una debolezza strutturale: l’estrema arretratezza giuridico-sociale delle sue plebi contadine, ridotte ancora, in gran parte, alla misera condizione di serve della gleba.(30)
È possibile che Dante, se anche viaggiò di persona in questi luoghi e ascoltò con i propri orecchi quel rustico accento che doveva tanto colpirlo (31), e se si spinse, come è possibile, fino al golfo del Quarnaro, si sia posto il problema se era arrivato al limite estremo dell’Italia? Cercheremo di rispondere alla domanda spostando la nostra attenzione dalla Divina Commedia alle opere minori in latino, e precisamente al trattato linguistico De vulgari eloquentia. Scritto, probabilente, tra la fine del 1303 e quella del 1304, quindi nei primi anni dell’esilio e contemporaneamente al Convivio, è rimasto, come quello, bruscamente interrotto: dei quattro libri progettati non ce ne restano che due, e del secondo, che mostra tracce evidenti di una stesura frettolosa, solo quattordici capitoli.Nel primo libro, il più ricco e interessante, Dante, fra l’altro, esamina i quattordici dialetti italiani regionali (che si suddividono, a loro volta, in varietà di secondo e terzo grado, ossia le parlate municipali, assommanti a più di mille). Dante passa in rassegna i quattordici dialetti principali ad uno ad uno, per vedere se ve ne sia uno capace di assurgere al rango di lingua d’arte; ma nessuno ne è all’altezza: non il siciliano, non il toscano e neppure il bolognese, che pure si presenta come il più elevato.
"L’eccellenza del volgare [rispetto al latino] è stata solo di quei poeti che hanno saputo staccarsi dal loro dialetto, come già alcuni siciliani, Guido Guinizzelli ed altri bolognesi, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Dante stesso e Cino da Pistoia. Parlando di questo volgare che supera i dialetti regionali e municipali, il tono di Dante si fa quasi di esaltatore e di profeta, come già nel Convivio. Egli chiama questo volgare ideale illustre, cardinale (perché è come il cardine della porta nei confronti dei dialetti) aulicoe e curiale (perché lingua della reggia e del senato, che non esistono di fatto, ma dovrebbero comprendere i migliori Italiani, come una Curia ideale)." (32)
E’ notevole il fatto che Dante, a questo punto, ha già compiuto il passo che separa l’idea di italianità geografica e linguistica da quella di un’italianità culturale e spirituale.Scrive infatti, a margine di questo passaggio del De vulgari eloquentia, un illustre studioso come Siro A. Chimenz: "Come prima l’unità geografica e l’unità linguistica, così ora Dante afferma e precisa l’unità nazionale d’Italia, sentita come unità spirituale:" (33)
Ed ecco i quattordici dialetti regionali individuati dal Nostro, nell’ordine in cui li espone:
1 — il siciliano (reso illustre dalla prima scuola poetica in volgare, al tempo di Federico II e Manfredi;
2- il pugliese (con questo termine pare che Dante intenda il volgare parlato nella maggior parte dell’Italia meridionale continentale e starebbe, quindi, piuttosto per "napoletano") (34);
3- il romano (esclusa la Sabinia, e che Dante giudica il più brutto);
4 — lo spoletano (cioè quello parlato nel vecchio Ducato di Spoleto, corrispondente all’Umbria e alla Sabinia: il volgare di S. Francesco e di Jacopone da Todi;
5 — il toscano (che si arroga il vanto d’essere il volgare illustre, ma è solo un "turpiloquio";
6 — il genovese;
7 — il sardo (che è solo una scadente imitazione del latino);
8 — il calabrese;
9 — l’anconetano (parlato nella terra "che siede tra Romagna e quel di Carlo", come dice in Purg:, V, 69, cioè tra la Romagna e gli Abruzzi, parte del regno di Carlo d’Angiò);
10 — il romagnolo;
11- il lombardo (cioè quello parlato non solo in Lombardia ma anche in ampie zone del Piemonte, dell’Emilia e del Veneto);
12 — il trevigiano e il veneziano (intendendo per "trevigiano" quello parlato nella Marca Trevigiana ch’era molto più estesa dell’attuale);
13 — il friulano (che Dante chiama "aquileiense", riferendosi al patriarcato di Aquileia, e che giudica negativamente perché "erutta" suoni crudelmente laceranti, come il tipico Ce fastu?) (35);
14 — l’istriano.(36).
Che dall’esame e dal confronto dei vari volgari regionali, comunque, Dante abbia tratto la capacità di elaborare l’idea, o quanto meno, il presentimento di una unità nazionale necessaria all’Italia, sia pure come punto d’arrivo di un processo storico-culturale e non già come dato attualmente definito, è convinzione anche di Mario Pazzaglia. Scrive infatti l’illustre studioso: "Se noi italiani avessimo in Italia una corte, [il volgare illustre ] sarebbe il solo degno di essere parlato in essa, [e sarebbe curiale] perché curialità significa la norma ben ponderata dell’agire umano secondo ragione e legge, quale si attua nella Curia o corte, che rappresenta il centro culturale e quindi l’anima della nazione. Se ora manca propriamente in Italia una corte unificata da un sommo principe, vi sono però le sue membra, unificate dal dono divino che è la luce della ragione. Esse sono costituite dagli Italiani forniti d’ingegno e di scienza, i quali facendo sì che la lingua assurga mediante l’arte all’espressione dei più alti valori spirituali, sono gli animatori del sentimento di unità nazionale.".E conclude: "[Dante] avverte vigorosamente l’unità della nazione italiana, cogliendola nell’unità della comune discendenza da Roma, dei costumi, della cultura, della lingua, che sente come espressione dello spirito e della storia di un popolo." (37)
Le esatte parole di Dante, al riguardo, sono queste: "Ma se noi manchiamo di Curia dir ch’egli [cioè il volgare illustre] sia stato misurato nella eccellentissima Curia d’Italia potrebbe tenersi un parlar fabuloso: al che rispondiamo che sebbene un’unica Curia appo noi non sia, come sarebbe quella del Re di Lamagna, pur non ci mancano le sue membra; e come nella persona di un Principe le membra di quella si accolgono, così le membra di questa nel benefico lume della ragione. Dunque sarebbe falso asserire che gli Italici non hanno Curia, quantunque privati di un Principe: perché invece l’abbiamo, sebbene le sue membra siano disperse." (38)
Intuizione notevole, questa, sia per quel che riguarda la funzione unificatrice, anche dal punto di vista linguistico, della Curia cioè di un centro politico (e il pensiero corre, oltre che alla Germania, alla Francia del nord e alla lingua d’oil "creata" dalle esigenze della corte parigina), sia per quel presentimento del "destino" storico delle nazioni di conseguire, traverso l’unificazione linguistica e culturale, quella politica. Si obietterà che qui Dante è in contraddizione con se stesso, cioè con le idee politiche che esprimerà nel De Monarchia e in molti luoghi della Divina Commedia oltre che nelle Epistole in latino: cioè che gli Italiani dovrebbero "lasciar sedere Cesare in la sella", ossia riconoscere l’alta sovranità dell’imperatore tedesco. Rispondiamo che tra la stesura del De vulgari eloquentia e quella del De Monarchia corrono parecchi anni di esilio, quelli decisivi per l’evoluzione del suo pensiero politico; che, per lui, l’imperatore non è tedesco ma, al di sopra del principio nazionale, è il rappresentante dell’unità cristiana e il legittimo discendente di Cesare e Augusto; che, infine, il massimo poeta italiano d’ogni tempo rispecchia perfettamente quella italianissima propensione ad alternare, nel giudizio sulla propria patria, un ruvido e disincantato scetticismo a degli scatti d’orgoglio e di consapevolezza delle sue grandi possibilità, quantunque non mai pienamente espresse.
È, questo, anche il parere di Nicola Maggi, che osserva: "L’Italia ha la Curia nelle vene, per così dire, se non altro perché essa è l’erede, genetica se si vuole, della sapienza romana. E, per quanto imbarbarita e umiliata, asservita e profanata, i lampi di questa sapienza ancora le consentono di essere maestra di dottrina e luce di civiltà. È l’ambivalenza caratteristica di Dante, in eterno diviso tra l’orgoglio d’una romanità sempre dichiarata e lo scoramento per un’abiezione storica che non vuole finire." (39) Insomma Dante, nonostante l’aspirazione profonda alla pace in un’Italia lacerata da odii feroci e percorsa da torme di sbanditi rancorosi e vendicativi, sia guelfi che ghibellini, e le vicende dolorose del suo personale esilio che lo spingevano sempre più su posizioni filo-imperiali, ebbe non solo amor di patria e piena consapevolezza della sua missione spirituale nel mondo, ma anche l’aspirazione a una unità nazionale che riunisse, per usare la sua espressione, le sue "sparse membra", cioè le sue realtà locali frammentate linguisticamente e culturalmente oltre che politicamente (40) Certo, non aveva né poteva avere l’idea, tutta moderna, dello Stato nazionale, poiché l’unità dell’Impero veniva prima di quella nazionale e non solo sul piano simbolico e ideale, ma anche su quello pratico e reale. Politicamente, da questo punto di vista, era ancora — com’è stato più volte osservato — un vero uomo del Medioevo e quindi in ritardo rispetto all’evoluzione storica dell’Europa, ove già Francia e Inghilterra, per esempio, si andavano costituendo quali monarchie nazionali del tutto indipendenti dal Sacro Romano Impero, nonché (come si vide in occasione del conflitto tra Filippo IV il Bello e papa Bonifazio VIII) dall’altro antico potere universale, quello della Chiesa. Ma egli aveva compiuto la propria formazione politica all’interno della realtà comunale di Firenze, dove aveva fatto il suo apprendistato e ricoperto anche la carica massima, quella di priore; e benchè il soggiorno, durante l’esilio, presso potenti signorie come quella degli Scaligeri a Verona, dei Caminesi a Treviso e dei Da Polenta a Ravenna valesse certamente ad aprirgli la mente sulle nuove realtà politiche che si andavano formando ovunque sulle rovine della società comunale, in lui rimase sempre una sorta di nostalgia per il "buon tempo antico", testimoniata anche esplicitamente da alcuni passi famosi della Divina Commedia. (41) Che poi, nella sua potente personalità, la nostalgia per l’antico si fondesse in parte con il presentimento, modernissimo, della necessità di un governo universale che ridesse pace e giustizia agli uomini e consentisse loro, aristotelicamente, di sviluppare pienamente la propria natura razionale, in accordo con il disegno divino cui fermamente credeva, è questione che meriterebbe una trattazione a parte ed aprirebbe la strada a molte considerazioni che, ora, non possiamo svolgere.(42)
Abbiamo inteso dimostrare che Dante credette nell’unità ideale della patria italiana e considerò auspicabile e necessaria la sua realizzazione, sia pure entro la cornice dei due "Soli" dai quali unicamente, secondo la sua concezione, potevano venire la sicurezza e il benessere materiale e la salute dell’anima, scopo ultimo della vita terrena. Di conseguenza, non è questione oziosa chiedersi, e pensiamo si possa rispondervi affermativamente, se l’Italia avesse per lui dei confini politici, oltre che linguistici e culturali. Sappiamo, ad esempio, che considerava i volgari di Alessandria, Torino e Trento come non puri, a causa della loro posizione periferica e, quindi, alla vicinanza con altre regioni linguistiche (l’occitanica per le prime due città, l’alto-tedesca per la terza) (43). Quanto al confine orientale, lui stesso afferma esplicitamente che tanto il Friuli quanto l’Istria sono parte del "versante adriatico" della Penisola, dunque considera l’Istria parte integrante dell’Italia non solo linguisticamente, ma anche storicamente e, quindi, politicamente. (44) La cosa appare tanto più naturale quando si ricordi che l’Istria, come abbiamo detto, ai primi del 1300 era quasi tutta sottoposta al dominio di Venezia, o del Patriarca di Aquileia, o dei conti di Gorizia e che i primi due erano considerati sicuramente stati italiani, il terzo, nonostante il carattere tedesco dei suoi signori e dei suoi nobili, parzialmente italiano anch’esso, non foss’altro per gli stretti, quantunque complessi e anche contraddittori rapporti, che intratteneva col patriarca e con vari signori dell’area veneta..
Siamo dunque arrivati alla conclusione che gli argomenti portati da Tommaso Di Salvo per negare che Dante considerasse il Quarnaro come il confine d’Italia del suo tempo, sono speciosi e non reggono al vaglio di una critica conseguente. Ricapitolando: Dante credeva nell’unità ideale dell’Italia, anche in senso politico; credeva che la natura le avesse assegnato dei confini, e che i confini naturali press’a poco coincidessero con quelli linguistici e politici; credeva che non solo il Friuli (intendendo sia la regione storica odierna, sia il territorio molto più vasto del Patriarcato, Goriziano compreso) ma anche l’Istria ed, evidentemente, la regione che collega l’uno all’altra, ossia il Carso (litorale triestino e capitanato di Postumia) facessero parte dell’Italia a tutti gli effettti; dunque credeva che il golfo del Quarnaro, fra l’Istria e la Dalmazia, costituisse la frontiera orientale dell’Italia.
