
Seconda Guerra Mondiale: fu scontro fra il sangue e l’oro?
1 Maggio 2019
Hitler era convinto della propria rettitudine?
1 Maggio 2019Il nostro passato recente è stato rimosso da una cultura asservita a interessi stranieri; ci sono state occultate le nostre radici, è stata falsificata la storia recente, siamo stati indottrinati, manipolati e abbindolati in maniera ignobile; si è sparso fango a piene mani su quanti hanno cercato, a suo tempo, di fare il bene del nostro popolo e del nostro Paese e sono stati esaltati come eroi senza macchia e senza paura, dei personaggi mediocri, o abietti, i cui scopi erano la guerra civile, l’asservimento totale della nazione, la distruzione della nostra civiltà, della nostra tradizione, della nostra cultura, per sostituirle ora con l’abbrutimento del comunismo di tipo sovietico, poi, e fino ai nostri giorni, con un abbrutimento più subdolo: quello del capitalismo selvaggio, della finanza amorale e della globalizzazione forzata. In questa duplice direzione apparentemente contraddittoria, ma che ha mostrato di avere, in effetti, una sua logica intrinseca, brilla e ha brillato la sinistra, con tutti i suoi esponenti e specialmente con la grande maggioranza dei cosiddetti intellettuali: passati dalla retorica del lavoro, della giustizia e dell’uguaglianza alla retorica dell’Unione Europea, del mondialismo e dell’immigrazionismo senza regole, a beneficio del grande capitale finanziario e cioè nell’interesse di poche decine di persone e contro l’interesse e il futuro di centinaia di milioni di giovani, di lavoratori e di pensionati. Ma per poter portare avanti questa metamorfosi odiosa, questo rivoltante voltafaccia, gli esponenti della sinistra, prima di tutto, avevano bisogno di operare in regime di monopolio, ossia di smantellare e delegittimare in partenza qualsiasi narrazione alternativa alla loro; e solo a quel punto avrebbero potuto permettersi qualsiasi voltafaccia, qualsiasi contrordine, compagni!, senza dover arrossire né dover giustificare l’incredibile tradimento di cui si sono fatti complici e zelanti servitori. Un Casarini che dice le stesse cose che dice George Soros: ma vi pare? Un Bergoglio che dice le stesse cose che dice Juncker: ma ci rendiamo conto? E un Saviano che dice le stesse cose che dice il signorino Macron: tutto ciò sarebbe comico, se non fosse tragico e vergognoso. Ma era inevitabile che le cose prendessero questa piega: chi possiede un’anima subalterna e rancorosa non sa pensare nulla per proprio conto, sa solo mettersi al seguito della corrente che spinge con più forza, lasciarsi trasportare dal vento che soffia con maggiore intensità: ieri era il vento del comunismo; poi quello del sessantottismo, cioè del comunismo più l’individualismo borghese; oggi è rimasto solo il vento della grande finanza, cioè del libertinismo di massa, che vorrebbe ridurre tutti quanti a maiali sprofondati nel brago della soddisfazione di ogni vizio e ogni i capriccio. Dalla droga alla sodomia e dal consumismo becero alla pederastia, et voilà il cittadino evoluto e progressista del terzo millennio: un omuncolo che parla e blatera sempre e solo di diritti, di conquiste, di rivendicazioni, di civiltà, intendendo che è civile chi la pensa e si rotola nel fango come lui come lui, mentre è incivile, fascista e razzista chi la pensa altrimenti; un nano saccente e petulante che si è travestito da gigante, un debosciato e un demente che fa la ruota come un pavone, immaginando di essere il prototipo dell’umanità perfetta, in marcia verso le magnifiche sorti e progressive. E chi gliela leva più quella superbia? Chi gli farà mai capire di essere solo un pappagallo ammaestrato, un ventriloquo che ripete formule e frasi fatte, un povero idiota al servizio di un potere spietato, mondiale, pervasivo, che si serve di lui, e di milioni di persone come lui, per realizzare il suo disegno occulto di dominio planetario? Nessuno potrebbe mai riuscirci: l’idiota progressista e politicamente corretto dei nostri giorni è talmente impastato d’ignoranza e presunzione, che mai lo sfiora l’idea di non aver capito niente di niente; che il suo diploma e la sua laurea, regalati da professori ignoranti e servi come lui, non significano nulla, assolutamente nulla; che il suo quoziente d’intelligenza e la sua coscienza morale sarebbero appena sufficienti, nel migliore dei casi, a fare il portinaio o il telefonista in un call centre (senza offesa per queste due categorie), mentre si crede degno, come minimo, di fare il direttore di giornale, o di una grossa casa editrice, o il docente universitario.
