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I due mali che ci stanno uccidendo: la disgregazione della famiglia e quella dell’io

La nostra civiltà è sull’orlo del crollo e i due mali che la stanno uccidendo sono la disgregazione della famiglia e la disgregazione dell’io. Se la famiglia si disgrega, la società si perde; se si disgrega l’io, si perde l’individuo. Di fatto, le due cose stanno procedendo di pari passo, ed è difficile dire quale dei due mali si sia manifestato prima e quale sia stato la causa dell’altro. Ormai essi sono così strettamente connessi che possiamo considerarli come una cosa sola, come se fossero un’unica malattia. Pertanto, o troveremo la cura e l’antidoto per entrambi, oppure non ci sarà salvezza: un individuo sano non sopravive in una famiglia malata, né una famiglia sana può reggere alle tensioni causate dalla malattia dei suoi componenti. Uno degli scrittori che ebbe più viva coscienza di questa minaccia fu Luigi Pirandello; in pratica, però, la sua inclinazione a ritenere la famiglia come di per sé portatrice di male (la "trappola sociale", ovvero la "stanza della tortura") e a vedere nell’individuo la vittima dei suoi perversi meccanismi, gli impediva di comprendere che non esiste una famiglia malata che si contrappone a un individuo sano, ma che se l’individuo fosse sano, lo sarebbe anche la famiglia, perché la famiglia è formata da individui, è la società naturale per eccellenza, anzi, è la sola che meriti realmente questo nome. Un individuo sano può ben reggere alla pressione di una famiglia malata, e una famiglia sana può sopportare la prova di avere in sé un individuo malato; quel che non è sopportabile è la tensione reciproca, costante, distruttiva di un individuo malato e di una famiglia malata, e di quel particolare tipo di malattia che nasce dalla disgregazione, cioè dalla perdita del centro e dal prevalere delle dinamiche disordinate, degli istinti primitivi, della concupiscenza – per usare una parola tratta dal vocabolario teologico — sul piano ordinato, armonioso e positivo che deve presiedere sia alla costruzione dell’individuo, sia a quella della famiglia.