Quanto a Fiume, cui pure allude Di Salvo, il discorso è diverso, poiché essa faceva parte della Croazia che era inglobata, all’epoca, nel Regno d’Ungheria e quindi era al di fuori sia dei possedimenti di Venezia, Patriarcato e Gorizia, sia del Ducato di Carniola che, come la Contea di Cilli, i ducati di Stiria e di Carinzia e la Contea del Tirolo, facevano parte dell’Austria e quindi del Sacro Romano Impero.La città di Fiume era stata fondata dai Veneziani presso il luogo dell’antica Tharsatica, alla foce di un piccolo fiume (Rjecina, appunto, ossia fiumicello, in croato) chiamato Eneo, che oggi separa il centro cittadino dal quartiere orientale di Susak, ai piedi di un anfiteatro rocioso del Carso. Poi, gradualmente, era cresciuta in prosperità e potenza, fino a divenire una temibile rivale commerciale di Venezia nell’Adriatico orientale, inizialmente sotto il dominio dei sovrani di Croazia, poi alle dipendenze dei vescovi di Pola. Dal 1139 fino al 1400 circa, la sovranità su Fiume fu esercitata dai conti di Duino, potenti signori feudali di cui torneremo a parlare tra breve; ma si trattò in effetti di una sovranità in gran parte nominale, tanto che Fiume potè di fatto reggersi a Comune semi-indipendente sino a quando, tra il 1466 e il 1471, sarebbe finita sotto il dominio degli Asburgo. (45)
Tuttavia, poiché le "epoche nazionalistiche" cui parla il Di Salvo alludono chiaramente al periodo della cosiddetta "Questione di Fiume", tra il 1918 (fine della prima guerra mondiale e crollo della monarchia asburgica) e il 1924 (spartizione dello Stato Libero di Fiume tra Italia e Regno Serbo-Croato-Sloveno e annessione all’Italia del centro cittadino, abitato in larghissima maggioranza da italiani), non sarà male spendere ancora qualche parola su questo punto. In primo luogo va ricordato che "i fiumani avevano sempre mantenuto nei secoli lingua e costumi di vita italiani, così come sempre difeso le particolari autonomie comunali, conservate anche passando la città di Fiume sotto gli Asburgo in qualità di bene personale dell’Imperatore." (46) Ciò è confermato, tra l’altro,dal fatto che il governop ungherese continuò sempre a rivolgersi alle autorità del Comune autonomo di Fiume, anche nell’ultimo periodo storico del suo dominio, dal 1867 al 1918, in lingua italiana: riconoscimento esplicito del fallimento di ogni tentativo di snazionalizzazione. (47)
Il nome dell’Alighieri divenne anche per gli Italiani di Fiume, come per quelli di Trento e Trieste, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, un simbolo e un auspicio di riunificazione alla madrepatria, tanto che nel 1908 e nel 1911 i soci della società culturale (in realtà patriottica) "Giovine Fiume" parteciparono alle celebrazioni dantesche in Ravenna, attirandosi la persecuzione della polizia austriaca. È vero, inoltre,
che il ricordo di Dante e la citazione del verso citato"presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna" verranno utilizzati copiosamente nell’oratoria e nella pubblicistica dannunziana, all’epoca dell’impresa di Fiume e della cosiddetta "Reggenza del Carnaro".Ne facciamo due esempi.
In un celebre discorso, pubblicato poi sul numero del 25 ottobre 1919 del Bollettino Ufficiale fiumano, Gabriele D’Annunzio aveva, tra l’altro, affermato: "Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie [allusione al Passo di Vrata, 879 metri s.l.m., che segna il limite orientale delle Alpi], è l’estrema rocca della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, si serbò italiano il Carnaro di Dante…". (48) La seconda citazione dantesca, che è una semplice rielaborazione della prima, compare sulla Carta del Carnaro, la carta costituzionale elaborata durante la Reggenza dannunziana, nel marzo 1920, e redatta in gran parte da Alceste De Ambris (ma il brano in questione è del poeta di Pescara): "Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie, è l’estrema rocca della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, di vicenda in vicenda, di lotta in lotta, di passione in passione, si serbò italiano il Carnaro di Dante. Da lei s’irraggiarono e s’irraggiano gli spiriti dell’italianità per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe. E questo è il suo diritto storico…" (49)
Ebbene, non ci sembra che si possa né far colpa a Dante di essere stato utilizzato a questo modo da coloro che volevano l’unione di Fiume all’Italia, né a costoro di aver fatto appello al sommo poeta che nei versi della Divina Commedia aveva suggellato il Quarnaro come confine orientale italiano, in accordo con la geografia e con la storia. Certo, Dante non specifica quale sponda del Quarnaro consideri la frontiera dell’Italia; a voler essere pignoli, si potrebbe arguire che, visto il riferimento alla città di Pola (che non è presso il Quarnaro, ma sulla costa occidentale istriana), avesse in mente — e qui possiamo dar ragione al Di Salvo — l’antica divisione amministrativa romana imperiale. La X regio dell’Italia augustea, denominata Venetia et Histria, non comprendeva, infatti, tutta quest’ultima penisola, poiché il suo confine orientale (con la Pannonia Superior e con la Dalmatia) era delimitato dal fiume Arsa, che sfocia in un fiordo, o vallone, profondamente inciso, presso Castelnuovo d’Arsa. (50) E tale rimase, dopo la restaurazione imperiale di Carlo Magno, quando intorno al Mille l’antica regio augustea fu ricalcata dalla Marca di Verona e Aquileia, comprendente l’Istria, ma solo fino all’Arsa (mentre il litorale occidentale era già in mano ai Veneziani). Né il lembo più orientale della penisola istriana, dunque, né tanto meno Fiume ne facevano parte. (51) Ciò non toglie che i Croati, giunti buoni ultimi non prima del VI-VII secolo (dopo Illiri, Romani, Ostrogoti, Ávari, Bizantini) non arrivarono mai a interrompere la continuità fra gli Italiani dell’Istria occidentale e quelli di Fiume e delle isole di Cherso e Lussino (ove a tutt’oggi le persone anziane parlano un dialetto veneziano); e anche questo è un fatto (52).
Tanto andava detto per onorare la completezza e la verità storica; ma poiché avevamo negato legittimità ai tentativi di strumentalizzare i versi di Dante in chiave di polemica nazionalistica, qui facciamo punto e passiamo alla questione che ci eravamo posta, quella cioè della eventuale presenza fisica del sommo poeta nelle terre della Venezia Giulia.
Fin da subito dobbiamo chiarire, per non dare adito all’accusa di anacronismo, che al tempo di Dante , e ancora per molti secoli, l’espressione "Venezia Giulia" non esisteva affatto. Essa venne coniata dal linguista Graziadio Isaia Ascoli (nato a Gorizia nel 1829 e morto a Milano nel 1907), nel 1863, per indicare le terre "irredente" poste tra il Friuli orientale e il Quarnaro, terre che rimasero all’Austria anche dopo la terza guerra d’indipendenza (1866) e che passarono all’Italia solo dopo la prima guerra mondiale.(53) Formalmente, ciò avvenne con il trattato di S. Germain en Laye (10 settembre 1919) con la Repubblica austriaca e, poi, con il trattato di Rapallo (12 novembre 1920) con la Jugoslavia, che lasciavano aperto il problema di Fiume ma definivano la controversia sulla Dalmazia (con l’annessione all’Italia della città di Zara, del suo retroterra e dell’isola di Pelagosa, oltre a Cherso e Lussino). Questi fatti portarono alla costituzione di una nuova regione amministrativa, (chiamata, nel linguaggio giuridico di allora, compartimento), la Venezia Giulia, con capoluogo Trieste, formata dalle province di Trieste, Gorizia (molto più estese delle attuali), Pola e, più tardi (nel 1924), Fiume. Oltre che assai recente e determinato, in parte, da ragioni di carattere irredentistico (Ascoli era nato cittadino austriaco e si era poi trasferito a Milano, anche per ragioni politiche), il termine "Venezia Giulia" pecca di una certa indeterminatezza, poiché non è chiarissimo se con esso si intenda compresa anche l’Istria, o se quest’ultima sia considerata un’entità a parte. (54) Ascoli era un glottologo e il suo pensiero, nel coniare la nuova espressione, muoveva essenzialmente da presupposti di natura linguistica, oltre che geografica: abbiamo visto che il Passo di Vrata (col Monte Nevoso) e il golfo del Quarnaro sono sempre stati considerati il limite orientale geografico e, al tempo stesso, culturale dell’Italia. Aggiungendo ai motivi geografici quelli della storia recente, noi per comodità useremo il termine "Venezia Giulia" per indicare il nuovo compartimento creato nel 1919 e che andava da Tarvisio, a nord (già nell’area culturale tedesca, oltre che al di là dello spartiacque naturale delle Alpi), giù giù lungo la valle dell’Isonzo e il Carso, sino a Fiume, l’Istria, Cherso, Lussino (ma non Zara) verso sud, e comprendendovi Gorizia, Gradisca, Grado, Monfalcone, Trieste e Muggia, tutte località che erano rimaste austriache (o ungheresi, nel caso di Fiume) sino al novembre 1918. (55)
Eccoci dunque al punto: Dante Alighieri visitò di persona queste terre?
Dobbiamo premettere con molta onestà, dopo aver fatto accurate ricerche, che l’itinerario degli spostamenti di Dante durante il lungo esilio da Firenze, tra il 1302 e gli ultimi due anni a Ravenna, nel 1320-21, presenta molte lacune, molte zone d’ombra, molte pagine bianche e punti interrogativi che forse non verranno mai del tutto chiariti (56). Per esempio, si è mai spinto più in giù di Roma, lui che passa in rassegna tutti i dialetti della Penisola, e afferma di averla girata quasi interamente? (57) Alcuni, tra cui Carlo Salinari, danno per probabile un soggiorno a Napoli (58); ma la cosa è alquanto controversa, e la maggior parte degli studiosi la negano o la destituiscono di ogni riscontro positivo. Inoltre, per non essere accusati di ingenuità, dobbiamo essere consapevoli che un certo qual senso di orgoglio municipale ha creato, in molti luoghi della Penisola (e talvolta anche fuori), in una specie di congiura inconsapevole con la credulità e il puntiglio dei suoi antichi studiosi e ammiratori, decisi a colmare le lacune dei suoi viaggi o a perfezionarne l’immagine (vedi il soggiorno a Parigi per frequentare la Sorbona, e perfino in Inghilterra per studiare a Oxford) (59) una serie di leggende locali, secondo le quali Dante sarebbe stato in numerosissimi luoghi, talvolta i più impensati. In genere, per le località "minori" (non potendo vantare il prestigio di istituzioni culturali o la presenza di altri intellettuali di valore) sono le bellezze del paesaggio naturale che lo avrebbero attirato, colpito e ispirato per la descrizione dei luoghi del suo poema, in questo o quel passo, generalmente della prima e seconda cantica (ma non solo).
Così, tanto per fare un esempio, e per voler rimanere nell’ambito di quel Patriarcato di Aquileia in cui alcuni vogliono che sia stato, lo scrittore friulano Carlo Sgorlon riporta la leggenda del passaggio di Dante attraverso la Val Cellina, nelle Prealpi Carniche, le cui gole spettacolari ben avrebbero potuto suggerirgli i luoghi aspri e dirupati della prima cantica, dalla sublime grandiosità che trascolora nell’orrido e nel pauroso. (60) Diciamo pure che sono legione i paesi o le vallate, specialmente dell’Italia nord-orientale, che coltivano glorie vere o supposte di questo genere, ed è una fatica di Sisifo quella di cercar di separare quelle da queste, quantunque non sia cosa priva d’interesse.
Ricapitoliamo, a grandi linee, le tappe praticamente certe dei viaggi di Dante durante l’esilio:
1301-1302, a Roma (prima della condanna da parte dei vittoriosi guelfi Neri),
1302-1303: a Forlì, presso Scarpetta degli Ordelaffi;
1303-1304: a Verona, presso Bartolomeo Della Scala,
1304-1306: a Treviso, presso Gherardo Da Camino (forse anche a Padova e a Reggio Emilia, presso Guido da Castello);
1306-1307: a Sarzana, in Lunigiana, presso i Malaspina;
1308-1311: peregrinazioni frequenti ma per lo più non rintracciabili; forse a Lucca, forse a Parigi, e dimora certa nel Casentino, al momento della discesa di Arrigo VII di Lussemburgo;
1312: a Pisa (nel marzo-aprile);
1313-1318: secondo soggiorno a Verona, ospite di Cangrande Della Scala;
1320: ancora a Verona (in gennaio), per pronunziare la dissertazione De Aqua et Terra.