E ora, ci sia consentito un aneddoto personale. Da trent’anni viviamo in un paese ai piedi delle Prealpi Trevigiane, e mai avevamo sentito fare il nome di quello che, fino a una settantina d’anni or sono, certamente doveva essere considerato un concittadino illustre: lo scrittore, giornalista e regista cinematografico Mario Franchini, nato a Pieve di Soligo il 9 dicembre 1901. Volontario nella Prima guerra mondiale e decorato al valore, aderì al fascismo con fervore e si segnalò, come giornalista, specialmente in qualità di corrispondente del Giornale d’Italia a Berlino. Come scrittore possiamo ricordare alcuni suoi libri di viaggio e di attualità politica, quali La disciplina del lavoro, Uomini del Fascismo, Romana terra del Brennero, Il miraggio, Ogaden, Dalle sabbie di Mogadiscio agli eucalipti di Addis Abeba, La vita di Adolfo Hitler e diversi altri, che qui tralasciano. Una produzione piuttosto corposa, come si vede, per non parlare della sua attività nel campo del cinema; eppure il suo nome è stato completamente censurato, addirittura rimosso, al punto che oggi sono ben pochi, crediamo, gli italiani che lo hanno sentito nominare, a parte alcuni nostalgici del vecchio cinema degli anni ’30 e i bibliofili che frequentano i mercatini dell’antiquariato o frugano negli scaffali più polverosi delle vecchie biblioteche. Esiste una voce biografica a lui dedicata su Wikipedia, ma solo in tedesco, retaggio del suo soggiorno in Germania e del volume dedicato a Hitler; ma niente in italiano, o quasi, né in rete, né su materiale cartaceo. Perfino la data di morte non è conosciuta: Wikipedia dice nach 1959, ossia dopo il 1959, che è l’anno della scomparsa di sua moglie; piuttosto avara, come informazione. Si direbbe che, a un certo punto, la sua esistenza sia stata ingoiata da un fiume carsico, e così la sua memoria. Aveva sposato un’attrice promettente, un po’ più grande di lui: Marcella Albani (Albano Laziale, 7 dicembre 1899-Bad Godesberg, Bonn, 11 maggio 1959), al secolo Ida Maranca, che aveva fatto i primi passi nel mondo del cinema sotto la direzione del regista Guido Parish, col quale aveva creato un sodalizio professionale e affettivo e col quale si era trasferita in Germania, ottenendo anche lì un discreto successo di pubblico; per poi separarsene e sposare, appunto, il Franchini, che in Germania era andato a raccogliere materiali per il suo libro su Hitler. Questi per amore della moglie mise in piedi una piccola casa produttrice, la Albani Film, e si improvvisò regista per dirigere due film nei quali ella era la protagonista: La città dell’amore, del 1933, e Ritorno alla terra, del 1934. Anche Marcella Albani è oggi del tutto dimenticata: eppure aveva interpretato la bellezza di cinquanta film, in un arco di tempo di diciassette anni, da L’amplesso della morte, del 1919, diretto da Parish, a L’imperatore della California, di Luis Trenker, del 1936; e almeno una dozzina di essi, come Amore in fuga, La Madonna della Robbia, L’immortale, La figlia delle onde, La sposa perduta, Bufera, Ferro di cavallo, L’imperatrice perduta, Corte d’Assise, Zaganella e il cavaliere, Non son gelosa, diretti da Parish e da alcuni registi tedeschi, più i due già citati diretti da Franchini e un altro, Stradivari, diretto dall’ungherese Géza von Bolvári, godettero di una certa notorietà. Anche se poi, non tanto per ragioni artistiche, né solo per il mutare dei gusti del pubblico e della critica, ma soprattutto per una ferrea censura politica retroattiva, sono stati letteralmente risucchiati nel pozzo dell’oblio: come perdonarle l’orribile colpa d’aver recitato per il cinema tedesco negli anni del nazismo?
