
L’uomo moderno è ancora capace di credere?
14 Agosto 2017
La filosofia pensa l’essere; la psicologia, il pensiero
14 Agosto 2017Nel bel libro di Margret Wittmer, Fermo posta Floreana – in cui ella rievoca gli anni avventurosi nei quali si era trasferita col marito, e coi due figli che le nacquero lì, in una piccola isola dell’arcipelago delle Galapagos, negli anni Trenta del secolo scorso, per tentare di ritrovare un ritmo di vita naturale, fuggendo dalle spire della civiltà moderna – viene rievocato, fra tante altre cose, un episodio particolare: l’invito a cena, a bordo di un incrociatore inglese che aveva gettato le ancore in quel luogo, e durante il quale il comandante volle mettere alla prova i due tedeschi chiedendo loro, proprio al momento del brindisi, che cosa pensassero del regime hitleriano.
È una pagina notevole per gli spunti e le riflessioni che se ne possono trarre, sia a livello di storia, di politica e di psicologia, sia a livello più propriamente filosofico, per le cose che ci dice, o che ci permette d’intravedere, circa i meccanismi dell’anima umana, qualora venga messa in condizioni di lasciar emergere la sua parte più segreta e profonda, dopo mesi e anni d’isolamento quasi assoluto, esprimendo il proprio sentire a proposito di un argomento così interessante, come l’orientamento assunto dai propri compatrioti. E ciò a distanza di migliaia di chilometri dalla Patria e a contatto così immediato con la natura, da potersi sentire come dei novelli Robinson: con alcuni elementi tecnologici, è vero, di cui il naufrago britannico del XVIII secolo non disponeva, ma, per il resto, entro un medesimo orizzonte fisico e spirituale col quale fare i conti, in una solitudine non molto diversa, e con un senso d’isolamento pressoché analogo.
Ed ecco come la signora Wittmer ha narrato quel lontano episodio (da: M. Wittmer, Fermo posta Floreana; titolo originale: Postlagernd Floreana, Frankfurt am Main, Verlag Heinrich Scheffner, 1959; traduzione dal tedesco di Nora Riccardi, Milano, Garzanti, 1960, pp. 121-123):
Il 12 luglio 1936. Il giorno del mio compleanno. Stavamo gustando il caffè del genetliaco quando sentimmo degli aerei. Due apparecchi inglesi volteggiavano sopra di noi. Mentre facevamo supposizioni su cosa potesse significare tutto ciò, comparvero al cancello sei ufficiali di marina. Erano inglesi; uno di loro si presentò come ammiraglio Best.
Dall’incontro col comandante elle isole e la sua scorta armata, avevamo serbato uno spiacevole ricordo dei militari. Ma questa volta non si trattava di un penoso interrogatorio per un presunto assassinio [della sedicente baronessa Eloise von Wagner Bosquet e di uno dei suoi amanti, che erano scomparsi nel nulla, alla fine di marzo 1934], bensì di un amabile invito.
"L’incrociatore di sua maestà, ‘Apollo’, è all’ancora a Postoffice Bay", disse l’ammiraglio. "Siamo venuti a pregarvi di voler accettare un invito a cena per questa sera sulla nave".
Accettammo con gioia, ma non prima di aver offerto agli ufficiali il dolce del compleanno. Poi, mentre Heinz mostrava la casa e la piantagione suscitando i loro elogi, caricai l’asino con frutta fresca da portare sulla nave come dono. Giù alla costa, nella vecchia casa del norvegese, indossai un abito al posto dei calzoncini.
Appena saliti a bordo l’ammiraglio Best ci mise a disposizione il suo bagno affinché potessimo rinfrescarci.
Nel salone dei ricevimento erano raccolti tutti gli ufficiali. Come lauto venne servito un cocktail. Tutti portavano l’uniforme di gala con una fascia nera sulla giacca bianca in segno di lutto per la recente morte del Re Giorgio V.
Nella sala da pranzo ci accolse una tavola imbandita a festa. Ma prima che prendessimo posto venne suonato in nostro onore l’inno tedesco, cui seguì quello inglese. Un altro simpatico gesto del cavalleresco ammiraglio: nei bicchieri scintillava il vino del Reno. Era forse una speciale attenzione per me che ero di Colonia?