Due precisazioni semantiche, prima di proseguire. Quando diciamo che la nostra civiltà è sull’orlo del crollo, non stiamo parlando della cosiddetta civiltà moderna, la quale, in effetti, è una anti-civiltà: il primo e più notevole esempio di una pseudo civiltà che cresce, come una pianta parassita, sull’organismo sano di una vera civiltà, ne succhia le sostanze vitali e alla fine ne provoca la morte. La civiltà sana, sulla quale si è abbarbicata la mala pianta della modernità, è la civiltà cristiana, fiorita in Europa fra l’ultima fase della romanità e l’avvento dell’umanesimo. La modernità è nata come un fungo velenoso sul corpo della civiltà cristiana, ed è nata da una precisa volontà di contrapporsi ad essa, di minarla, di distruggerla, e di sostituirsi a lei, con la tipica stupidità del parassita che non sa, né pensa, che, una volta ucciso il proprio ospite, non avrà più nulla di cui vivere, e morirà a sua volta. Non si prendano queste immagini come iperboliche: sono la descrizione fedele e obiettiva di quanto è accaduto. La nostra civiltà attuale, quella di cui siamo parte, nella quale ci muoviamo, pensiamo, sentiamo, è la mescolanza fra la vera civiltà europea, che è, o piuttosto era, quella cristiana, e l’anti-civiltà moderna: non una sintesi, ma un rapporto da parassita a parassitato, da vampiro a vampirizzato, un mondo crepuscolare avviato al disfacimento, anche se uno sguardo superficiale potrebbe non accorgersene e perfino scambiare per indici di buna salute i segni indicatori del rapido decorso della malattia. Quel che di sano c’è ancora nel nostro mondo, nella nostra società, nella nostra cultura, viene dal cristianesimo; tutto il resto è la metastasi della modernità, fatta di liberalismo, radicalismo, materialismo e consumismo, tutte ideologie e stili di vita che sono di per sé distruttivi. Il liberalismo ha insegnato agli europei che ciascuno ha il sacrosanto diritto di fare, nella sua vita e della sua vita, tutto quel che gli pare e piace, di seguire qualunque impulso, di indulgere a qualunque depravazione, purché rispetti formalmente le leggi, leggi fatte apposta per concedere all’individuo la massima libertà distruttiva: divorzio, aborto, eutanasia, libere unioni, matrimoni sodomitici, libertà di drogarsi, tutto questo viene dalla cultura liberale, è inscritto nel suo dna e non è affatto una degenerazione, ma il logico e naturale sviluppo di quanto proclama quella ideologia. Lo stato, le leggi, servono solo a custodire questa folle libertà anarchica: sono, letteralmente, al servizio del disordine costituito. Del marxismo, del fascismo e del nazismo non parliamo nemmeno: sono tardi sviluppi e tentativi di reazione al liberalismo, e stanno con esso in un rapporto di odio-amore; sono i figli illegittimi che vorrebbero spodestare il padre, e vendicarsi della sua indifferenza. La democrazia moderna, totalitaria quanto e più del comunismo e del fascismo, è il figlio legittimo del liberalismo, il figlio nel quale il padre si è compiaciuto. Si osservi lo sviluppo storico parallelo della Gran Bretagna e degli Stati Uniti: è un caso unico nella storia di due imperi che si succedono l’uno all’altro in maniera pacifica e perfino amichevole, che si passano la staffetta senza venire a una resa dei conti: si passa dalla pax britannica alla pax americana, tra la prima e la seconda guerra mondiale, con la naturalezza con cui si scivola da un piano inclinato verso il basso. Tale è il passaggio dal liberalismo alla democrazia moderna: non c’è soluzione di continuità, perché i presupposti sono gli stessi, la prospettiva è la medesima. E il consumismo non è una escrescenza, non è una degenerazione cancerogena della democrazia liberale, ma la sua essenza, la sua cifra autentica: è impossibile concepire una democrazia moderna che non si regga sul consumismo, perché è impossibile che si affermi una democrazia moderna su altri presupposti che la tirannia del mercato, la mercificazione dell’economia, il primato della finanza, della rendita, delle forze capitaliste parassitarie, risultato della tendenza all’accumulazione improduttiva del capitale rispetto all’economia reale, basata sul lavoro e sul risparmio delle persone. Ed è impensabile che, per giungere a ciò, non venga messa a punto, dal potere finanziario dominante, una precisa strategia mirante alla sottomissione, psicologica ancora prima che materiale, dell’individuo, quello stesso individuo che il liberalismo pretende di voler "liberare". Lo strumento essenziale del dominio è, infatti, non una cosa, ma un sentimento: il più primitivo, il più irrazionale, il più incontrollabile dei sentimenti: la paura. Con la paura della povertà, il sistema mette le mani sul portafoglio delle persone, per mezzo delle banche; con la paura della malattia e della morte, si impadronisce del corpo fisco delle persone e le piega ai meccanismi di una medicina pensata non per sanare le malattie, ma per cronicizzarle; con la paura della solitudine e della emarginazione, le persone vengono spinte a mettersi nelle mani di una casta particolarmente nociva, avida e parassitaria, psicologi, psicanalisti, psichiatri, i quali, salvo lodevoli eccezioni, hanno per il paziente la stessa sensibilità che il consulente finanziario ha per la persona dei suoi clienti. Terrorizzato dalla povertà, dalla morte e dalla solitudine, l’uomo moderno si mette nelle mani di quegli esperti, di quegli specialisti, che finiscono per esercitare su di lui un controllo totale: sul suo portafoglio, sulla sua cartella clinica, sull’idea che egli ha di sé. A quel punto non c’è più la persona, ma solo una povera creatura tremebonda, ricattabile, paranoica, facile preda di qualsiasi briccone che sia abbastanza astuto e abbastanza sfacciato da presentarsi come colui che offre la soluzione ai suoi problemi, mentre è parte integrante della loro origine,

E qui ci colleghiamo alla seconda precisazione semantica. Quando diciamo che è in atto una disgregazione dell’io, l’"io" al quale ci riferiamo non è la struttura originaria della vita interiore, della quale si è perfino smarrita la nozione (la civiltà cristiana la chiamava "anima", però con un significato trascendente e soprannaturale), ma il "piccolo io" meschino e narcisista, che identifica il mondo con i suoi capricci, con le sue paure e con le sue brame, e che vive per passare da un desiderio all’altro, in un inseguimento tanto affannoso quanto vano, perché l’oggetto del desiderio, in un contesto culturale e spirituale di tipo consumista, è, per definizione, inafferrabile (ne sanno qualcosa gli eroi e le eroine di Ludovico Ariosto), e quindi la ricerca non è che una serie monotona, ripetitiva, frustrante, di illusioni e delusioni, in una spirale senza fine e senza senso. Che questo io sia in fase di disgregazione, non è, di per sé, un male; anzi, sarebbe sicuramente un bene, se le persone avessero la nozione che esso non è tutto l’io, e che il vero io, quello un tempo chiamato "anima", non può che avere un vantaggio dalla sua eclisse, perché potrà finalmente venire alla luce, esprimersi e tentare di realizzarsi. Il dramma dell’uomo moderno è quello di identificarsi con l’io illusorio e narcisista, e non concedere alcuno spazio, alcuna possibilità, al suo vero io, alla sua parte più vera e profonda, quella che è chiamata al mondo per fare qualcosa, per assolvere a un compito, per realizzare un fine. Sta di fatto che l’uomo finisce per essere quel che crede di essere: se crede di essere una scimmia, diventerà una scimmia; se crede di essere un mostro, diverrà un mostro; se crede di essere solo un piccolo io meschino, capriccioso ed eternamente desiderante, la sua disgregazione gli apparirà come una catastrofe, come una rovina, come un evento irreparabile, e finirà per morirne. Perciò è necessario che l’uomo giunga alla consapevolezza di non identificarsi con il piccolo io, ma sviluppi la coscienza di essere molto, ma molto di più: un io immortale, destinato a vivere nell’eternità, ma in una eternità infinitamente beata o infinitamente disperata, e questo dipenderà da lui e solamente da lui.

