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È qui, sopra di noi

Come una tromba d’aria prevista dai meteorologi, attesa, temuta, ora un fantastico e minaccioso muraglione di nuvole nere come l’inchiostro, enorme, incombente, si è materializzato all’orizzonte, si è avvicinato e adesso è proprio sopra di noi. Sapevamo che sarebbe giunto, e così è stato. Potevamo sforzarci di pensare ad altro, di far finta di nulla, però sapevamo quel che doveva accadere e adesso dobbiamo fare i conti con la realtà: il momento preannunciato è adesso, non più domani.

Ne avevamo avuto, in verità, molti segnali. Se la tromba d’aria è un evento meteorologico ben definito e che può essere localizzato con una certa precisione, la tempesta morale che si sta per scatenare contro di noi era stata intuita, prevista, annunciata, e perfino descritta in anticipo, almeno per alcuni suoi aspetti, da più parti: voci che, naturalmente, erano state sovrastaste da tutt’altri cori e da discorsi di tenore completamente diverso. Tuttavia, chi aveva voluto udirle, le aveva udite; chi aveva voluto ascoltarle, le aveva ascoltate. Quel che ci si presenta oggi non è né del tutto inatteso, né, tanto meno, qualcosa d’imprevisto e d’impensabile; al contrario, è il logico risultato di molti decenni, nel corso dei quali si sono coltivate le forze e si sono incoraggiate le tendenze che ora ci sgomentano per la grandiosità degli sconvolgimenti che sono in arrivo. Certo, sarebbe più facile, per molti, continuare a fare ciò che hanno fatto sinora, la politica dello struzzo: mettere la testa sotto la sabbia ed evitare, così, di vedere la realtà, quando essa è particolarmente dura da accettare, o sgradevole, o anche minacciosa.

La modernità ci sta presentando il conto, e tutto in una volta. Dopo averci blanditi, corteggiati, accarezzati, sedotti, illusi, ci sta infine mostrando il suo vero volto: non quello multicolore, e quasi allegro, ma fasullo, del consumismo, e neppure quello della tecnica "facile" e a disposizione di tutti, per alleviare la fatica fisica e mentale e per darci un’euforica sensazione di leggerezza e di potenza, bensì quello brutale, cinico, spietato di un’efficienza senz’anima, di un sistema che mira solo al risultato, ma quel risultato non è a nostro vantaggio, non ci riguarda, anzi noi ne siamo le vittime o, nel caso migliore, dei semplici spettatori, ai quali nulla viene chiesto e, in compenso, nulla viene offerto, se non casualmente o per qualche fine interessato. In un mondo dominato dalla finanza, o, come la chiamava un grande poeta, Ezra Pound, dall’usura, nulla più si svolge secondo un ritmo naturale, tutto viene ridotto a merce, anche (e soprattutto) la salute, anche il desiderio di avere — o non avere – un figlio. Non si lavora più per guadagnare e mantenere la propria famiglia, per aiutare i figli a costruirsi un futuro: si lavora per arricchire sempre di più le grandi banche, gli speculatori di borsa. Non si produce più per offrire alle persone le cose di cui hanno bisogno per vivere; si lavora per gettare sul mercato quantità illimitate di merci, spesso inutili, talvolta nocive, sempre destinate a deteriorarsi in fretta, onde consentire all’alta finanza di accrescere i suoi già enormi capitali. Né si costruiscono più le case per rispondere al bisogno di nuove unità abitative da parte di una popolazione in aumento, ma per investire in qualche modo — anche a costo di lasciarle vuote, sfitte o invendute — il capitale in eccesso, che le banche non saprebbero in quale altra maniera utilizzare. Tutto ruota intorno alle banche, tutto serve a moltiplicare i loro capitali. Anche le migrazioni dal Sud verso il Nord della terra, sono solo apparentemente spontanee, in realtà sono largamente pianificate e sostenute in ogni modo dai signori dell’usura mondiale, allo scopo di abbassare sempre più il costo del lavoro e di rendere impossibile o inefficace ogni eventuale resistenza dei popoli ai loro piani, cancellando le identità e spazzando via le tradizioni.