A un tratto un silenzio imbarazzante gravò nella sala: l’ammiraglio, che sedeva al mio fianco, aveva chiesto a mio marito, dall’altra parte della tavola:
"Qual è la vostra opinione sul regime di Hitler, signor Wittmer?". Il pezzetto di formaggio con cui ero alle prese mi andò quasi di traverso. Quest’ora meravigliosa si sarebbe trasformata in una spiacevole discussione politica?
Cosa si poteva rispondere? Avevamo speso discusso della situazione politica tedesca. Io stessa avevo visto la nuova Germania [nel 1935, per alcuni mesi: poco più di due anno dopo la formazione del governo nazista]. Le mie impressioni erano contrastanti. C’era molto ottimismo, molta speranza per un futuro migliore. Ma vi erano anche le spietate persecuzioni contro gli oppositori politici e i cittadini ebrei. Per quanto amassimo molto il nostro paese non avremmo mai potuto approvare queste ingiustizie. Sapevamo dai giornali inglesi e americani che in queste nazioni lo sviluppo della situazione politica tedesca era seguito con ostilità. E noi qui eravamo ospiti di un ammiraglio inglese, il cui governo non nutriva certo sentimenti di simpatia nei confronti del nuovo regime tedesco.
Heinz mi lanciò uno sguardo interrogativo, ma non potevo suggerirgli una risposta, tanto più che non me ne veniva in mente nessuna. Ma dopo alcuni istanti di esitazione egli trovò l’unica risposta possibile. Sorrise amabilmente:
"Right or wrong, my country, Sir?"
Il nostro ospite fissò Heinz. Mi guardò, poi si levò in piedi. Alzò il suo bicchiere, fece un leggero inchino a mio marito e a me e disse: "Che Dio benedica il vostro lavoro e la vostra condotta, che io rispetto profondamente".
È meraviglioso essere in compagnia di uomini così rispettosi sentimenti altrui. Con la pronta risposta di mio marito e le gentili parole dell’ammiraglio l’atmosfera cordiale fu ristabilita. E in quella splendida serata non si parlò più di politica.
Era già buio e le stelle splendevano sul mare, quando verso mezzanotte risalimmo in coperta. Tutto l’equipaggio era stato radunato. A un cenno dell’ammiraglio, il coro intonò "L’ultima posta" come commiato. Poi la motolancia ci riportò a riva.
La nave era tutta illuminata, le sue luci si riflettevano nell’acqua. Poi si accesero i riflettori illuminando a giorno l’intera baia.
La motolancia fece ritorno. Subito dopo le macchine dell’incrociatore si misero in moto. Seduti sui gradini della vecchia casa alla Postoffice Bay, guardammo la nave che si allontanava. Le luci si fecero sempre più deboli, la nave sempre più piccola. Dopo mezz’ora l”Apollo’ non si vedeva più.
"Era proprio vero?" chiese Heinz sottovoce. La serata era stata troppo bella per poter credere che fosse vera.
Questo episodio, se realmente si è svolto così come lo ha descritto Margret Wittmer (essere circospetti è sempre lecito, specie quando si ha a che fare con le memorie di una donna che vuol sempre porre se stessa e suo marito nella miglior luce possibile, e che scrive con un occhio rivolto al pubblico internazionale, specialmente americano, notoriamente sensibile a certi ingredienti un poco hollywoodiani), si presta a svariate considerazioni, a cominciare dalla presunta cavalleria di un ammiraglio britannico che invita a cena due civili, cittadini tedeschi, a bordo della sua nave, durante una crociera all’estero, in campo neutro, e poi domanda loro, con la delicatezza di un elefante in un negozio di porcellane, cosa ne pensino del governo legalmente al potere nel loro Paese; un ammiraglio di quella Marina che, appena tre anni dopo, nella foce del Rio de La Plata, avrebbe imbottigliato una corazzata tedesca, la Graf Spee, e l’avrebbe spinta ad autoaffondarsi, sfruttando la subalternità del governo di un piccolo Paese, come l’Uruguay, e mostrando assai maggiore abilità nell’intrigo diplomatico che autentica perizia militare e spirito cavalleresco (cfr. il nostro articolo: La crociera della "Graf Spee" e la battaglia del Rio de La Plata, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/10/2008).