1319-21: a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta (e a Venezia, presso il governo della Serenissima, in missione diplomatica per conto dello stesso). (61)
Balza all’occhio, da una scorsa anche sommaria a questo elenco, che gli anni più misteriosi della vita di Dante sono quelli che vanno dal 1308 al 1313; cinque anni talmente nebulosi che qualcuno ha pensato di collocarvi un viaggio a piedi fino a Parigi, e magari anche in Inghilterra, a costo di lavorare un po’ di fantasia. "Boccaccio riferisce la notizia del viaggio in Inghilterra in un carme latino col quale avrebbe accompagnato il dono di una copia della Commedia al Petrarca. Se ne sarebbe avuta un’eco, un secolo dopo Dante, in un commento alla Commedia del vescovo di Fermo, Giovanni da Serravalle."(62)
La critica dantesca "ufficiale", cioè quella accademica, ha sempre ritenuto di seguire la via opposta, quella di non credere — come san Tommaso — a niente che non potesse, per così dire, vedere e toccare con mano. Risultato: l’agenda degli spostamenti di Dante, e non solo nel lustro anzidetto, torna ad apparire quasi tutta di pagine bianche; perfino il soggiorno a Treviso viene revocato in dubbio, figuriamoci quello a Padova; pare che niente o quasi niente si possa più affermare con sicurezza, su ogni notizia incombono esigentissime e minacciose le forbici di una critica implacabile, demolitrice. (63) È accaduto un po’ (il paragone non sembri irriguardoso) quel che si è visto per gli "anni nascosti" di Cristo, che alcuni studiosi han voluto ipotizzare impegnato in viaggi lunghissimi, non solo in Egitto, ma fino in Persia, in India, nel Kashmir e in Tibet. (64) Questo perché la biografia dei grandi uomini stimola la nostra curiosità; non ci bastano le loro opere, le loro parole, le avare testimonianze sopravvissute all’oltraggio dei secoli: vorremmo sapere di più. E la stessa cosa è accaduta a Virgilio, che nel Medioevo è stato trasformato dalla credenza popolare in un mago, un negromante e un taumaturgo, oltre che nel depositario di una scienza sovrumana e segreta. (65).
Ora noi passeremo in rassegna quei luoghi della Venezia Giulia che vantano qualche documento più o meno ambiguo, o semplicemente qualche tradizione popolare più o meno remota, tendenti ad affermare il passaggio di Dante durante l’esilio, in genere nel periodo 1308-1313. Non potremo approfondire dettagliatamente, uno per uno, questi casi: ci limiteremo a fornire le notizie essenziali, rimandando chi lo desiderasse a una specifica bibliografia. Una cosa apparirà subito chiara: sono molte le città e i paesi di questa regione che vantano una presenza di Dante: occorrerà mantenere un atteggiamento critico equilibrato nei confronti di tali tradizioni, lontano sia dalla credulità a buon mercato, magari per ragioni puramente campanilistiche, sia dalla negazione preconcetta; poiché è noto che le leggende non necessariamente nascono dalla pura e semplice fantasia e, quanto ai documenti scritti, quelli del Medioevo sono spesso, e non solo in questo caso, un po’ ambigui e reticenti.
UDINE.-
"Se è vero che negli ultimi anni Dante diventò politicamente più morbido e possibilista, avvicinandosi ai guelfi, non pare da escludere una sua visita ad Udine, presso il patriarca Pagano della Torre. Ma brancoliamo tra i se." (66) Abbiamo visto, però, che Pagano della Torre venne in Friuli nel 1319, dunque, se ospitò Dante a Udine, il viaggio del poeta in quei luoghi si collocherebbe negli ultimi due anni della sua vita: dopo aver lasciato Verona (ma vi ritornò, fugacemente, all’inizio del 1320) e prima di passare a Ravenna. Sia cronologicamente che geograficamente, la cosa è possibile. C’è tuttavia un elemento di natura politica, che la rende un po’ indaginosa e che richiede una spiegazione non brevissima, facendo riferimento ai complessi rapporti diplomatici che esistevano allora fra la Curia di Avignone e le due casate milanesi rivali dei Visconti e dei Torriani, alla quale ultima apparteneva il patriarca di Aquileia.
Dante condivideva pienamente l’avversione di Matteo Visconti e di suo figlio Galeazzo per il papa francese Giovanni XXII (al secolo Jacques Duèse o D’Euse), il nermico dei fraticelli che vennero da lui condannati come ribelli nel 1318 (Ubertino da Casale, Angelo Clareno, Michele da Cesena).Ne fa menzione in due passi della Divina Commedia, e ne parla male.(67) Abbiamo già detto, anzi, che Dante venne implicato in qualche modo nel processo di Bartolomeo Cagnolati per il tentativo di assassinio magico del papa, commissionato dai Visconti. Ora, questi ultimi erano nemici mortali dei Della Torre, che nel 1302 li avevano sconfitti ed esiliati, per poi subire a loro volta lo stesso destino, nel 1311. Il 3 settembre del 1320 Giovanni XXII aveva reso pubblica la scomunica di Matteo Visconti (che aveva costretto alle dimissioni l’arcivescovo milanese Cassonno della Torre e lo aveva sostituito con il proprio figlio Giovanni Visconti). Tale gravissimo provvedimento era dovuto alle seguenti imputazioni, più o meno artatamente gonfiate; appropriazione dei beni della Chiesa milanese; eresia, e precisamente catarismo; aver dato aiuto a fra’ Dolcino nella crociata bandita contro di lui da Clemente V, nel 1306; pratica della magia nera , nella fattispecie convocando Dante Alighieri come negromante, evocando i dèmoni e tenendone due al suo servizio, uno in un buco e l’altro alla fonte di S. Calocero, detta "fonte di Orisia".(68) Matteo non si era presentato a discolparsi ed era venuto a morte nel 1322, mentre il legato pontificio Bertrando del Poggetto (nipote del papa) aveva iniziato una campagna di guerra contro Galeazzo Visconti in Lombardia, alla quale partecipò anche, personalmente, Pagano della Torre con le sue milizie friulane.(69)
Difficile, dunque, pensare che Matteo e Galeazzo Visconti avessero mandato a chiamare, o pensato di mandare a chiamare (la cosa non è chiara) Dante, più o meno all’epoca in cui questi si trovava presso un loro acerrimo nemico quale Pagano della Torre — sebbene, all’epoca del processo, la guerra non fosse ancora incominciata. Certo, nella caotica situazione politica dell’Italia ai primi del 1300, tutto era possibile; e Dante, come esule, doveva un po’ barcamenarsi fra i suoi litigiosi protettori, senza guardar troppo per il sottile.(70)
Fino ad alcuni anni fa esisteva una tradizione, peraltro assai dubbia, secondo la quale fu a Udine che il poeta compose una parte della Divina Commedia, ma essa è stata definitivamente abbandonata.(71) Forse la sua nascita si spiega con l’esistenza, in Friuli, di ben cinque codici del poema dantesco: il Bartoliniano, il Fontaniniano, il Florio, il Torriano e il Claricini. Il primo di questi codici, così chiamato perché conservato attualmente nella Biblioteca Bartoliniana del Seminario Arcivescovile di Udine, nel 1823 venne pesantemente manipolato dall’editore Quirico Viviani. Il testo venne alterato e fu premessa al primo Canto una illustrazione che tendeva ad avvalorare la presenza di Dante in Friuli, ospite del conte goriziano Enrico II, poiché rappresentava il sommo poeta nella grotta di Tolmino, che era, come si è visto, sotto la giurisdizione del conte. Inoltre il Viviani suggeriva che il codice fosse autografo di Dante o, quanto meno, dettato da lui personalmente. Il codice venne datato dal Witte alla metà del XIV secolo: dunque si tratta di un documento preziosissimo, uno dei più antichi codici danteschi esistenti al mondo. E’ questo, forse, che ha alimentato la credenza che Udine sia stata la patria del poema.
GORIZIA.-
Esiste anche una tradizione che vuole Dante ospite, a Gorizia, del conte Enrico II, che abbiamo già ricordato come capitano generale a vita del patriarca Ottobono Rovari, nel 1314. Non ci sono peraltro elementi positivi a sostegno di questo soggiorno, se non, a parere di Cesare Marchi, l’amicizia che legava il conte goriziano a Cangrande Della Scala, alto patrono di Dante nel lustro che va dal 1313 al 1318.(72)
Noi, però, non possiamo consentire a tale affermazione, senza meglio precisarla. Enrico II era anche vicario imperiale per l’Italia, dopo che Matteo Visconti, che aveva ricevuto quella carica da Arrigo VII di Lussemburgo, aveva dovuto rinunziarvi definitivamente in seguito a una bolla di Giovanni XXII (marzo 1317) che vietava di portarlo a chi lo avesse ricevuto da quell’imperatore. Forte del prestigio del vicariato imperiale, Enrico di Gorizia, dopo avere lungamente tormentato il suo teorico signore, il patriarca aquileiese, aveva incominciato a stendere la sua longa manus in direzione della Marca Trevigiana, ove sperava di accrescere la sua potenza con l’aiuto di Guecello Da Camino.(73) Dapprima aveva cercato ambiguamente di inserirsi nella partita fra i trevigiani e Cangrande Dellla Scala, che mirava a impadronirsi della città sulle rive del Sile. Poi, dopo che i cittadini di Treviso avevano respinto vittoriosamente l’assalto scaligero (ottobre-novembre 1318) e successivamente richiesto l’aiuto del duca d’Austria Federico il Bello (re di Germania dal 1314 al 1322), all’inizio del 1319 vi era entrato per reggerla a nome di questi. (74) Difficile, dunque, parlare di amicizia fra Cangrande ed Enrico, specialmente se il soggiorno di Dante a Gorizia si deve collocare circa alla stessa epoca di quello udinese (a parte il fatto che un’ipotesi non può sorreggere validamente un’altra ipotesi, ed entrambi i soggiorni sono ipotetici), cioè non prima del 1319. Perché a quell’epoca i rapporti tra i due signori dovevano essere già arrivati al punto di rottura, dopo che Cangrande, ferito e furioso, aveva dovuto ritirarsi da Treviso ed Enrico, poco dopo, vi era entrato accolto come un salvatore.(75)
D’altra parte rimane aperta la possibilità di un soggiorno di Dante presso Enrico in anni precedenti. Ancora nell’ottobre del 1316, quest’ultimo si era recato a Verona, in visita solenne presso Cangrande, e aveva svolto il ruolo d’intermediario nel matrimonio politico tra il figlio di Guecello Da Camino e una nipote dello Scaligero. Il viaggio di Dante nel Friuli orientale potè avvenire a quell’epoca, cioè durante il suo secondo soggiorno veronese, accompagnando Enrico, per esempio, al ritorno di lui nei propri dominii. Forse allora Dante potè visitare Gorizia, la tedesca Görz, o forse, come pensa il Bassermann (lo vedremo tra poco) fu ospite del conte presso uno dei suoi maggiori castelli, ad Adelsberg (la slovena Postojna e l’italiana Postumia), che aveva sottratto al patriarca di Aquileia e che si rifiutava ostinatamente di restituirgli, nonostante le numerose convenzioni in proposito, forse col pretesto della probabile sospensione di un accordo del 1313 col quale le entrate patriarcali avrebbero dovuto passare, sic et simpliciter, al conte. (76)
Un episodio avvenuto alla fine dell’Ottocento rende bene l’idea di come la discussione sulla presenza di Dante a Gorizia tendesse a esasperarsi in termini di scontro politico, nel clima arroventato degli opposti nazionalismi. "Cento anni fa a Gorizia alcuni irredentisti volevano dipingere sul sipario del teatro motivi alludenti alla tradizione del soggiorno del poeta. Intervenne il governo austriaco, il quale, ergendosi a paladino del rigore scientifico, si oppose protestando che era ‘una falsità storica’. La pittura non si fece:" (77) Povero Alfred Bassermann, chissà cosa ne avrà pensato e quali antipatie si sarà attirato dai suoi fratelli di lingua, i tedeschi dell’Impero austriaco!
TOLMINO.-
Per quanto possa apparire strano, un eventuale soggiorno di Dante a Tolmino è fra quelli che hanno le maggiori probabilità di verosimiglianza, nell’area dell’attuale Venezia Giulia. Alfred Bassermann, uno dei massimi esperti di tali questioni, dopo aver studiato la documentazione esistente e dopo aver visitato accuratamente i luoghi, era fermamente convinto che l’Alighieri vi fosse stato. Ricordiamo che sia Tolmino, sull’alto Isonzo, sia Postumia, sull’altopiano della Ciceria, rientravano nei domini del patriarca di Aquileia e che entrambe le cittadine, proprio all’inizio del 1300, furono conquistate dal conte di Gorizia e inglobate nel suo dominio.
A pochi chilometri da Tolmino si aprono le suggestive gole della Tolminka e, attraverso di esse, si giunge all’apertura della Dantovna Jama, la Grotta di Dante. In questo luogo "i contadini parlano ancora del poeta, avvolto in un mantello rosso, seduto in atteggiamento pensoso all’ingresso d’una grotta, lunga oltre cento metri." (78) Fin qui, naturalmente, la leggenda popolare; ma esistono anche riscontri più puntuali.