Pertanto, se vogliamo sottrarci al tracollo cui siamo avviati, dobbiamo agire, contemporaneamente, al livello dell’individuo e al livello della famiglia. L’individuo deve tornare a volersi bene, a credere in se stesso, ad aver voglia di star bene, di condurre una esistenza sana, a porsi degli obiettivi che siano costruttivi e universalmente validi, tali, cioè, da soddisfare il suo personale bisogno di realizzarsi, ma anche da risultare utili per la società, a cominciare dalla famiglia cui egli appartiene; e la famiglia, a sua volta, deve tornare ad avere piena coscienza di sé, della sua importanza, della sua missione, delle cose che la fanno star bene e di quelle che la fanno star male: la famiglia vera, naturalmente, quella formata da un uomo e una donna che sia amano, che progettano un futuro e che desiderano, o almeno che non escludono, di avere dei bambini. Le altre famiglie, le cosiddette famiglie arcobaleno, formate da coppie omosessuali che si procurano i figli con vari artifici, il più obbrobrioso dei quali è quello di acquistarli da una donna bisognosa, che funge da animale riproduttivo, sono solamente sporcizia e spazzatura: e lo diciamo nel rispetto delle persone, ma senza alcun rispetto per l’idea che esse rappresentano, che è un’idea mostruosa, aberrante, turpe. Una tipica idea liberale: io faccio quel che voglio, io ho diritto a realizzare il mio amore, io ho diritto di avere dei figli, in qualsiasi maniera, con qualunque espediente; con l’aggravante dell’ipocrisia, perché tutto questo viene presentato come un atto di amore, di sincerità, di onestà, e addirittura cime una ricerca del "vero" bene dei bambini, i quali, essi dicono, non hanno bisogno di un padre e una madre, ma di un genitore 1 e di un genitore 2, dai quali avranno tutto l’amore di cui c’è bisogno, senza lasciarsi condizionare da vecchi pregiudizi come il fatto che i due sessi sono stati creati per completarsi a vicenda, e che, affettivamente, ma anche anatomicamente parlando (ci si perdoni la brutalità), il destino del maschio è quello di amare una donna e di darle dei figli, non quello di farsi sodomizzare da un altro maschio; e il destino della donna è quello di amare un uomo e avere dei bambini da crescere e da avviare alla vita adulta, non quello di prendersi una donna per amante e compagna di vita, quale mediocre surrogato dell’uomo.

Siamo avviati alla rovina, abbiamo già un piede nell’abisso, eppure possiamo ancora ravvederci e salvarci. Non tutto è perduto. Dobbiamo reagire, dobbiamo riscoprire la bellezza della nostra vera civiltà, la bellezza e la verità del cristianesimo, e liberarci della pianta parassita della modernità, che le si è abbarbicata intorno, cercando di soffocarla. Dobbiamo fare pulizia, nella nostra mente e nel nostro cuore, della folle ideologia liberale, deresponsabilizzante, permissiva, relativista, scettica, nichilista: perché la vita è una cosa bella, dopotutto; è un’avventura entusiasmante, una missione da compiere, nella ricerca della verità e non nel ridicolo e penoso inseguimento di sempre elusivi oggetti del desiderio, che sono solo la catena della nostra schiavitù, mediante la quale il diabolico consumismo ci tiene al guinzaglio come cani. Non siamo quelle piccole creature vermiformi, che strisciano sulla terra e sguazzano nel fango, in attesa di sparire nel nulla, che la cultura materialista oggi imperante vorrebbe farci credere; vi sono molte più cose, in noi, e assai più grandi, di quanto potrebbe sospettarne il più grande di questi nani presuntuosi e sentenziosi, che passano, nella decadenza generale, per degli autentici maestri di pensiero. C’è tutta una vita, lì fuori, che ci attende: quella vera, bella, luminosa, fatta per l’eternità. Perché dobbiamo rinchiuderci da noi stessi in questa prigione buia e maleodorante? Perché dobbiamo rivolgere le nostre armi contro noi stessi? È giunto il tempo di spezzare le catene. Dio è con noi, ci cerca, ci chiama: e chi mai potrà resisterci?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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