In questo panorama sconfortante, con una informazione, una cultura e una università quasi del tutto asservite al sistema di potere mondiale dell’usura, particolarmente scoraggiante è quel che sta accadendo nella Chiesa cattolica, a sua volta infiltrata in lungo e in largo, ma specialmente nei sui vertici, da uomini che agiscono, direttamente o indirettamente, al servizio di quel disegno, e che sempre di più si muovono in sintonia con quei poteri: si noti, per fare solo un esempio, il perfetto accordo sostanziale che regna fra Bergoglio e Soros, quanto al tema delle migrazioni; e si noti come un cardinale africano come Sarah non la pensa affatto come loro, convinto com’è che gli africani, per il proprio bene, dovrebbero restare sulla loro terra e non inseguire il folle sogno di una vita diversa in Europa. La Chiesa cattolica, con la sua tradizione due volte millenaria, con la sua cultura, la sua spiritualità, la sua visione del modo, coi suoi sacerdoti, i suoi teologi, i suoi scrittori, ma soprattutto ci suoi santi, con l’aiuto soprannaturale dello Spirito Santo, con la Presenza reale di Gesù Cristo nel Sacrificio eucaristico, poteva e doveva rappresentare per gli uomini il faro che illumina la notte e che mostra loro la giusta direzione; invece i suoi esponenti hanno preferito seguire la via opposta: mescolarsi all’andazzo del mondo, mondanizzare la dottrina, la pastorale, la liturgia, abbassare la divina Rivelazione al livello di una delle tante ideologie umane, promuovere il buonismo, il filantropismo, l’ambientalismo, l’ecologismo, il migrazionismo, l’omosessualismo, il giudaismo, l’islamismo, il protestantesimo, insomma tutto ciò che piace all’uomo moderno, rinnegando tutto ciò che gli può dispiacere. E se al mondo dispiace ricordare che l’aborto è un peccato e un crimine essa non parla più dell’aborto; se al mondo dispiace che si dica che solo Cristo è la via, la verità e la vita, essa dice che vi sono anche molte altre vie, molte verità e mote altre vite; e se al mondo dispiace che si pongano dei limiti alle passioni disordinate, essa diventa indulgente, permissiva, chiude un occhio e poi tutti e due davanti a ogni forma di lussuria, superbia, avidità, promettendo una misericordi all’ingresso per tutti quanti e addirittura smettendo di adoperare la parola "peccato", non dare ombra ad alcuno, per apparire sempre e solo accogliente, anche con chi non vuole essere accolto, anche con chi la disprezza, a che con chi la odia e la combatte, da sempre, con tutte le armi a sua disposizione. Ed eccoci arrivati al punto che il papa, o colui che viene chiamato papa, non tace un giorno sul "dovere" di accogliere i migranti, né sulle questioni sociali, ambientali, ecologiche; non smette di baciare i piedi e abbracciare i non cattolici e i non cristiani, di elogiare le loro (false) religioni e le loro (false) filosofie, non si astiene dal fare il panegirico dei personaggi moralmente più indegni per un cristiano, come i radicali e i campioni del divorzio, dell’aborto, dell’eutanasia; e intanto tuona ogni giorno contro quelli che, a suo parere, sono i "cattivi" cristiani, quelli che vogliono restare cattolici, che non capiscono quello che sta facendo, che si rifiutano di gettare a mare duemila anni di Tradizione e di Magistero, che non accettano che la Chiesa venga in tal modo snaturata sotto i loro occhi, con una simile baldanza e sicumera, con una così incredibile arroganza, senza reagire senza proclamare che tutto ciò non è lecito, non è giusto, non è cristiano. Un papa, poi, e questa è la cosa più grave di tutte, che non parla più di Dio, o, se ne parla e quando ne parla, lo fa in modo generico, asettico e fumoso: il suo Dio on è il Dio dei cattolici, e del resto questo concettoso ha detto e se ne è vantato; è un duo qualsiasi, buono per tutte le stagioni e per tette le fedi, per i buddisti, i giudei, gli islamici, gli induisti, nonché per teosofi, antroposofi e spiritisti, ma anche e soprattutto per i massoni, quale Grande Architetto dell’universo; un dio che piacerebbe ai deisti, ma anche agli atei, insomma un dio insulso e annacquato, che non ha alcuno dei veri attributo della divinità; un dio che non richiama nemmeno i suoi figli sulla via del bene, che non dispensa loro la grazia, che non li esorta a evitare il peccato, o se peccatori, non li sprona a pentirsi e a chiedere perdono.