Il Bassermann (79), che visitò il luogo al principio del Novecento, così lo descrive: "Una tal via io non aveva ancora percorso in vita mia. Figurati, o mio lettore, di essere inghiottito da una balena, la quale, prima che tu sia giunto nel ventricolo, siasi mutata in un fossile, e immagina di dovere attraverso ai visceri irrigiditi cercare il tuo cammino, e in tal guisa tu avrai a un di presso un concetto della mia condizione. (…) La questione che mi occupava era questa: in quale relazione si può porre Dante con questa spelonca? E già mentre mi arrampicavo avevo trovato la risposta: la relazione esiste in quella descrizione dell’ultimo canto dell’Inferno, ove Dante e Virgilio s’aggrappano, discendendo, alle coste di Lucifero:
tra il folto pelo e le gelate croste,
e dove più oltre si dice:
quando noi fummo là dove la coscia
si volge appunto in sul grosso dell’anche,
lo duca con fatica e con angoscia
volse la testa ov’egli avea le zanche,
ed aggrappossi al pel come uom che sale,
sì che in inferno io credea tornar anche.
[ Inf. XXXIV, 75 ]
"Era questa, la medesima situazione in cui io venni a trovarmi, descritta come non si potrebbe più fedelmente. Anzi la struttura della roccia, che quasi ovunque mostra delle superifci incurvate con sottili e lisci incrostamenti squamosi, induceva a pensare a qualcosa di organico, appunto alla coscia di Lucifero, lungo la quale conveniva scivolare. Qui poteva trovarsi il modello della cavità in cui Lucifero nella sua caduta dal cielo precipitò fermandosi al centro della terra. Con questa ricognizione, lo scopo della mia discesa alla caverna era raggiunto."(80)
Certo, qui lo studioso tedesco, per eccesso di entusiasmo, finisce per porre come acquisito ciò che resta da dimostrare, anticipando quel che potremmo dire "il metodo Heyerdahl" (l’archeologo norvegese che navigò su delle barche di giunchi attraverso l’Atlantico e il Pacifico per dimostrare che gli Egizi giunsero alle Antille e gli Incas alle isole dell’Oceania): confondere la dimostrazione di una possibilità con quella di una certezza.Tuttavia, non è ancora finita. Esiste anche una tradizione scritta che parla di Dante a Tolmino, che Jacopo da Valvasone (prima metà del XVII secolo) riferisce come cosa di antica data. La notizia dello storico sola non avrebbe certo avuto la vigoria — in ispecie in tempi e in regioni di tanto analfabetismo — di dare a un determinato luogo un nome così stabile come appare nel caso della caverna di Dante." (81)
Adolfo Cecilia, invece, nell’Enciclopedia dantesca si mostra alquanto scettico sulla questione e afferma che la presenza di Dante a Tolmino e negli altri dominii del conte di Gorizia è stata ipotizzata "senza fondamento valido." (82)
POSTUMIA.-
Per Postuma (la tedesca Adelsberg) si può fare un discorso analogo a quello di Tolmino, solo che qui i riferimenti topografici e letterari sono due: il lago di Cerknica e il monte Javornik. Essi corrisponderebbero, rispettivamente, al lago gelato del Cocito e al misterioso monte Tambernicchi che, se fosse precipitato nel primo, non ne avrebbe incrinato la superficie interamente ghiacciata: descrizione fatta da Dante nel XXII canto dell’Inferno.
Citiamo ancora Cesare Marchi: "A Postumia il lago di Cirknica, gelato d’inverno, gli avrebbe suggerito l’idea di Cocito, lastra di ghiaccio riservata ai traditori, e più dura dei ghiacci formati dal Danubio e dal Don:
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaì là sotto il freddo cielo,
com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse su caduto, o Pietrapana,
non avrìa pur dall’orlo fatto cricchi.
"Tambernicchi — aggiunge subito dopo – corrisponde all’odierno monte Javornik (metri 1.268) poco lontano da Postumia." (83)
In realtà, questo è uno di quei passi della Divina Commedia che hanno fatto spandere ai commentatori un vero e proprio fiume d’inchiostro, poco meno dell’incomprensibile Pape Satan aleppe del canto VII dell’Inferno. Perciò noi, pur convinti che tra la descrizione del Cocito e quella del monte Tambernicchi debba esistere una stretta relazione, cioè che Dante non avrebbe scelto a caso un monte che non avesse una qualche precisa relazione con il lago, per chiarezza espositiva separeremo le due questioni, quella del lago e quella del monte.Il sommo poeta ci perdonerà questo arbitrio che spezza inevitabilmente l’unità poetica dell’immagine, ma forse ci aiuterà a far maggiore chiarezza nell’intrico delle identificazioni geografiche proposte.
*a)_LAGO DI CERKNICA.-**
Il lago di Cerknica (o Cirknica), non lontano da Postumia, giace ai piedi del monte Pomario (Javornik), 1.268 metri s.l.m., e del monte Locnik, 1.097 metri, che è una propaggine settentrionale del monte Nevoso (Sneznik), 1.796 metri, il più alto di questa estrema sezione delle Alpi Giulie. Il paesaggio carsico è vuoto e desolato, quasi allucinante, eppure non manca di un suo strano fascino, arricchito dalla presenza di numerosi fenomeni carsici alquanto spettacolari. Per esempio, a 20 km. di distanza si apre la Grotta di Krizna, caratterizzata da dai suoi laghetti sotterranei, che si possono percorrere in barca, fra scenari di grande bellezza.
Il lago di Cerknica è un vero e proprio prodigio della natura. Gli antichi lo chiamavano Lago Circonio ed era famoso per le sue grandi variazioni stagionali di ampiezza e di livello: nelle estati secche la vasta superficie si riduce a una striscia larga poche centinaia di metri (84), mentre d’inverno, mentre la bora spazza le valli circostanti, la sua superficie gela così profondamente, che alla fine dell’Ottocento si caricavano di blocchi di ghiaccio numerosissimi carri tirati da buoi, che lo trasportavano a Trieste per venderlo a scopo di conservazione alimentare.
Bassermann era convinto dell’identificazione del lago con il Cocito e, in più, delle vicine, famosissime grotte, già ben note durante il Medioevo (85), con il cammino ascoso che dal centro della terra, ossia dalla natural burella, riconduce Dante e Virgilio alla superficie, nell’emisfero australe, a riveder le stelle. (86)
Ascoltiamo le sue stesse parole: ".. allora io vidi improvvisamente Dante star ritto sul gelato lago di Zirknitz [nome tedesco di Cerknica], e sopra di lui torreggiar tetro e minaccioso il Iavornik biancheggiante per neve; ma il lago era il Cocito. E poscia noi venimmo ai fori pei quali in primavera l’acqua scola e si parte, e in autunno, lungo tempo prima annunziata da strano rimbombo sotterraneo, di nuovo scaturisce nel lago. E la mia guida mi spiegò con premura come queste occulte correnti di acqua tutte insieme si collegano e tutte percorrono le favolose e misteriose spelonche del Karst [Carso]. Una fra le più notevoli di queste caverne, già nota al Medio evo, la grotta di Adelsberg [Postumia], aveva io visitato il giorno innanzi; e le fantastiche fogge di stalattiti, le poderose gallerie colla loro volta perdentesi nel buio, il lontano rumoreggiare del Poik, che echeggia per entro a una oscurità misteriosa, mi avevano pervaso di un solenne e magico stupore. Il quale allora mi si fece nuovamente sentire, sì che tosto dovetti pensare a quei versi in cui Dante descrive il "cammino ascoso" che dal centro della terra lo riconduce alla superficie:
Loco è laggiù, da Belzebù remoto
Tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto, che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’egli ha roso,
col corso ch’egli avvolge, e poco pende.
[ Inf., XXXIV, 127 ]
"È questo — continua lo studioso — uno dei più magnifici passi del poema, ricco di fascino misterioso e del più efficace realismo. E se nella grotta di Adelsberg possedessimo il luogo reale ove Dante avesse dentro di sé provato tal fascino? Certo io devo rimanere debitore di una dimostrazione rigporosa. Ma è tuttavia un concorso affatto singolare di più cose questo della grande vicinanza del Javornik, del lago di Zirknitz, della grotta di Adelsberg, e della convenienza tanto grande che essi mostrano colla descrizione che Dante abbozza dell’ultima profondità del suo universo. Certo egli non parla né del lago di Zirknitz, né della grotta di Adelsberg, ma parla però del Iavornik. Ma se egli ha veduto questo monte, sarebbe inconcepibile che le due grandi meraviglie di quel luogo fossero rimaste inosservate a un Dante, e su di un Dante non avessero prodotta nessuna impressione." (87)
*b) MONTE JAVORNIK.-**
Abbiamo visto che il monte Javornik domina il lago di Cerknica, come nei versi danteschi il monte Tambernicchi domina il lago ghiacciato del Cocito; dunque non si può pensare l’uno senza l’altro, per motivi di ordine sia logico che estetico. A complicare un po’ le cose, tuttavia, Dante non si accontenta di citare un monte che, se per ipotesi rovinasse nel lago, non ne incrinerebbe la dura corazza ghiacciata, ma ne cita due, e il secondo è Pietrapana. Ora, questo Pietrapana è stato identificato con un monte delle Alpi Apuane, anticamente chiamato appunto Pietra Apuana e, oggi, Pania della Croce, per cui gran parte dei commentatori moderni di Dante (ma non gli antichi) si sono orientati per cercare entrambe le montagne nel gruppo delle Apuane, pensando che Dante le avesse immaginate vicine, cosa da lui non detta né, secondo noi, necessaria. Ora, una montagna vicina, il monte Tambura, era chiamata Stamberlicche, che non è proprio la stessa cosa di Tambernicchi, anzi pare proprio diversa, ma insomma presenta una certa assonanza, ragion per cui è parso di poter individuare entrambe le montagne citate da Dante. E, per rendere le cose ancor più intriganti (e intricate), si potrebbe osservare che, sempre nelle Apuane, si apre una delle grotte più spettacolari d’Italia, quella del monte Corchia, soprannominato "la montagna vuota" per via dei quasi 50 chilometri di gallerie naturali che ne attraversano le viscere. Solo che le caverne del monte Corchia non vennero scoperte che nel 1841, in occasione di un saggio di cavatura del famoso marmo di Carrara, e dunque, pur essendo così relativamente vicine a Firenze, Dante non potè conoscerle né, tanto meno, visitarle. (88)
Riassumiamo, con Natalino Sapegno, l’intera questione, prendendo le mosse da uno dei più antichi commentatori della Divina Commedia, l’Anonimo fiorentino, che scriveva nel Trecento e, quindi, poco dopo la morte del poeta: "Tambernicchi è una montagna in Schiavonia, et è altissima e tutta petrosa, quasi sanza terra, che pare tutto uno masso a vederla:" (89) Osserva il Sapegno: "A un monte della penisola balcanica, ovvero dell’Ungheria o della Magna, rimandano quasi tutti i commentatori antichi (tranne il Buti, che parla di una cima dell’Armenia). Si è pensato di poterlo identificare nella Fruska Gora presso Tovarnik, o nel Iavornik non lungi da Postumia. Il Torraca preferisce credere che si tratti della Tambura, nelle Alpi Apuane, indicata in antichi testi col nome di Stamberlicche; e starebbe benissimo accanto alla Pietrapana, o Pietra Apuana, l’attuale Pania della Croce, che appartiene allo stesso gruppo montuoso:" (90)
Starebbe benissimo, aggiungiamo noi, a condizione che Dante avesse voluto indicare due montagne vicine; ma se Tambernicchi è il Tambura e Pietrapana è la Pania della Croce, dov’è il lago ghiacciato (almeno d’inverno) nel quale dovrebbero cadere? Perché qui non c’è l’equivalente dell’accoppiata lago di Cerknica-monte Javornik; abbiamo due montagne, ma nessun lago. E poi, è lecito ignorare così disinvoltamente le opinioni degli antichi commentatori? Infatti sia il Graziolo, sia Pietro di Dante, il figlio del poeta, pensavano ad un mons magnus in Sclavonia. (91)
Quanto ai moderni, prendiamo nota che Umberto Bosco e Giovanni Reggio propendono per l’opinione del Torraca (92), come pure Carlo Grabher (93), Piero Gallardo (94) e, sia pure con motivazioni diverse, e cioè essenzialmete linguistiche, il Giacalone (95). Allo stesso modo del Torraca la pensa il Porena, che peraltro preferisce la lezione Tambernicche, cricche, il quale osserva: "Se Dante avesse voluto cercare alte montagne lontane da casa sua, ne avrebbe scelte di ben più grandi e quindi più famose. L’essere due monti non molto noti al più dei lettori, si spiega solo con l’aver voluto prenderli da vicino, da un’esperienza quasi domestica, e da quelle Alpi Apuane dove le cime balzano spiccatissime, e sembrano grandi sassi che possan distaccarsi e rotolar giù."(96) Andrea Gustarelli, infine, nel suo importante Dizionario dantesco, riporta le opinioni degli antichi commentatori, senza peraltro precisarle — Schiavonia, Dalmazia, Carniola — ed è quasi l’unico, insieme al Dragone, a non abbracciare la tesi del Torraca. (97)
Un po’ isolato, tra i moderni, nell’identificare il Tambernicchi con il monte Javornik è, ancora una volta, il Bassermann, il quale però gode di un netto privilegio rispetto agli altri: non ha fatto ipotesi a tavolino, ma si è recato sui luoghi per vedere con i propri occhi e per cercar di vedere con quelli di Dante. "I monti accerchianti [Adelsberg]- scrive – sono in parte di pretto karst [= roccia carsica ], scoscesi, selvaggi e spogli di piante; e in parte rivestiti di belle selve di abeti e di faggi. A questi ultimi appartiene segnatamente anche il monte che s’aderge ad oriente della cittadina, il Javornik, il cui nome (monte degli aceri) sembra anche indicare che il luogo è da antica data boscoso. Ma a tutta prima io dovetti confessare a me stesso la mia delusione. Poiché il Javornik non aveva proprio nulla di singolare. Abbastanza dolcemente saliva esso dalla pianura, e col suo ampio dorso stava nel suo verde manto quanto mai mansueto e comodo. Ma la cosa assunse un altro aspetto quando io nel dì seguente in una escursione al lago di Zirknitz osservai il Javornik dalla parte opposta. [cioè dal versante orientale invece che da quello nord-occidentale].Questo celebre lago — uno dei più singolari prodigi della tanto prodigiosa catena del Karst — che nell’inverno è un’acqua ricca di pesci, e nell’estate una campagna rigogliosa per campi e per prati, giace proprio alle falde del Javornik, che qui immediatamente s’innalza sulla riva ripido e poderoso, e che col suo bosco di foschi abeti fiero torreggia. Questo era ciò che io cercavo; così di questo luogo poteva io giovarmi; così aveva Dante potuto adoperarne l’immagine quando andava in cerca di rime
Aspre e chiocce
come si converrebbe al tristo buco
sopra il qual pontan tutte l’altre rocce.
