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Che cosa è possibile fare?

Il male del nostro tempo, della nostra civiltà — ma sarebbe più giusto dire: della anti-civiltà in cui ci è dato di vivere — è il nichilismo, che porta con sé la disperazione, in tutte le sue varianti, dalla depressione cronica alla violenza insensata. Un’ombra cupa è scesa sui volti, sulle anime; le persone vivono con la testa bassa, guardando a terra; hanno perso la speranza, anche se fingono di divertirsi, e la serenità è fuggita dai loro cuori. È venuto a mancare qualcosa di essenziale, cui prima non si faceva caso, come non si fa caso all’aria, alla luce, alla forza misteriosa che ogni mattina ci rimette in piedi e ci spinge ad affrontare una nuova giornata; qualcosa che si dava per scontato, ma scontato non è: e ora che non c’è più, si avverte dolorosamente la sua assenza, senza, peraltro, riuscire a comprendere di che cosa si tratti. E finché non lo avremo compreso, non ritroveremo la pace; seguiteremo ad agitarci qua e là, a scivolare nel tunnel oscuro della depressione, a sfogare una inutile violenza contro le cose, contro gli altri o contro noi stessi, a fingere di divertirci, sprofondandoci nel chiasso e nel disordine dei sensi; ma non ritroveremo la pace, perché non ritroveremo noi stessi. È necessario, dunque, capire che cosa abbiamo perduto, perché ne va della nostra stessa vita: altrimenti, saremo condannati a trascinare i nostri giorni come dei morti che camminano, come dei morti in via di putrefazione, anche se le apparenze potranno ingannare gi altri, e magari perfino noi stessi, e i nostri copri abbronzati, palestrati, truccati e tirati a lucido, potranno dare una illusoria impressione di salute e di benessere. Conosciamo parecchie persone ridotte in questo stato; se ci pensate un attimo, vi accorgerete che tutti ne conosciamo parecchie: anzi, c’è pure il caso che ci riconosciamo noi stessi all’interno di questa categoria, che diventa più numerosa ogni giorno e che abbraccia, ormai, forse la maggioranza della popolazione. Le persone di valore lo sanno, lo sentono, o almeno lo intuiscono; ne soffrono ancor di più e si dibattono come animali presi in trappola; e sono le migliori. Le altre, la massa, l’armento, non intuiscono nulla e seguitano a brucare l’erba avvelenata, pascolando sulle cattive terre e accumulando rabbia, angoscia e disamore dentro di sé, fino a quando raggiungeranno il punto di rottura; oppure trascineranno i loro giorni sempre così, con eguale, tranquilla disperazione, senza mai alzare il capo, senza mai sospettare che ci sia dell’altro, che ci sia di meglio; senza mai alzare lo sguardo verso il Cielo e senza mai ritornare padrone della loro vita; cosa, del resto, di cui non hanno alcun desiderio, anzi, che temono più di ogni altra — perché intuiscono che, poi, non saprebbero cosa farne, e il loro malessere aumenterebbe ancora.

Dunque, prima di chiederci che cosa possiamo fare, dobbiamo chiederci cos’è questo qualcosa che abbiamo smarrito, e la cui mancanza ci rende così vuoti e infelici, come in realtà siamo. Non crediamo occorra andare tanto lontano per trovare la cosa che abbiamo perduto: è la nostra anima. Abbiamo perso l’anima; l’abbiamo lasciata indietro, dietro le macerie delle nostre ambizioni di felicità, di realizzazione personale, di giustizia sociale, di un Mondo migliore & più giusto, e così via. Ne siamo rimasti privi, perché eravamo troppo impegnati ad inseguire delle mete che ci sembravamo estremamente concrete, sia sul piano collettivo, sia, e ancor più, su quello individuale, e invece erano solo le proiezioni illusorie della nostra sete insoddisfatta, della nostra fame inestinguibile, dacché avevamo smarrito la nostra anima. Ma niente di ciò che possiamo trovare al di fuori di noi, e neppure le gratificazioni apparenti che ci possono venire dal successo, dal denaro, dal potere e della lussuria, potrebbero colmare quel vuoto: l’anima è una merce unica, non esistono surrogati né pezzi di ricambio; non esiste nulla, ma proprio nulla, con cui la si possa rimpiazzare. Se la si perde, si è perduti: non è lei che è andata persa, siamo noi che ci siamo persi. E siamo diventati dei morti che camminano. Dei morti di lusso, magari, fasciati entro dei bei vestiti, adornati con dei bei gioielli; dei morti che occupano le poltrone più alte nella società, nell’amministrazione, nella politica e perfino nella cultura; ma pur sempre dei morti, dal fiato che puzza di cadavere.