Scriveva Franchini in La vita di Adolfo Hitler, fondatore del Terzo Reich, oggi introvabile, parlando di due distinti episodi: il putsch di Monaco del ’23 e la nascita dell’Asse, nel ’36 (ed. del Giornale d’Italia, Roma, 1938; cit. in: Falcidia-Salomone, In cammino, Torino, S.E.I., pp. 725-7; 728-9):
Giornata di sangue, quella del 9 novembre 1923! A Monaco cadevano i primi martiri del Movimento Nazista: sedici Camicie Brune venivano barbaramente uccise. Erano, queste, ex combattenti, professionisti, impiegati; uomini di 50 anni e giovani di 18 anni, che militavano nell’allora Partito operaio. Fra i feriti vi fu anche Goering, attuale Feldmaresciallo e Ministro Presidente. Il 9 novembre, giorno in cui il partito versò il primo sangue, è per la Germania del Terzo Reich una giornata di rimembranza, che è considerata come quella del battesimo del Nazionalsocialismo. La ricorrenza viene solennemente celebrata tutti gli anni. Nel 1935 Hitler inaugurò il nuovo ponte Ludwig in sostituzione di quello vecchio. Alla cerimonia si volle dare un significato simbolico. Il ponte Ludwig è appunto quello sul quale passava la colonna di Camicie Brune per recarsi alla "Feldherrhalle" [costruita nel 1840-41 dall’architetto Friedrich Gärtner per conto di Luigi I di Baviera, sul modello della Loggia dei Lanzi di Firenze]. Era quasi mezzanotte Il Partito aveva tenuto una riunione alla "Hofbräukeller [la famosa birreria di Monaco]. Hitler aveva preso la ferma decisione di sventar ei piani dei separatisti che stavano portando la Germania alla completa rovina: e decise di salvare il Reich a qualunque costo. Dopo l’adunanza uscì con i suoi fedeli. Ma giunta la colonna all’altezza del ponte Ludwig, venne assalita. Hitler non rimase colpito unicamente perché i suoi fedeli gli fecero scudo. I fatti della notte dall’8 al 9 novembre e quelli che si verificarono nel corso della giornata del 9, durante i quali la bandiera nazista rimase intrisa del sangue dei primi martiri, colpiti dalla furia rossa, ebbero notevoli conseguenze. A Berlino fu emesso un proclama che diceva: "Il Governo responsabile dell’assassinio del novembre è stato oggi destituito. È stato formato un Governo nazionale provvisorio. Questo è composto del generale von Ludendorff, di Adolf Hitler, del generale von Lossow e del colonnello Seiffer."
Il contro-proclama del tradimento, emanato dal commissario generale di Monaco, ordinava invece lo scioglimento del partito. Da allora, le Camicie Brune divennero legioni, e se il Movimento nazionalsocialista il 9 novembre 1923 soggiacque sotto le pallottole rosse e sembrò distrutto, non fu così. La marcia verso la "Feldherralle" non fu l’ultima, ma la prima compiuta dal Movimento entrato nella Storia. Il sangue dei caduti non fu versato invano. Dopo 12 anni la bandiera con la croce uncinata sventolava in tutta la Germania. Conviene ricordare, infatti, che la nuova bandiera del Reich fu inaugurata ufficialmente nel novembre del 1935, alla vigilia della commemorazione delle Camicie Brune cadute a Monaco. (…)
Lo scopo e gli obiettivi dell’Asse Roma-Berlino sono noti da tempo. È stato più volte dichiarato, e oggi vale la pena di ripeterlo, che l’Asse è animato in primo luogo dal fermo, concreto proposito di pace e dalla volontà di difendere l’ordine e la civiltà dell’Europa. Fin dal primo momento Italia e Germania si sono rese conto delle realtà della politica internazionale. Ora più che mai tali realtà non vengono perdute di vista, non si hanno cioè di mira cose utopistiche, bensì e unicamente i fatti dell’attuale situazione europea. Sarà bene, dunque, sottolineare ancora una volta che l’Asse Roma-Berlino rimane aperto alla collaborazione di tutte le altre Potenze di buona volontà.