[ Inf. XXXII, 1]" (98)
E tanto basti per quanto riguarda Postumia e il monte Javornik con il lago di Cerknica.
TRIESTE.-
La presenza di Dante a Trieste è, tra quelle attestate dalla tradizione, una delle meno documentate. Si dice che il poeta fu ospite dei signori di Duino nel loro antico castello, le cui rovine esistono ancor oggi, a breve distanza dal nuovo, attualmente di proprietà della famiglia Thurn und Taxis (Torre e Tasso). Secondo la leggenda, Dante si ritirava a meditare su un isolotto roccioso di fronte al castello, che porta ancor oggi il nome di Scoglio di Dante. Per la precisione, il poeta sarebbe stato ospite di Ugone VI di Duino, quale ambasciatore di Cangrande Della Scala; ma poiché sappiamo che questo personaggio, l’ultimo della sua casata, nacque nel 1344 e morì nel 1391 (dopo aver ingrandito notevolmente i confini del suo feudo, sotto la protezione della casa d’Austria, verso il Quarnaro, la Carniola e perfino la Stiria), è evidente che deve esserci un errore di cronologia, ammesso che questo viaggio sia realmente accaduto.(99)
Dante, tanto per cambiare, era capitato in un momento di estrema tensione e confusione politica: Trieste si dibatteva fra le mire contrapposte di Venezia e dei duchi d’Austria, mentre il patriarca di Aquileia stentava a far valere la sua debole autorità e il conte di Gorizia, sullo sfondo, tramava per estendere il suo dominio. Dall’alto del suo nido d’aquila a picco sul mare, anche il signore di Duino stava all’erta, spiando il momento buono per piombare sulla città giuliana, cosa che gli riuscirà, finalmente, con un audace colpo di mano nel 1382, a nome e per conto del suo signore austriaco. All’interno, la vita civile del Comune triestino non era meno agitata, tanto che nel 1313 il patrizio Marco Ranfo tentò un vero colpo di stato per instaurare la signoria. Il tentativo fallì e nel 1315 vennero redatti gli Statuti comunali a noi noti (o almeno quella che è la prima redazione a noi nota), ma l’episodio aveva messo in evidenza lo stato di estrema precarietà delle libere istituzioni cittadine, premute da tanti e tali nemici. Se ne poteva facilmente dedurre che l’indipendenza di Trieste non sarebbe durata a lungo: infatti, per sfuggire alla morsa dei Veneziani, essa si diede all’Austria una prima volta nel 1368 e una seconda e definitiva, come si è accennato, nel 1382. (100)
La presenza di Dante a Trieste si intreccia con quella di lui in Istria, di cui possediamo una testimonianza scritta, a Parenzo, datata, come vedremo, all’ottobre 1308. Sei secoli dopo di lui, un altro grande poeta sarebbe stato ospite dei signori di Duino e avrebbe immortalato quel nome nelle sue Elegie Duinesi, l’austriaco Rainer Maria Rilke. (101)
PARENZO.-
Tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300 possediamo una nutrita documentazione sulla presenza di toscani, soprattutto mercanti e banchieri, nelle comunità istriane della costa occidentale: da Capodistria, a Isola, a Parenzo, a Pola (così come erano numerosi, nello stesso periodo, nel Patriarcato di Aquileia), dando un notevole impulso allo sviluppo economico cittadino. Un certo numero di costoro doveva essere costituito da esuli poltici, come Dante, e non solo di parte bianca ma altresì nera, dato che nei loro comuni d’origine la situazione dei due partiti era continuamente altalenante. Spesso la comune sventura induceva questi esuli a metter da parte le loro divergenze ideologiche e a stringere rapporti amichevoli, come aveva fatto lo stesso Dante col poeta Cino da Pistoia, che era un Nero sbandito dalla sua città per motivi poltici.(102) Tra le tante testimonianze, per noi particolarmente interessante è quella di un Danto tuscano, la cui presenza è attestata a Parenzo in un documento giudiziario che porta la data del 4 ottobre 1304.
Si tratta di una sentenza processuale emessa dal podestà di Parenzo, Andrea Michiel, contro un certo Matteo di Giovanni Cortese, per pesca abusiva nelle acque del vescovado; sentenza che condannava l’imputato a pagare una multa di cento soldi di denari piccoli veneziani. Essa venne pronunziata sotto la nuova Loggia del Comune, dice il documento, presentibus dominis Dante tuscano habitatore Parentii ed un Antonio Peio, personaggio ragguardevole che appare in numerose scritte di Parenzo in qualità di notaio.(103)
Sorge spontanea la domanda se si tratta proprio del poeta Dante Alighieri. Ebbene, sono parecchi gli elementi che farebbero rispondere affermativamente, e tutti fra loro concordanti. Primo, il nome Dante, che è un diminutivo di Durante, non era molto comune a quei tempi; secondo, nei documenti istriani del 1300 l’aggettivo tuscanus indicava senz’altro l’origine fiorentina; terzo, il termine habitator designava coloro che avevano solo una residenza temporanea, ed era usato in contrapposizione a civis, che qualificava coloro che godevano della piena cittadinanza; quarto, l’appellativo dominus era riservato alle persone di origine nobile o comunque distinte (e Dante rientrava in entrambe le categorie); quinto, il fatto che il nome di Dante sia anteposto a quello di Antonio Peio, notaio e "pezzo grosso" locale, significa che si trattava di un personaggio degno del massimo rispetto. A questo punto, proviamo a fare un ragionamento per esclusione, e chiediamoci se è credibile che tutta una serie di coincidenze significative sia puramente casuale: che vi fosse un altro Dante a Parenzo, negli stessi anni in cui l’Alighieri era esule e peregrinava in disparati luoghi dell’Italia settentrionale; che quest’altro Dante fosse, come l’Alighieri, fiorentino; che risiedesse nel Comune istriano solo temporaneamente, e quindi fosse, come il poeta, lontano dalla sua patria; che fosse come lui nobile e di condizione sociale ragguardevole, o entrambe le cose; che fosse degno, come lo sarebbe stato l’Alighieri, di figurare sulla sentenza del podestà prima di un eminente cittadino, lui che cittadino non era. Bisognerebbe concludere, ci sembra, che questo secondo Dante dovesse essere quasi un duplicato del primo, una sorta di prodotto degli universi paralleli!
Tali sono gli argomenti con i quali l’insigne storico istriano Camillo De Franceschi (Parenzo, 1868- Trieste, 1953) ritiene di poter affemare con sicurezza che il Dante tuscano e l’Alighieri sono la stessa persona, argomenti da lui esposti in una trilogia dedicata alla presenza di Dante in Istria.(104) E altrettanto convinto è stato, in anni più recenti, un altro studioso di Dante, Francesco Semi,a sua volta sostenitore di una tesi già avanzata dal Vidossich. (105)
Possediamo inoltre una prova certa della presenza culturale di Dante in questi luoghi. Infatti tra il 1394 e il 1399 l’intera Divina Commedia, col commento di Benvenuto da Imola, fu trascritta per ben due volte nel piccolo comune di Isola d’Istria (fra Capodistria e Parenzo, appunto) da Pietro Campenni da Tropea, cancelliere del Comune di Isola.(106)
POLA.-
La tradizione del soggiorno di Dante a Pola non riposa tanto su documenti più o meno ambigui né su leggende popolari, ma sui versi stessi del divino poema che abbiamo riportato in apertura del nostro studio. Per descrivere l’aspetto della città di Dite disseminata di avelli infuocati, Dante lo paragona alle due grandi necropoli romane allora esistenti ad Arles e a Pola. Poiché alcuni critici hanno ritenuto il paragone legato ad una personale esperienza visiva di quei sepolcreti, mentre altri lo negano, a rigore si dovrebbe ritenere che Dante vide sia la città di Arles, sia quella di Pola. In realtà non è proprio così, perché noi sappiamo che esistevano, al tempo di Dante, delle descrizioni della necropoli di Arles, che era famosa in tutto il mondo cristiano per via della leggenda (riferita anche dal Buti) secondo cui gli avelli erano sorti in una notte, per miracolo, al fine di consentir la sepoltura dei soldati di Carlo Magno caduti in battaglia contro i Saraceni. (107) Dante perciò potrebbe aver letto quelle descrizioni, mentre non esisteva nulla di simile per il sepolcreto della cittadina istriana. D’altra parte, due fatti stanno a favore di una visita ad Arles da parte di Dante: la testimonianza esplicita di suo figlio Jacopo e quella notazione del testo dantesco, ove Rodano stagna, che sembra opera di chi ha visto di persona le Bocche del Rodano, con i loro stagni e i laghi paludosi della Camargue.
Noi ci limiteremo, tuttavia, a parlare di Pola, per non uscire dai limiti che ci eravamo proposti. La sua necropoli sorgeva poco fuori le mura, oltre la Porta Aurea, lungo la strada per Medolino, presso la Badia benedettina di San Michele (ove Dante sarebbe stato in quell’occasione ospitato), in una località chiamata Prato Grande. Essa scomparve poi nel corso del 1400 a causa del saccheggio che ne fecero gli abitanti, per procurarsi materiale edilizio. Adolfo Cecilia, che abbiamo già visto occupare una posizione molto prudente circa gli spostamenti di Dante negli anni dell’esilio, non trova che i versi di Dante giustifichino l’inferenza di una sua conoscenza diretta. Scrive infatti: "La notorietà dei due cimiteri, quello di Arles e quello di Pola (…) e la conoscenza che Dante aveva di carte del suo tempo, con l’ausilio delle quali poteva agevolmente ricavare i termini della regione italiana, bagnati dalle acque del Carnaro, consentono di affermare che, anche se non impossibile, non è affatto necessaria una presenza di Dante in Istria." (108)
Di tutt’altro avviso il Bassermann, che afferma: "Noi non sappiamo quando e come Dante siasi recato a Pola, ma che egli vi sia stato, ce lo dicono i suoi versi. (…) Qui abbiamo dunque senza dubbio il cimitero menzionato da Dante. E se noi vogliamo prestar fede alla tradizione vivente in Pola, che Dante fu albergato nella già menzionata badia benedettina di San Michele in Monte, la quale domina l’intero Prato Grande, noi conosciamo altresì il punto di vista dal quale nell’animo di Dante s’impresse il caratteristico quadro di questo seplocreto. Provare questa tradizione non si può, ma in ogni caso essa s’accorda con la persuasione, anche senza ciò irrefutabile, che Dante non può avere scritto quei versi senza avere veduto il sepolcreto di Pola." (109)
Giunti a questo punto potremmo considerare conclusa la nostra indagine, tuttavia, per dovere di completezza, ci sentiamo spinti a porre un’ulteriore domanda. Posto che Dante fu, quasi certamente, nella Venezia Giulia (si può discutere sulle singole località che avrebbe vistato, non l’intero soggiorno) potè per avventura spingersi oltre? Dante oltrepassò il Quarnaro e il passo di Vrata, si spinse nell’interno della Croazia o lungo la costa dàlmata, conobbe le isole del Mare Adriatico?
La domanda potrebbe apparire, a tutta prima, un po’ strana, ma è lo stesso dante che ci mette una piccola pulce nell’orecchio, là dove descrive i pellegrini croati che si recano a Roma per adorare la Veronica, l’immagine del volto di Cristo:
Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l’antica fame non sen sazia,
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
"Segnor mio, Jesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?" (110)
Certo, si può sempre pensare, come hanno fatto alcuni commentatori, che Dante abbia nominato la Croazia solo "per indicare una terra straniera e lontana, in genere." (111) È legittimo; quanto a noi, non ne siamo del tutto convinti.