Non sarà facile risalire la china e tornare a vivere; dipende fino a che punto siamo discesi e, soprattutto, dipende dalla nostra capacità di svegliarci. Ciò che tiene accesa la nostra anima è il legame con Dio; senza di quello, è inevitabile che, prima o poi, le tenebre ci piombino addosso e ci avvolgano in una nera nube, che appanna ogni gioia e offusca ogni cosa bella ci possa accadere. Del resto, perché le cose belle ci vengano incontro, bisogna che facciamo pulizia in noi stessi e che ci rendiamo degni di riceverle; diversamente, somigliamo a dei luridi personaggi, abituati a vivere nella sporcizia più abietta, i quali si meravigliano di non ricevere mai la visita di qualche persona di buon giusto, intelligente e interessante. Ma chi mai potrebbe essere interessato alla nostra stupidità e alla nostra sporcizia? Chi mai potrebbe trovare interessante la nostra compagnia, vedendoci sprofondati nella trascuratezza più disgustosa? E la sporcizia, la nera ondata di fango, ha cominciato a penetrare dentro di noi quando abbiamo voltato le spalle a Dio e abbiamo iniziato ad adorare noi stessi, il nostro corpo, i nostri soldi, o il corpo o i soldi di qualche altro essere umano, o il potere, o tutte queste cose insieme. Ma non c’è niente, nell’uomo, che meriti di esser adorato. Vi sono alcune cose che suscitano ammirazione, e altre che destano pietà, compassione, perplessità, disgusto, orrore: siamo un pozzo misterioso, nel quale si può trovare di tutto. Se ci abbandoniamo all’ebbrezza della nostra dimensione immanente; se scambiamo questo nostro corpo destinato alla corruzione, queste nostre ambizioni destinate a finire in cenere, queste nostre brame che un dì si spegneranno, per l’impossibilità di alimentarle ulteriormente, o perché non ne avremo più i mezzi, o perché saremo esausti e nauseati noi stessi, non possiamo che smarrire la nostra parte migliore e più vera, cioè, appunto la nostra anima. La nostra anima viene da Dio: è un dono celeste. Rinnegando Dio, rinneghiamo la nostra anima; e rinnegando la nostra anima, rinneghiamo noi stessi. In fondo, è assai più semplice di quel che non si pensi. Tutti i discorsi complicati sulla crisi dell’uomo moderno, sul disagio dell’uomo moderno, sulla grande complessità della vita moderna, servono solo ad occultare questo semplice fatto: che, allontanandosi da Dio, l’uomo moderno ha firmato la propria condanna e si è votato alla disperazione. Con le sue stesse mani.

Tutti gli stratagemmi del pensiero moderno per occultare questa semplice verità non hanno fatto altro che allontanarci sempre più da noi stessi, da nostro centro interiore, e, pertanto, dal nostro equilibrio, dalla nostra pace e dalla nostra armonia. Noi potremmo vivere assai meglio di come viviamo; potremmo fare a meno di molti farmaci e cure mediche; potremmo risollevarci dalla depressione, dalla nevrosi, dall’angoscia esistenziale, dalla lenta partita a scacchi con il suicidio che si chiama alcolismo, o dipendenza dalla droga, o stili di vita pericolosi, dai cosiddetti sport estremi al sesso promiscuo, se ritornassimo in noi stessi e se, gettandoci ai piedi del Padre, gli dicessimo: Abbiamo peccato contro il cielo e contro di te; non siamo più degno di essere chiamati tuoi figli. Lui non aspetta altro, ci accoglierebbe a braccia aperte e ci perdonerebbe. Ma questo gesto di umiltà, noi non lo sappiamo, né lo vogliamo fare. Ci parrebbe umiliante, degradante; preferiamo schiattare con la nostra superbia intatta, con il nostro orgoglio tirato a lucido. Preferiamo affogare nella palude fangosa, quando basterebbe che pronunciassimo una sola parola per esserne tratti fuori, sul terreno solido e al sicuro. Perché il nostro demone, il demone dell’uomo moderno, è l’orgoglio; questo pazzo, caparbio, diabolico orgoglio, che c’impedisce di ammettere la nostra limitatezza, la nostra finitezza, la nostra fragilità, e, quindi, il nostro bisogno di Dio, di completarci in Dio, di salvarci in Dio, di redimerci in Lui dalle nostre miserie, malvagità e perfidie, che tramiamo incessantemente contro i nostri simili, pensando che quando li avremo sconfitti, umiliati, eliminati, e ci saremo sostituiti ad essi negli obiettivi che ci stanno a cuore, noi staremo meglio, staremo finalmente bene e spegneremo, una buona volta, la nostra sete rabbiosa. Per orgoglio, l’uomo moderno non vuole confessarsi creatura; e il suo castigo è che la paura della malattia, della vecchiaia e della morte, in lui, è crescita fino a raggiungere livelli impressionanti, paranoici, che non gli danno tregua e gli avvelenano anche le ore più belle. Per orgoglio ha negato la relazione con Dio, rifiutato con disprezzo il suo invito amorevole; per orgoglio ha abbracciato la ragione, il progresso, l’idealismo, il positivismo, la psicanalisi, lo storicismo, lo scientismo, l’esistenzialismo, il decostruttivismo; per orgoglio ha calpestato anche il ricordo della sua anima immortale e si è fatto materialista, evoluzionista, relativista, scettico, incredulo, irreligioso, ateo, anticristiano. Provate a parlare di Gesù Cristo a uno di questi intellettuali moderni, specie di quelli che vanno per la maggiore, e firmano i loro libri, con sussiego, al termine delle loro conferenze, dopo aver distribuito al pubblico le loro perle di "saggezza", le loro istruzioni per vivere "bene", loro che non sanno cosa sia vivere bene e che scambiano il vivere da animali per una degna esistenza umana; loro che non vedono più in là del loro naso e che hanno meno saggezza, con tutte le loro lauree e i loro dottorati di ricerca, di quanta ce ne fosse nelle loro nonne, che avevano fatto la terza elementare, ma andavano alla Messa del mattino tutti i giorni, estate e inverno, alzandosi all’alba e incominciando la giornata con una preghiera a Dio o alla Madonna.