Il Führer e il Duce avranno occasione di constatare con soddisfazione i risultati indiscutibili e anche internazionalmente riconosciuti della politica dell’Asse. In uno spazio relativamente breve si è riusciti a fare dell’Asse una forte, saldissima verticale, intorno alla quale ha incominciato a muoversi, in maniera sempre più evidente, la politica europea. Ed infatti l’Asse è oggi uno dei pochi elementi stabili della situazione internazionale, e il suo principale successo si è già delineato chiaramente nel fatto che contro le forze corrosive e distruttive è stato eretto un bastione insormontabile. La collaborazione tra Roma e Berlino è tanto più feconda in quanto alla testa dei due popoli si trovano Uomini di Stato animati da idee costruttive, la efficacia delle quali è stata già luminosamente dimostrata dalle opere di ricostruzione interna, dove, sia il Fascismo che il Nazismo allineano dei successi che nessun altro Paese può oggi vantare. L’intesa italo-germanica è diventata un incomparabile fattore di pace per il fatto che il Duce e il Führer, compiuta la ricostruzione interna dei loro popoli e dei loro Stati, si sono proposti di liberare l’atmosfera internazionale da pericolose tensioni, ponendo fine alle ingiustizie che gravavano sui loro Paesi.
La comunanza di propositi e di obiettivi non è dovuta al caso: essa è anzi il risultato naturale delle affinità e solidarietà ideali dei due potenti Movimento rivoluzionari che hanno condotto, nei due Paesi, ad una trasformazione della vita nazionale e statale. Si è fatta accusa all’Asse Roma-Berlino di voler dividere l’Europa in due campi avversi; coloro che elevavano tale accusa, erano proprio coloro che avevano fatto una politica di blocchi e di alleanze.
Che dire di questa pagina di prosa politica? Certo, è facile osservare che le analisi del Franchini sono a dir poco ingenue, e che gli eventi hanno preso una piega ben diversa da ciò che egli profetizzava. Tuttavia quali Potenze, all’epoca, non parlavano di pace e di obiettivi di giustizia per i propri popoli? Al di là di quel diceva Hitler pubblicamente, e anche di quel che diceva Mussolini, resta i fatto che molti italiani dell’epoca, e anche molti tedeschi, pensarono davvero che i rispettivi regimi avrebbero agito per il bene dei loro popoli. La presunzione di buona fede è stata poi concessa a tutti gli altri, anche agli antifascisti che fin dal 1936 preparavano la guerra civile (oggi in Spagna, domani in Italia, dicevano); solo ai fascisti è stata negata. Ed ecco spiegato perché, dopo il 1945, scrittori come Mario Franchini dovevano essere rimossi perfino dalla memoria collettiva. Ed ecco che, per scoprire che quegli italiani esistettero; che forse si sbagliarono, ma non erano animati da ignobili sentimenti, al contrario, da un autentico amor di Patria; che la loro sincerità e buona fede è attestata dal fatto che in molti avevano combattuto, volontari, nelle trincee della Prima guerra mondiale, mentre i loro avversari erano stati in larga misura dei renitenti alla leva, dei sabotatori e dei disfattisti, che si erano rallegrati del disastro di Caporetto e avevano sempre proclamato non l’unione e la solidarietà nazionale, ma la lotta di classe e l’odio irriducibile del proletariato contro la borghesia: per scoprire queste cose, questi nomi, queste storie di italiani generosi e idealisti, è necessario imbattersi per sbagliod in un vecchio libro esposto sulle bancarelle d’un mercatino, perché la cultura ufficiale ha decretato, settant’anni fa, che essi non meritano neppure un ricordo, nemmeno nei loro paesi natali. Ma, obietterà qualcuno, poco male se si è persa la memoria di uomini come Mario Franchini; indipendentemente dai