A parte il fatto che la Croazia non era, e non è, poi tanto lontana, essendo la prima terra straniera che s’incontra varcati i confini dell’Italia del tempo, e che quindi Dante avrebbe potuto scegliere, per la bisogna, un paese molto più remoto; noi pensiamo che egli non fosse uomo da buttar là dei paragoni alla leggera, solo per fare una rima o per abbozzare un concetto con la prima immagine che gli venisse alla mente. Senza cadere nell’eccesso di voler vedere in ogni verso, in ogni parola del poema dei significati allegorici profondi e quasi insondabili, non vorremmo fargli mai il torto di abbassarlo al rango di un versificatore frettoloso e facondo; no, se Dante adopera una certa espressione, una certa immagine, vi è sempre una ragione intrinseca e ponderata, vi è sempre una ratio che travalica la sfera dell’ovvio e del banale.
A questo punto dobbiamo riferire, per tracciare un quadro esauriente del problema, che pochissimi anni fa è apparso un libro che ha suscitato un certo scalpore. Presentato nella "European Hall" di Zagabria nell’ottobre del 2001, si intitola Dante’s path through Croatia [L’itinerario di Dante attraverso la Croazia] e si capisce già dal titolo come esso abbia suscitato molte vivaci discussioni e un comprensibile imbarazzo fra molti studiosi. L’autore è lo scrittore Ivan Lerotic, che dopo aver studiato attentamente tutta una serie di passaggi della Divina Commedia ed altri documenti, si dice sicuro che il sommo poeta visitò la sua patria in lungo e in largo.
Ecco, in sintesi, quanto sostiene Lerotic. Durante il Giubileo dell’anno 1300, indetto da papa Bonifazio, Dante era a Roma e stava pregando davanti alla Veronica ("la vera icona"), custodita nella basilica di san Pietro, e che sarà poi ricordata da Francesco Petrarca nel suo celeberrimo sonetto Movesi il vecchierel canuto e bianco. (112) In quel giorno fece la conoscenza di uno sconosciuto frate straniero, venuto fin laggiù in pellegrinaggio dalla nativa Croazia e dotato di una eccellente cultura, poiché aveva fatto i suoi studi alla Sorbona di Parigi, la migliore università dell’epoca: Agostino Kazotic. Fra i due nacque un’amicizia e quando il frate, che apparteneva all’ordine dei Domenicani, dovette accingersi a ripartire verso casa, propose a Dante di accompagnarlo. A quell’epoca Kazotic era giovane e poco conosciuto, nonostante fosse stato ritenuto idoneo a svolgere importanti missioni diplomatiche in Italia e in Francia, tuttavia era destinato a una folgorante carriera ecclesiastica che lo avrebbe portato a divenire vescovo di Zagabria. Sta di fatto che Dante decise di accompagnarsi con lui e, con la sua guida, si recò dapprima a Zagabria, poi attraversò la Sava su una barca, penetrò in Bosnia, raggiunse la costa a Ragusa (Dubrovnik), poi risalì la costa toccando, una dopo l’altra, le cittadine e le isole della Dalmazia: Spalato (Split), Curzola (Korcula), Traù (Trogir), Zara (Zadar), l’isola di Arbe (Rab) e, da ultimo, l’isola di Veglia (KrK) dove terminò il suo viaggio con una visita al santuario di Santa Lucia.
Che dire di tutto questo? Agostino Kazotic, traverso i secoli, continua a guardarci con un’espressione enigmatica. Sì, perché in Italia egli ha lasciato la sua immagine dietro di sé, dipinta nell’affresco della sala del Capitolo nel Convento di San Nicolò a Treviso. Il suo ritratto è uno dei quaranta personaggi illustri dell’ordine domenicano che Tomaso Da Modena, uno dei più celebrati artisti del 1300, ebbe l’incarico di raffigurare su una superficie di circa sessanta metri quadrati. Il lavoro fu eseguito con somma bravura nel 1352 ed è una delle opere più celebrate del pittore. Il cartiglio di Agostino Kazotic definisce il frate nativo di Tragurium, il nome con cui era nota nell’antichità la bellissima cittadina dàlmata di Traù; l’artista lo ha rappresentato mentre lavora al suo scriptorium, aiutandosi con un righello, forse per leggere meglio seguendo le righe. (113) Ma se davvero fu amico di Dante e se lo accompagnò in un viaggio devozionale nella sua patria di là dell’Adriatico, ha saputo custodire bene il suo segreto.(114)
Che cosa possiamo dire, a conclusione di questa nostra indagine?
Ernesto Sestan ha definito la Venezia Giulia come il luogo d’incontro-scontro di tre stirpi — la latina, la germanica e la slava — e ciò ne ha fatto il luogo dove "l’ambito territoriale di una nazione vien morendo e trapassando in altri." (115) Nessuna delle tre stirpi, la latina che arriva sino alla Terra del Fuoco, la germanica che giunge sino all’Alaska e la slava che si si affaccia sulle coste del Pacifico, può affermarsi attraverso la negazione delle altre due; ciascuna condivide il destino di un’unica terra, ove coabitano da secoli e secoli. E insieme a loro vivono altri gruppi etnici, alcuni piccolissimi, come gli istro-romeni della Ciceria; e tutti insieme hanno fatto della Venezia Giulia quello che essa è: la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni, la sua antica consuetudine alla convivenza reciproca e alla accoglienza, che solo per brevi periodi è stata incrinata da un vento furioso d’incomprensione e intolleranza.
Dante è il portatore di altissimi valori spirituali che sono anche, per ciò stesso, universali: non è lecito farne la bandiera di un nazionalismo privo di memoria storica, ma neanche di un appiattimento e di una omologazione culturale senz’anima. Egli ci ricorda che non possiamo vivere entro il guscio artificiale delle nostre piccole certezze, ma neanche senza un forte radicamento identitario con il paesaggio, con le persone, con le cose, perché abbiamo bisogno di entrambe le dimensioni: le radici, che ci rendono figli dell’ieri, e lo sguardo teso in avanti, che ci aiuta ad essere un ponte verso il domani.
NOTE.-
1) J. HUIZINGA, La scienza storica, Laterza, 1974, pp. 98-110.
2) DANTE, Inf., IX, 106-120.
3) "Già nel 1814, l’imperatore Francesco I, ricevendo a parigi i delegati dei Lombardi, aveva enunciato il concetto che stava per informare la sua azione: Bisogna che i Lombardi si dimentichino di essere Italiani. L’obbedienza ai miei voleri sarà il vincolo che unirà le province italiane al rimanente dei miei stati." G. SPINI, Disegno storico della civiltà, Cremonese, 1975, vol. 3, p. 7.
4) La Divina Commedia, a cura di T. DI SALVO, Zanichelli, 1989, vol. 1,p. 156.
5) La D. C., a cura di N. SAPEGNO, La Nuova Italia, 1991, vol. 1, p. 109. Questo sarà il testo di riferimento per tutte le successive citazioni del poema.
6) La D. C., a cura di C. GRABHER, Principato, 1987, vol. 1, p. 100.
7) La D. C., a cura di G. GIACALONE, Signorelli, 1974, vol. 1, p. 139.
8) La D. C., a cura di M. PORENA, Zanichelli, 1970, vol. 1, p. 92.
9) La D. C.,a cura di E. PASQUINI e A. QUAGLIO, Garzanti, 2000, vol. 1, p. 95.
10) La D. C., a cura di U. BOSCO e G. REGGIO, Le Monnier, 1993, vol. 1, pp. 141-142.
11) La D. C., a cura di P. GALLARDO, De Agostini, s. d., vol. 1, pp. 113-114.
12) La D. C., a cura di A. M. CHIAVACCI LEONARDI, Zanichelli, 1999, vol. 1, p. 169.
13) La D. C., a cura di S. JACOMUZZI e altri, S. E. I., 1990, vol. 1, p. 142.
14) I. VERGNANO, Dibattito politico e Costituzione italiana, Paravia, 1970, p. 34.
15) Enciclopedia Generale Illustrata Rizzoli-Larousse, 1969, vol. 2, p. 598.
16) E. BONIFAZI-A. PELLEGRINO, Stato e società civile, Bulgarini, 1995, pp. 334-335.
17) Cfr. Fra Dolcino. Nascita, vita e morte di un’eresia medievale, a cura di R. ORIOLI, Europìa-Jaca Book, 1984; V. RUTENBURG, Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ‘300 e ‘400, Il Mulino, 1971.
18) Cfr. M. PAZZAGLIA, Antologia della letteratura italiana, Zanichelli, 1971,vol. 1, pp. 285-286.
19) F. LAMENDOLA, L’esoterismo di Dante, Quaderni dell’Ass. Folosofica Trevigiana, 2004, n. 4, pp. 3-10.
20) Useremo anche noi questa espressione, entrata nell’uso anche dei geografi, nonostante la sua evidente improprietà: il territorio a nord dell’Appennino non appartiene alla Penisola ma forma l’Italia continentale ed è tale dal punto di vista geografico, climatico, botanico.
21) BOCCACCIO, Decamerone, X, 5; cfr. F. LAMENDOLA, Il giardino d’inverno, su Graal, Roma, 2004, n. 9, pp. 36-41. Ved. anche G. DI CAPORIACCO, Udine. Appunti per la storia, Arti Grafiche Friulane, 1976, pp. 47-48; A. CREMONESI, Udine. Guida storico-artistica, Arti Grafiche Friulane, 1978, p. 20.
22) A. CREMONESI, L’epoca patriarcale (1077-1420), in Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia, Ist. per l’Enc. del F. V. G., vol. 3, parte I, p. 156.
23) Ibidem, p. 165; P. S. LEICHT, Breve storia del Friuli, Tolmezzo, ed. "Aquileia", 1977, p.142.
24) G. C. MENIS, Storia del Friuli, Udine, Soc. Filologica Fr., 1996, pp.232-233.
25) P. PASCHINI, Storia del Friuli,cit. in G. C. MENIS, Op. cit., pp. 209-210.
26) P. S. LEICHT, Op. cit., pp. 118-120; T. MANIACCO, Storia del Friuli, Newton & Compton, 2002, p. 80.
27) Enc. monogr. Del Friuli Venezia Giulia, cit., pp. 165-166.
28) A. BATTISTELLA, Tarvisio e la Val Canale, in AA. VV., Tarvisiano e Val Canale, Ente Naz. Per le Tre Venezie, 1971, p. 90.
29) Cfr. la carta l’Italia al tempo di Dante", in L’italia storica, Touring Club Italiano, p.2.
30) T. MANIACCO, op. cit., pp. 81-89; G. C. MENIS, Op. cit., p. 211.
31) DANTE, De vulgari eloquentia, I, 11. Dante, del resto, non possedeva gli strumenti critici per distinguere in maniera non empirica lingua e dialetto; oggi quasi tutti gli studiosi di linguistica riconoscono al friulano la dignità di lingua. Ved. Z. N. MATALON, Marilenghe. Gramatiche furlane, Inst. Stud. Furlans, 1977; A. LAZZARINI, Vocabolario Scolastico Friulano-Italiano, Libr: ed: "Aquileia", Udine, 1930; G. FIOR, Villotte e canti del Friuli, Milano, ed. Piva, 1977; B. CHIURLO, La letteratura ladina del Friuli, Udine, ed. Ribis, 1978. Chiurlo, come G. I. Ascoli, riteneva il friulano il ramo orientale di un’unica lingua ladina, di cui il romancio dell’Engadina era l’occidentale, e il dolomitico-ampezzano quello centrale; teoria oggi contestata da diversi studiosi.
32) P. GALLARDO, Storia della letteratura italiana, F.lli Fabbri, 1967, p. 121.
33) S. A. CHIMENZ, Dante, in Letteratura Italiana. I maggiori, Marzorati, 1972, vol. I, p. 39.
34) "Per Puglia (Apulia) Dante intende tutta l’Italia meridionale", in Dante. Tutte le opere, Newton & Compton, p. 1.067 n.
35) Ce fastu? (lett.: "Che cosa fai, tu?") è diventato il titolo della Rivista della Società Filologica Friulana "Graziadio I. Ascoli", con sede a Udine, in Via Manin, n. 18, con esplicito riferimento alla citazione dantesca di Vulg. Eloq., I, 11.
36) "Post hos Aquilegienses et Ystrianos cribremus, qui Ce fastu? crudeliter accentuando eructuant", DANTE, De vulgari eloquentia, I, 11.
37) M. PAZZAGLIA, Op. cit., p. 330, 331. Sull’unità dei costumi, Leopradi avrebbe trovato da ridire. Infatti nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (scritto nel 1824) scrive. "Gl’Italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi." In LEOPARDI, Tutte le poesie e tutte le prose (a cura di L.Felici e E. Trevi), Newton & Compton, 1997, p. 1.021.
38) DANTE, De vulgari eloquentia, I, 18 (ed. cit., trad. di G. L. Passerini).
39) In DANTE, Tutte le opere,Newton & Compton, cit., p. 1.069 n.
40) Se l’amor di patria di Dante è certo, così come la sua aspirazione a una unità politica della Penisola, è indubbio che vi è stata, talvolta, una forzatura del suo pensiero politico in senso nazionalistico, specie nella prima metà del Novecento. Cfr., ad es., il Discorso tenuto dal prof. Achille Pellizzari, il 16 aprile 1921, nell’aula magna dell’Università di Genova, e riportato in F. LANDOGNA, Saggi di critica dantesca, Livorno, ed. R. Giusti, 1928, pp. 113-117.