Dunque, per uscire dal pantano, bisogna incominciare col bonificare la mente e il cuore dagli idoli della modernità: la ragione infallibile, il progresso illimitato, la scienza che sa tutto, il narcisismo che ci spinge all’odio (inconsapevole) di noi stessi, all’auto-disprezzo, perché vediamo che troppo grande è il divario tra le nostre ambizioni e i risultati, fra quel che vorremmo essere e ciò che siamo. Vorremmo essere forti, intelligenti, sicuri, felici, pacificati; e invece siamo deboli, sciocchi, smarriti, infelici e perennemente in guerra col mondo e con noi stessi. Dobbiamo gettare via la zavorra: gran parte della modernità è zavorra; peggio: è veleno, allo stato puro. E non tanto per le cose che essa ha elaborato, ma per il modo in cui le ha elaborate e, soprattutto, per il fatto che le ha assolutizzate: la modernità è la forma di totalitarismo più feroce e pervasiva che mai si sia vista nel corso della storia umana. Prendiamo un concetto-cardine, quello di democrazia: non è sbagliato in se stesso; è sbagliato l’averne fatto un idolo, un feticcio da adorare sempre e comunque, in nome del principio quantitativo, della legge dei grandi numeri. Ma noi non siamo numeri, non siamo quantità: siamo persone; e ciascuno di noi è unico e irripetibile — purché conservi la propria anima. Se si smarrisce l’anima, si diventa vuoti e, perciò, intercambiabili. Le masse moderne sono delle mandrie senz’anima, indegne di essere considerate appartenenti al genere umano. E a queste masse abbrutite, obnubilate, piace ciò che dà piacere, dispiace ciò che non lo dà; esse non cercano ciò che è vero, e giusto, e buono, e bello. No: esse vanno dietro ai falsi pastori che promettono loro la soddisfazione delle loro brame disordinate, dei loro impulsi animaleschi. Non c’è da meravigliarsi se, in queste condizioni, siamo giunti ormai molto vicini al bordo dell’abisso. La modernità ha promesso le magnifiche sorti grazie al progresso, ma la verità è che essa ha portato un pauroso regresso.

Uno scrittore americano oggi ingiustamente dimenticato, James Oliver Curwood (Owosso, Michigan, 12 giugno 1878-ivi, 13 agosto 1927), cantore del Grande Nord come Jack London, nel romanzo Il coraggio di Marge O’Doone, così descrive il giusto atteggiamento dell’uomo verso la vita, presentando il protagonista, David Raine (titolo originale: The Courage of Marge O’Doone, 1918; traduzione dall’inglese di Mary Lise Leblanc, Milano, Sonzogno, 1928, pp. 15-16):

… Scriveva libri che pochi leggevano, perché erano pieni di fatti e di teorie antiquate. Considerava vecchio il mondo e pensava che vi fosse minor profitto per un uomo nel cercare di scoprire nuove folli finzioni per una civiltà artificiale, che a ritrovare le vecchie leggi e i miracoli sepolti sotto la polvere del passato. Egli credeva che quanto più noi ci avviciniamo all’origine delle cose e più ce ne torniamo da presso, tanti più possiamo giungere ad una più chiara comprensione della Terra, del Cielo, di Dio e del vero. Egli non considerava affatto come argomento favorevole al progresso il fatto che Cristo e i suoi discepoli non conoscevano il telefono, le gigantesche macchine azionate dal vapore, l’elettricità e gli strumenti coi quali l’uomo può mandare messaggi per migliaia di miglia attraverso lo spazio. Secondo la sua teoria, i patriarchi del’antichità erano più strettamente a contatto col polso della vita di quanto il progresso, nella sua forma attuale, non gli si avvicini. Non era un fanatico, né un esaltato. Era giovane e pieno di entusiasmo. Amava i fanciulli…

Anche Cristo amava i fanciulli e raccomandava di somigliare loro, quanto alla semplicità di spirito e alla capacità di credere. I fanciulli credono anche a ciò che non si vede con gli occhi; ma ciò che non si vede, è l’essenziale. Noi abbiamo perso la capacità di vedere l’essenziale: vediamo un sacco di cose, ma tutte secondarie e tutte sacrificabili. È questo che ci manca: saper vedere l’essenziale…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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