loro meriti come scrittori, o giornalisti, o registi, resta il fatto che lodarono Mussolini e parlarono bene perfino di Hitler. Ebbene, si rileggano i giornali dell’epoca, non solo italiani, ma di tutte le principali nazioni. Quanti di essi non lodarono Mussolini, dagli inizi e fin verso il 1936 (fino, cioè, alla nascita dell’Asse Roma-Berlino) e quanti non parlarono bene perfino di Hitler, almeno nei primi tempi del suo cancellierato, vedendo in essi i restauratori dell’ordine e della pace sociale nei rispettivi Paesi, nonché dei validi antemurali contro la minaccia del comunismo internazionale? Parliamoci chiaro: gli uomini politici del tempo, come Churchill, e molti fra gli intellettuali, compresi quelli di sinistra — specie all’epoca del Patto Molotov-Ribbentrop fra nazisti e sovietici — non trovarono da ridire su Hitler, e specialmente su Mussolini, se non quando apparve evidente che i due dittatori intendevano sottrarsi alla dipendenza-capestro dalla grande finanza occidentale e spezzare l’accerchiamento che le democrazie plutocratiche avevano realizzato a danno dei popoli europei, cercando di metterli gli uni contro gli altri (ad esempio la Piccola Intesa, finanziata dalla Francia, contro l’Austria e l’Ungheria e, indirettamente, contro l’Italia). E dunque non è moralmente onesto, né corretto dal punto di vista storiografico, rimproverare a uomini come Mario Franchini una scelta politica che si può certamente discutere e criticare, ma che non è, di per se stessa, qualcosa di vergognoso, che li marchi a fuoco come dei servitori di regimi criminali. Il solo regime politico che, nel 1936, si poteva giustamente considerare come un regime criminale, era quello dell’Unione Sovietica: cioè quello che, dopo il 1945, la cultura dominante in Italia ha avuto la sfacciataggine di presentare come la speranza di libertà e di riscatto per i popoli del mondo intero. Nascondendo il fatto che centinaia di comunisti italiani, emigrati un Unione Sovietica per sottrarsi alla dittatura fascista, trovarono la morte nelle purghe staliniane; mentre Mussolini, in Italia, non arrivò ad attuare nulla di simile contro gli oppositori di sinistra. Quanta ipocrisia, quanta falsità hanno guidato i padroni della cultura ufficiale italiana, dal 1945 fino ad oggi, con tutti i loro riti di cartapesta, dal 25 aprile, anniversario della Liberazione (quale?) al 1° maggio, festa dei lavoratori, ideati e pervicacemente portati avanti, anno dopo anno, allo scopo di occultare la verità alle nuove generazioni, e di alimentare un clima di odio e latente guerra civile, con la criminalizzazione dei pretesi "fascisti". È dell’altro giorno una grave aggressione fisica, in quel di Padova, ai danni di due esponenti della destra, da parte di alcuni membri di un centro sociale, i quali hanno poi sostenuto di esser pronti a picchiare di nuovo i "fascisti" in futuro, perché quella era la linea tracciata a suoi tempo dai partigiani. E abbiamo visto, negli anni ’70 e ’80 del ‘900, quali frutti di sangue abbia portato il mito della Resistenza in chiave post-sessantottina e, come allora si diceva, anti-imperialista: è stata, in pratica, un’altra guerra civile, sia pure a bassa intensità, con decine di morti ammazzati, di feriti, di rapimenti, di rapine e atti di violenza d’ogni genere: sempre per inseguire il mito dell’antifascismo. Sono questi i frutti di una democrazia che si regge sulla menzogna e la rimozione del passato. E allora è giusto riscoprire gli italiani oggi dimenticati che hanno creduto nelle sorti della Patria e hanno pagato di persona per vederla libera, forte e rispettata: cose normali in una nazione normale…
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