41) DANTE, Par., XV, 97 sgg., ove Cacciaguida fa l’elogio della "vecchia" Firenze.
42) "Aristotele afferma che il bene è appunto ciò a cui ogni cosa tende. Ma ogni cosa tende a sviluppare compiutamente la propria essenza. (…) Per l’uomo, riuscire a essere sé stesso è la felcità. Ciò vuol dire che il bene dell’uomo (ossia ciò a cui egli tende) è la felicità. (…) La felicità è il bene supremo perché tutto ciò che l’uomo vuole, lo vuole per essere felice." E. SEVERINO, La filosofia dai Greci al nostro tempo (3 voll.), Rizzoli, 2004, vol. 1, p. 197. E ancora: "La migliore costituzione di uno stato è quella in cui è possibile raggiungere la felicità." Ibidem, p. 204.
43) DANTE, De vulgari eloquentia, I, 15: "Dicimus Tridentum atque Taurinum nec non Alexandriam civitates metis Ytalie in tantum sedere propinquas quod puras nequeunt habere loquelas."
44) Ibidem, I, 10: "Forum Iulii vero et Ystria non nisi leve Ytalie esse possunt."
45) Voce Rijeka della Encyclopaedia Britannica, ed 1961, vol. 19, p. 307.
46) F. GERRA, L’impresa di Fiume, Longanesi & c., 1974 (2 voll.), vol. 1, p.21.
47) A. DEPOLI, Le basi storiche del diritto di Fiume all’autodecisione, cit. in F. GERRA, supra, vol.1, p.22
48) Cit. in F. GERRRA, supra, vol. 1, p. 170.
49) Ibidem, vol. 2, p. 122.
50) M. A. LEVI, L’Italia antica, Mondadori, 1974, pp. 259-260; A. SESTINI, Il mondo antico, Le Monnier, 1952, p. 73; A. BRANCATI-G.OLIVATI, Il mondo antico, La Nuova Italia, 1970 (2 voll.), vol. II, p. 262.
51) Cfr. C. BARBAGALLO, Storia universale (7 voll.), U,T.E.T., vol. III, Il Medioevo, 1945, p. 261, 374; M. BONTEMPELLI-E. BRUNI, Storia e coscienza storica (3 voll.), vol. 1, p. 171.
52) Dispiace che Autori stranieri abbiano trattato queste cose con poca conoscenza dei fatti, avventurandosi in giudizi inesatti e gratuitamente partigiani. Ad es., il francese A. GASPARD, La Jugoslavia, Garzanti, 1968, afferma che "la Conferenza della pace del 1946 assegnò alla Jugoslavia tutta l’Istria, la cui popolazione era rimasta quasi integralmente slava, nonostante gli sforzi fatti dal fascismo per italianizzarla e quelli fatti dall’Austria prima del 1918 per germanizzarla." (p. 62). Si vede che egli non si è mai preso la briga di documentarsi seriamente, poiché ignora che a Pola, ad es., ancora nel 1946 i 31.700 abitanti erano tutti italiani e, di essi, 28.058 scelsero l’esilio; e che più di 250.000 furono complessivamente gli Italiani che abbandonarono l’Istria, la Venezia Giulia, Fiume e Zara. (vedi A. PETACCO, L’esodo, Mondadori, 1999; e spec. R. PUPO, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, 2005: un’opera storiografica straordinariamente onesta ed equilibrata). E a proposito della Dalmazia, sempre il Gaspard scrive: "Uno sguardo superficiale potrebbe far pensare che per secoli interi Venezia abbia lasciato la sua impronta sull’intera vita politica e culturale della Dalmazia.Ma nulla sarebbe più falso.Nonostante le angherie subìte, la popolazione indigena ha continuato ad affermare le sue tradizioni e la sua cultura." (pp. 66-67). Strano che quelle popolazxioni, nonostante le angherie subìte, fossero così contrariate per la scomparsa del dominio veneto, nel 1797, a seguito del Trattato di Campoformio.
53) Su G. I. Ascoli, vedi G. MARCHETTI, Il Friuli. Uomini e tempi (2 voll.), Udine, Del Bianco, 1979, vol. 2, pp. 744-752.
54) Alcuni storici tendono a considerare l’Istria come un’entità distinta dalla Venezia Giulia, ad es. F. CATALANO in L’Italia storica, Touring Club It., cit., p. 253. Ma il Compartimento della Venezia Giulia e Zara (che nel 1939 comprendeva 128 comuni su una sup. di 8.953 kmq. e con una pop. di 977.000 ab., dati del Calendario Atlante De Agostini, 1940) la comprendeva tutta, sino a Fiume inclusa.
55) Una esposizione di parte jugoslava, ma che si sforza di essere serena, se non obiettiva, della definizione del confine giuliano è quella di I. J. LEDERER, La Jugoslavia dalla conferenza della pace al Trattato di Rapallo, 1919-1920, Il Saggiatore, 1966. Si noti che la denominazione ufficiale di Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SCS) fu sostituita solo nel 1931 da quella di Jugoslavia; dunque già nel titolo si nota una inesattezza storica.
56) C. SEGRE-C. MARTIGNONI, Testi nella storia (4 voll.), Bruno Mondadori, 1994, vol. 1, p.376: "Anche sugli anni dell’esilio e sulle peregrinazioni fra le varie corti italiane le nostre informazioni sono incerte e lacunose." Vedi anche M. VANNUCCI, Dante, Newton & Compton, 2003, pp. 128-136.
57) DANTE, Convivio, I, 3: "Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma,Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno (…), per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi medicando, sono andato."
58) DANTE, La Divina Commedia, a cura di Carlo Salinari, Ed. Riuniti, 198°, p. XIII: "Da indizi vari che si desumono dal poema, si ricava che in questo periodo [1305-1309], dovè passare per vari altri luoghi, tra cui Venezia e Napoli, per poi fermarsi per qualche tempo in Lunigiana, ospite dei marchesi Malaspina."
59) Per il viaggio a Parigi, v. G. BOCCACCIO, Vita di Dante (1a redaz.), a cura di P. Baldan, Bergamo, ed. Moretti & Vitali, 1991, pp. 102-103; G. VILLANI, Cronica, IX, 136; S. S. BERNARDI, voce Parigi della Enciclopedia Dantesca, Istituto dell’Enciclopedia Italiana (6 voll.), vol. IV, 1973, pp. 305-306; e A. ALTOMONTE, Dante. Una vita per l’imperatore, Rusconi, 1985, pp. 320-322. Per il soggiorno a Oxford, tramandato anch’esso dal Boccaccio, v. A. J. BUTLER-E. G. GARDNER, voce Dante della Encyclopaedia Britannica, 1961, vo. 7, p. 38: "It is not impossible that Dante about this time visited Paris, but that he ever crossed the Channel or went to Oxford may safely be disbelieved" ("la tradizione che egli attraversò la Manica o che giunse a Oxford può essere tranquillamente ignorata").
60) C. SGORLON, Gli dèi torneranno, Mondadori, 1983, p. 246
61) DANTE, La D. C., a cura di S. JACOMUZZI e altri, cit., intra pp. 302-303.
62) A. ALTOMONTE, Op. cit., p. 320. Cfr. E. RADIUS, Vita di Dante, Mursia, 1975, pp. 73-76. La critica moderna (che non è necessariamente il Vangelo) distingue comunque fra il viaggio a Parigi e quello a Oxford; se rerspinge quasi unanimemente la possibilità del secondo, non altrettanto il primo. Vedi A. TAURO, Dante Alighieri, in Storia generale della letteratura italiana, Motta ed., 2004, vol. II, p.36: "Né sarà da escludere l’eventualità testimoniata tra gli altri dal Villani e dal Boccaccio di un viaggio a Parigi, assegnabile al periodo 1309-1310". Anche C. SALINARI, Op.e loc. cit., pare favorevole ad accogliere questa tradizione.
63) Un esempio di questa, a nostro avviso, eccessiva e ingiustificata diffidenza verso tutti gli spostamenti del poeta che non siano documentati nel modo più incontrovertibile (cioè la maggior parte) è dato dalle varie "voci" geografiche della Enciclopedia dantesca, cit.; perfino i soggiorni a Padova e Treviso, oggi (come dagli antichi biografi) universalmente ammessi, vengono accolti, ma con estrema cautela e non dati per certi.
64) N. NOTOVICH, La vita sconosciuta di Gesù, Ed. Amrita, 2000; F. M. HASSNAIN, Sullle tracce di Gesù l’Esseno, Ed. Amrita, 1997. Scettico, su tutto ciò, M. CRAVERI,La vita di Gesù, Feltrinelli, 1979, pp. 54-55.
65) Oltre al classico D. COMPARETTI, Virgilio nel Medioevo (2 voll.), La Nuova Italia, 1981, vedi F. LAMENDOLA, Il culto di Virgilio nel Medioevo, conferenxza del 25 gennaio 2006 presso la Soc. Dante Alighieri di Trevis (di prossima pubblicazione negli Atti della Società).
66) C. MARCHI, Dante in esilio, Longanesi & cC, 1976, p. 153.
67) DANTE, Par., XVIII, 130 (ove Giovanni XXII è accusato di lanciare le scomuniche con troppa facilità, salvo poi annullarle per denaro); e Par., XXVII, 58 (ove, insieme a Clemente V, è accusato di fare strazio del patrimonio spirituale della Chiesa, acquistato col sangue dei martiri).
68) "Il papa Giovanni XXII, successore di Clemente V, irritato che Matteo avesse sottoposto anche il clero al pagamento di alcuni tributi, stimolato anche da varie parti perché cercasse di impedire il soverchio prevalere nell’Alta Italia delle forze ghibelline, lancia la scomunica contro Matteo Visconti e manda a combatterlo una spedizione al comando del proprio nipote Bertrando del Poggetto." (A. LIZIER, Corso di storia, 3 voll, Signorelli, 1942, vol. I, p. 343). "Di fronte all’ostilità dei Torriani, dei Guelfi, di re Roberto, accresciuta dalla presenza del legato Bertrando del Poggetto, Matteo strinse alleanza con gli Scaligeri, con i Bonaccolsi e con il conte di Savoia; con il denaro riuscì ad allontanare Filippo di Valois (1320) e il duca Enrico d’Austria (1322), venuti in Italia dietro sollecitazione del papa. Non gli fu possibile tuttavia evitare, nonostante i suoi tentativi di conciliazione, la scomunica per eresia inflittagli nel 1320, cui si aggiunsero nel 1321 l’interdetto di Milano e nel 1322 la predicazione di una crociata contro di lui. Il 23 maggio 1322 rinunciò al governo a favore del figlio Galeazzo." (Dizionario storico politico italiano dir. da E. SESTAN, Sansoni, 1971, p. 1.400.
69) Cfr, P. VERRI, Storia di Milano (3 voll,), Dall’Oglio, 1977, vol. II, spec. pp. 108-139; P. S. LEICHT,Op. cit., p. 143; A. CREMONESI, in Enc. monogr. d. Friuli Ven. Giulia, cit., p.165.
70) "La condizione di Dante, staccatosi dai suoi compagni, fu presso a poco quella dell’uomo di corte: accorrere qua e là dov’eran signori in fama di liberalità verso gli uomini d’ingegno e di dottrina oppur d’indole piacevole, tanto da doversene una corte onorare e servirsene per affari d’importanza o averne sollazzo nella vita quotidiana; vivere quindi in una mescolanza di gente che andava e veniva, di varia natura, con gusti e intendimenti diversissimi, dalle persone di scienza ed esperienza politica ai buffoni; e generalmente non eran quest’ultimi i meno graditi e i meno liberalmente donati o che prima dovessero sgombrare." (…) Dovunque, per le regioni d’Italia, lo portasse il suo duro esilio, trovava altri infelici sbanditi dalle loro città; in nessuna parte un governo ordinato e tranquillo, ma discordie, sopraffazioni, tirannie o di fazioni o di usurpatori; e contrasti e guerre fra città vicine." ( M. BARBI, Vita di Dante, Sansoni, 1963, pp. 20-24.
71) DANTE, La Divina Commedia, Lucchi ed., 1971, pp. 19-20 (senza il nome del curatore).La tradizione che vuole Dante a Udine, anzi che vi vuole composta una buona parte della Divina Commedia, trae origine anche dallo storico udinese Giovanni Candido, che scrive nel 1521, e, dopo di lui, da Jacopo di Valvasone, che scrive nella prima metà del 1600.
72) C. MARCHI, Dante in esilio, cit., p. 154.
73) "È questo il momento nel quale la Casa goriziana più si avvicina alla politica italiana: vediamo infatti il conte Enrico e più tardi il re di Boemia in rapporti continui con Verona, Padova, Bologna, e gli altri potentati italiani. Come dicemmo, Enrico aveva sposato una da Camino, e ciò spiega i suoi stretti legami colle grandi case della marca trevigiana. Dopo questo breve periodo la corte goriziana riprese la sua politica essenzialmente tedesca. Del resto la forza d’espansione della casa subì un gravissimo pregiudizio, in questo stesso periodo, dalla disgraziata fine di Federico d’Asburgo pretendente al trono imperiale ed alleato dei Goriziani, caduto in prigionia del suo rivale Ludovico il Bavaro."