Ora la tempesta è sul nostro capo e sta per scoppiare. Non abbiamo fatto praticamente nulla per prepararci: non abbiamo costruito gli argini dei fiumi, non abbiamo vigilato sulla pulizia dei torrenti e dei canali; non abbiano verificato la solidità degli edifici, la tenuta dei serramenti, l’efficienza delle pompe idrovore, l’agibilità delle uscite di sicurezza. Non ci siamo preparati spiritualmente, né moralmente; abbiamo pregato poco e male; abbiano lasciato Dio all’ultimo posto nei nostri pensieri e nelle nostre azioni; siamo stati anche dei mediocri cittadini, tutti presi dalle nostre necessità più egoistiche, ma senza preoccuparci affatto del bene comune, senza praticare le virtù civili, senza abituarci a pensare in termini di salvezza collettiva, spirito di sacrificio, capacità di abnegazione, pur sapendo molto bene che se la nave farà naufragio, ci troveremo a condividere tutti lo stesso destino, e i nodi della nostra pusillanimità, della nostra incoscienza e faciloneria arriveranno fatalmente al pettine, e si ritorceranno contro di noi. Ci siamo gonfiati il petto e la bocca con parole altisonanti; diritti, parità, uguaglianza, libertà, democrazia, ma ciò che intendevamo era abolire il merito, annullare le differenze positive, appiattire e ridurre all’insignificanza i più bravi, i più coraggiosi, i più intelligenti, i più sensibili, per imporre un grigiore universale capace di nascondere la nostra pochezza e la nostra pigrizia, la nostra mancanza di coerenza e di rigore, la nostra incapacità di assumere degli impegni e delle responsabilità. Come genitori, non volevamo più farci carico dell’educazione dei nostri figli: che ci pensasse qualcun altro, fosse pure la televisione o il computer. Come cittadini, non volevamo assumerci la responsabilità di servire e rispettare la patria, di onorare le precedenti generazioni, di essere leali e onesti nei rapporti con la cosa pubblica: lavoro, pensioni, esercizio dei diritti, tutto doveva costituire il massimo vantaggio per noi, con il minimo disturbo da parte nostra Come cattolici, volevamo tutto pronto e tutto facile: il perdono di Dio senza fatica, la Messa ridotta a un rito mondano, i Sacramenti abbassati a simulacri esteriori, la vita dell’anima sostituita dall’attivismo febbrile e, non di rado, demagogico. Niente preghiera, niente raccoglimento, niente spiritualità, niente devozione, nessun rispetto per gli ordini monastici contemplativi, niente timor di Dio. La religione ridotta a ideologia sociale, il Vangelo degradato a prontuario per il terzo millennio, il catechismo involgarito fino al livello dello scherzo, della barzelletta e della pagliacciata; il clero, adibito a funzioni di badante, di sindacalista, di assistente sociale, di cuciniere di minestre per i poveri, possibilmente dentro le chiese e le basiliche, tanto per esser sicuri che la gente non ci vada dentro a pregare. Meglio se davanti alle telecamere della televisione e con il largo sorriso della Comunità di Sant’Egidio: vuoi mettere con quei musoni dei preti di una volta, con il santo Curato d’Ars, o san Leopoldo Mandic, o san Pio da Pietrelcina? Santi, sì, ma che tristezza: non andavano mica nei conventi di clausura a raccontare barzellette alle suore, loro, come fa il signor Bergoglio! E non sposavano le coppie a bordo di un aereo, sopra le Ande, a diecimila metri di quota, come in uno show di Mike Bongiorno: Questa è tua moglie, questo è tuo marito; siate felici, tanti auguri e buonasera a tutti quanti!

Ma adesso la tempesta è arrivata, e già i primi chicchi di grandine, grossi come noci, battono con forza sui tetti e sul selciato; il vento furioso fa volare le tegole, piega gli alberi come fuscelli; e il cielo è diventato tutto nero, da far paura. Ci si domanda come andrà a finire, cosa succederà adesso. Non ci si sente pronti, ci si accorge di non essere per niente preparati; e, per giunta, ci si sente in cattiva coscienza, perché tutto questo era previsto e tuttavia nulla era stato predisposto, abbiamo continuato a vivere alla giornata, come se nulla fosse, si può dire fino a cinque minuti fa. Ora soltanto ci rendiamo conto di quale sia l’enormità della posta in gioco: la nostra identità, la nostra sopravvivenza di europei e di cristiani. E comprendiamo che tutto questo è potuto accadere perché noi ci eravamo disgustati di noi stessi, avevamo coltivato la mala pianta del disprezzo di quel che siamo, di quel che avevano realizzati le generazioni precedenti. Non ci piaceva più essere quello che eravamo: eravamo giunti al punto di vergognarci, quasi, di essere figli dell’Europa e figli del cristianesimo. Volevamo far sparire le tracce del nostro passato, dissimulare i segni della nostra appartenenza. Ci siamo a lungo trastullati inseguendo il folle sogno di liberarci della nostra identità: erano sorti perfino i club dello sbattezzo, per lavare via l’onta di aver ricevuto il Sacramento dell’iniziazione cristiana. E cosa abbiamo preteso di mettere, al posto di ciò che gettavamo via con tanta furia, con tanta frenesia? Il consumismo, l’adorazione delle cose, i bei vestiti, le belle automobili: paccottiglia che nessuno può portarsi dietro nella tomba. Quel che un uomo vale, lo deve dimostrare per ciò che è e non per ciò che possiede, non per le cose che può sfoggiare, perché esse non dipendono da lui. Nudi si viene al mondo e nudi si muore: questa è la legge; ma l’avevamo scordata, avevamo voluto trastullarci con una nuova legge, fatta solo di piaceri e di diritti, nella quale non c’era neanche uno spazio piccolo così per la parola "dovere". E adesso, ecco il risultato: inermi, imbelli, grotteschi nella nostra inanità, siamo divenuti preda di qualunque vento che soffi un po’ più forte, dal di fuori o dal di dentro della nostra civiltà. Senza più nerbo, né spina dorsale, né fierezza e con poca dignità, andiamo incontro alla fine, come pecore condotte al macello. È questo il nostro destino, dunque? Si sta compiendo la nostra ora? La grandine batte sui vetri, li infrange, irrompe fin dentro le stanze di casa: nessuno è al sicuro. È troppo tardi, dovevamo pensarci prima. Pure, qualcosa possiamo ancora fare: pentirci; e chiedere aiuto a quel Dio che avevamo disprezzato.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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