74) A. MICHIELI, Storia di Treviso, S.I.T. ed., Treviso, 1981, pp.127-132.
75) "Il principe tedesco [Federico d’Austria, nel 1319] occupato nelle lotte per la corona imperiale, mandò quale sostituto a reggere Treviso il conte Enrico II di Gorizia il quale conosceva la città essendo stata sua prima moglie Beatrice figlia di Gherardo da Camino. Ora un’altra Beatrice, figlia del duca di Baviera, sua seconda moglie, nel 1323, dopo appena tre anni quindi, si trovò a governare la città quale reggente per il figliolino Giovanni Enrico; ma facevano alto e basso i funzionari e soprattutto Ugo di Duino ed il capitano tedesco Rothenburg." (G. NETTO, Guida di Treviso. La città, la storia, la cultura e l’arte, Trieste, Lint ed., 2000, p.71).
76) G. BIANCHI, Del preteso soggiorno di Dante in Udine od in Tolmino durante il patriarcato di Pagano della Torre; e documenti per la storia del Friuli dal 1317 al 1322, Udine, 1844, p. 69.
77) C. MARCHI, Op. cit., p. 154.
78) C. MARCHI, Ibidem; v. anche F. MELICHAR e altri, Jugoslavia, Sansoni, 1981, p. 281.
79) Sulla figura del dantista germanico Alfred Bassermann (Mannheim, 1856-Heidelberg, 1935), "caratteristico esponente dell’estetismo delle cerchie colte tedesche prima del 1914", e che "con la sua erudizione e con il suo entusiasmo fu uno dei dantisti più influenti e più autorevoli in Germania", si veda: A. B., in Enciclopedia dantesca, cit., vol. I, 1970, pp. 530-531; e K. KOSTELNIK, A. B., ein Leben für Dante, in Mitteilungsblatt der Deutschen Dante-Gesellschaft, 1968, n. 1. Egli apparteneva alla stessa generazione e alla stessa scuola dell’altro grande dantista, nonché traduttore della Divina Commedia, Paul Pochhammer (Neisse, 1841-Berlino, 1916) e la loro opera testimonia nel modo più eloquente l’universalità di Dante, se si considera che in Italia, negli stessi anni, la Società nazionale Dante Alighieri" era stata fondata (1889) "per tutelare e difendere la lingua e la cultura italiana all’estero" (Enc. Tumminelli, 2 voll., 1949, vol. I, p. 557) e che le sue sezioni di Trento e Trieste furono al centro di un duro scontro con le autorità austriache e con elementi nazionalistici, spec. studenti, delle comunità tedesche.
80) A. BASSERMANN, Orme di Dante in Italia, Zanichelli, 1902, pp. 473-475.
81) Ibidem, p. 659, nota 25.
82) A. CECILIA, voce Tolmino della Enc. dantesca, cit., vol. V, 1976, p. 617.
83) C. MARCHI, Op. cit., p. 154.
84) F. MELICHAR e altri, Op. cit., p. 278.
85) W. P. von ALBEN, Adelsberg. Seine Grotte und Umgebung, Adelsberg, 1983, p. 13 n. Sino all’Ottocento erano visibili,nelle grotte di Postumia, incisioni e firme di visitatori del 1213 e del 1323 (M. JASINSKI, Speleologia, Mondadori, 1966, p. 133). Non erano molte le grotte d’Europa conosciute nel Medioevo, e in genere lo erano per ragioni economiche (attività mineraria), come i famosi pozzi di Wieliczka, nella regione di Cracovia, ove l’estrazione del salgemma incominciò prima del 1290; vedi J. MAJKA, Wieliczka, Séction PTTK Min. de Seil Wieliczka, s. d. Del resto, se il confine politico del 1945 ha lasciato oltre frontiera le grotte di Tolmino e Postumia, molti altri abissi "danteschi" sono presenti nel territorio del Friuli-Venezia Giulia. La speleologia triestina, la più antica del mondo (la Commissione Grotte fu fondata nel 1883) ha scoperto sul Monte Canin la massima profondità italiana e una delle massime mondiali: l’abisso Gortani, a –920 metri. Vedi L. V. BERTARELLI-E. BEOGAN, Duemila grotte. Quarant’anni di esplorazioni nella Venezia Giulia, Touring Club Italiano, 1926. E. PRANDO, Guida alla speleologia dell’Italia. Luoghi e itinerari, Mondadori, 1973, p. 161.
86) Cfr. M. PORENA, Op. cit., pp. 326-327, figg. 11, 12.
87) A. BASSERMANN, Op. cit., pp. 468-469.
88) A. LANFRANCONI, La montagna vuota, ed. Bramante, 1985.
89) Commento alla Divina Commedia di Anonimo del secolo XIV, a cura di P. FANFANI, Zanichelli, 1866-74. Vedi anche: G. DALLA VEDOVA, Intorno alla interpretazione di due nomi geografici della Divina Conmmedia, in Atti R. Accademia Lincei, s. 3, I (1877), pp. 78-83; B. GUYON, Il "Tabernik" in Dante, in Giorn. Dantesco, XI (1903), p. 49 sgg; A FIAMMAZZO, Ortografia dantesca: slovena o italiana?, in Rivista letteraria, II, 4-5 (1930), pp. 18-20; A. CECILIA, voce Tambernicchi in Enc. dantesca, cit., vol V, 1976, p. 516.
90) DANTE, La Divina Commedia, a cura di N. SAPEGNO, cit., vol. 1, p. 356.
91) Cfr. DANTE, La D.C., a cura di G. FALLANI, ed. G. D’Anna (3 voll.), 1970, vol. 1, p. 359, n. 28-30. Quasi unico fra i commentatori moderni, il Dragone accoglie l’interpretazione degli antichi e identifica il monte Tambernicchi con lo Javornik o con la Fruska Gora, presso Tavornik (che però è alta appena 539 metri e non è certo un mons magnus), collocando però quest’ultima, erroneamente, nella Carniola invece che in Slavonia (DANTE, La D. C., a cura di C. T. DRAGONE, ed. Paoline, 1958, p. 388.
92) DANTE, La D.C., a cura di U. BOSCO-G. REGGIO, cit., vol. 1, p. 473.
93) DANTE, La D. C., a cura di C. GRABHER, cit., vol. 1, p. 341.
94) DANTE, La D. C., a cura di P. GALLARDO, cit., vol. 1, p. 352.
95) DANTE, La D. C., a cura di G. GIACALONE, cit., vol. 1, p. 478.
96) DANTE, La D, C., a cura di M. PORENA, cit., vol. 1, p. 291.
97) A. GUSTARELLI, Dizionario dantesco, Milano, ed. Malfasi, 1946, voce Cocito, p. 64.
98) A. BASSERMANN, Op. cit., pp. 466-467.
99) Friuli Venezia Giulia, Touring Club Italiano, p. 232; Friuli.Venezia Giulia, Atlas, 1983, p. 89; Friuli Venezia Giulia, Aristea ed., 1979, p. 227.
100) Friuli Venezia Giulia, Touring Club It., cit., p. 128.
101) R. M. RILKE, Liriche e prose, scelta e tr. V. Errante, Sansoni, 1984; D. CANNARELLA, Il Sentiero Rilke, Trieste, ed. Fachin, 1989.
102) "L’esodo da Firenze dei Bianchi al principio del secolo XIV fu una fortuna per il Veneto, per il Friuli, per l’Istria e la Dalmazia. Numerose famiglie, scacciate dai Neri vittoriosi, si stabilirono in queste regioni, fondarono banche e avviarono traffici: a Capodistria, Parenzo, Pola, Zara. (…) E che Dante ben sapesse di poter trovare ospitalità in Istria presso qualcuno dei molti esuli fiorentini, tutti suoi compartecipi dell’esilio, non può essere messo in dubbio; difficile è piuttosto escludere la sua presenza a Parenzo e a Pola:" (F. SEMI, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, Udine, ed. Del Bianco, 1992, pp. 86-87.
103) Riportiamo il parere dell’illustre dantista Giorgio Petrocchi sulla non identificabilità del "Dante toscano" di Parenzo con l’Alighieri: "Tuttavia, se si deve lasciare aperto il discorso sul soggiorno veneto del 1304-06 [intendi spec. a Treviso], occorre con fermezza respingere (come del resto ha fatto la critica dantesca più autorevole) qualunque ulteriore tentativo d’identificare il poeta col Dantino quondam Alligerii de Florentia et nunc stat Padue di un documento del 27 agosto 1306, ovvero col Dante toscano ricordato in un documento di Parenzo del 4 ottobre 1308, come di recente s’è tornato a riproporre (cfr. Semi)". (G. PETROCCHI, Dante, biografia in Enc. dantesca, vol. VI, 1978, Appendice, p. 34). Vedi anche G. PETROCCHI, Vita di Dante, Laterza, 1993, pp. 99-100; e cfr. la ricca bibliografia dantesca presente in quest’opera.
104) C. DE FRANCESCHI, Il Comune polese e la dinastia dei Castropola. Con documenti inediti (1905); Dante e Pola (1933); Esuli fiorentini della compagnia di Dante, mercanti e prestatori a Trieste e in Istria (1939).
105) F. SEMI, Il soggiorno di Dante in Istria (ottobre 1304), in Pagine istriane, 1959, p. 38; G. VIDOSSICH, Fu Dante a Pola?, in L’indipendente, 29 dicembre 1906.
106) F. SEMI, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, cit., p. 87, che contiene una ricca bibliografia sull’argomento.
107) "Le tombe qui ricordate sono quelle del celebre Cimitière des Alyscamps (Elysii Campi), antica necropoli romana e poi cimitero cristiano che ebbe nel Medioevo fama grandissima così da venir considerato luogo sacro. Secondo una cronaca di Gervais di Tilbury (Otia imperialia I, cap. 90) il cimitero sarebbe stato consacrato da S. Trofimo e destinato alla sepoltura dei cristiani morti in combattimento contro i Saraceni, in battaglia al di qua e al di là dei Pirenei, con evidente allusione alla rotta di Roncisvalle. La leggenda è ricordata da altri scrittori del XIII secolo e in particolare in una Vita di S. Trofimo in versi provenzali in cui si narra che "i parenti affidarono i morti alla corrente del Rodano: essi scesero fino ad Arles, ma non più avanti per virtù del santo cimitero che Dio ha consacrato e che si chiama Aliscamps (ZINGARELLI, in Annales du Midi, XIII, 901). Questa leggenda, che poté esser nota a Dante, buon conoscitore della poesia provenzale, potrebbe anche aiutare a spiegare l’espressione ove Rodano stagna. È da escludere il senso "si getta in mare" (dubbio e non confacente il riferimento a Inf., XX, 66) perché Arles non è sul mare. Forse varrà "s’impaluda", tenendo conto che ad Arles il Rodano si divide in due bracci formando un vasto delta paludoso, e seminato di stagni, la Camargue. È evidente che l’espressione, intesa in questo secondo senso, non esclude che sull’immagine dello stagnare del fiume abbiano agito insieme notiozie sul delta del Rodano e la leggenda della vita di S. Trofimo (cfr. HAUVETTE, La France et la Provence dans l’oeuvre de Dante, Paris, 1929, pp.57-61)." (DANTE, La Divina Commedia, a cura di U. BOSCO-G. REGGIO, cit., vol. 1, p.141).
108) A. CECILIA, in Enc. dantesca, cit., vol. VI, 1973, pp. 577-578. Vedi anche G. MOROSINI, Nel VI centenario della Visione divina. La leggenda di Dante nella regione Giulia: la leggenda di Pola, in Archeografo triestino, n. s., XXIII (1901), fasc. 1.
109) A. BASSERMANN, cit., p. 463. Della stessa opinione R. CACCIANOTTI, La nascita della Divina Commedia, ed. Del Drago, 1991, p. 21.
110) DANTE, Par., XXXIII, 103-108.
111) DANTE, La Divina Commedia, a cura di N. SAPEGNO, cit., vol. 3, p. 400.
112) F. PETRARCA, Canzoniere, XVI.
113) L. COLETTI, Tomaso da Modena, ed. Neri Pozza, 1963, pp. 18-25; tav. 27.
114) L’ipotesi del viaggio di Dante in Croazia è entrata anche, sia pure con una certa cautela, nel mondo accademico di quel Paese. Il 27 aprile 2005, nel quadro delle Lectura Dantis organizzate dall’Università Orientale di Napoli, la professoressa Susana Glava, dell’Università di Zagabria, ha parlato sul tema Il viaggio di Dante in Croazia tra realtà e ipotesi.
115) Ernesto Sestan (Trento, 1898-Firenze, 1986) ha legato la sua fama di storico soprattutto al saggio Stato e nazione nell’alto medioevo, del 1852. Per uno sguardo d’insieme della vicenda poltica giuliana, vedi l’ottimo studio di F. STEFANI, Senza pace. L’incerto confine orientale italiano in trent’anni di storia (1915-1945), Udine, Coop. Edit. Il Campo, 1988.
FRANCESCO LAMENDOLA
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