Ma l’aspetto su cui ci interessa riflettere ci è fornito dalla risposta data al borioso personaggio da Heinz Wittmer, l’ospite sottoposto a un esame politico e ideologico tanto inatteso, quanto scortese. Dicendo Right or wrong, my country, Sir, anzi, pronunciando la risposta sotto forma di domanda, quel cittadino tedesco ha dato agli ufficiali britannici e al loro superbo comandante una lezione coi fiocchi, che essi stessi, del resto, non hanno potuto fare a meno di ammirare. Qualunque altra risposta, entrando nel merito della sfera politica, vagliando i pro e i contro del regime hitleriano, peraltro ancora ai suoi inizi, non avrebbe potuto essere più limpida, onesta e inappuntabile; gli inglesi si sono resi conto che quella era precisamente la risposta che avrebbero dato loro, in analoghe circostanze e a parti rovesciate; anzi, che quella era la loro filosofia nazionale, tanto è vero che il tedesco l’aveva pronunciata in inglese, con evidente intenzione. Se il signor Wittmer avesse risposto che disapprovava il regime di Hitler, oppure, all’opposto, se avesse affermato di ammirarlo, in entrambi i casi avrebbe lasciato nei suoi interlocutori un’impressione sgradevole e prodotto un senso d’imbarazzo: sarebbe apparso servile nel primo caso, antipatico e insolente nel secondo. Per come rispose, invece, non poté che spuntare le armi della loro ironia o della loro latente ostilità, se, per caso, si tenevano pronti a sfoderarle.
A noi, però, sembra interessante immaginare come si sarebbe regolato, al posto di Herr Wittmer, il signor Rossi, se, per caso, la coppia di Robinson dell’isola di Floreana fosse stata italiana, e se due sudditi del Regno di Sua Maestà, Vittorio Emanuele III di Savoia, in quel luglio 1936 — cioè, guarda caso, poco dopo la conclusione della guerra d’Etiopia e la proclamazione dell’impero italiano su quel Paese africano — si fossero trovati a dover rispondere su quel che pensavano del regime di Benito Mussolini. Non crediamo si tratti di una fantasia oziosa; al contrario, siamo convinti che proprio qui si annidi il nocciolo della questione nazionale italiana, il segreto della debolezza internazionale dell’Italia, e anche quello della sua scarsa coesione interna. Siamo propensi a credere che, con molta probabilità, la risposta sarebbe stata dettata, oltre che dal desiderio di compiacere, o meno, gli ospiti — e ciò dipende dal carattere e della psicologia individuali, dalla maggiore o minore fierezza e senso di amor proprio delle singole persone — dalle opinioni politiche personali, con pochissimo o nessun riguardo per la dignità del proprio Paese. Se l’interpellato fosse stato di sentimenti filofascisti, si sarebbe espresso in termini lusinghieri sul governo di Mussolini; se, invece, di sentimenti antifascisti, ne avrebbe detto tutto il male possibile. Così facendo, avrebbe messo in piazza, platealmente, la discordia nazionale e rivelato a uno straniero, a un potenziale nemico (ché tale sarebbe stato, di lì a pochissimi anni, e già lo era, di fatto, appunto per via della campagna d’Etiopia e della politica delle sanzioni da parte della Società delle Nazioni), il grande "segreto": che gli italiani sono bravissimi a combattersi l’un l’altro, un po’ meno a combattere, uniti e compatti, contro un nemico esterno. Un segreto già, peraltro, largamente conosciuto: non sarà stato un caso, se, alla fine, nel tragico biennio del 1943-45, gli italiani hanno imboccato proprio la strada della guerra civile, prendendo armi, istruzioni e denari dal nemico esterno — dai due nemici esterni, per l’esattezza: l’ex alleato divenuto occupante e l’ex nemico auto-proclamatosi "liberatore" a suon di spietati bombardamenti aerei –; mentre il popolo tedesco, sottoposto a una pressione militare assai più terribile, che, sul fronte orientale, assunse caratteri di pulizia etnica e di genocidio, rimase unito sino alla fine e cadde in piedi, quasi senza versare sangue fraterno. Da cosa è dipesa questa differenza, e quale lezione possiamo ricavarne per il presente? La classe dirigente italiana, al momento della nascita del Regno d’Italia, non ha saputo fare quel che era riuscito, invece, alla classe dirigente tedesca, al momento della nascita del Reich germanico, una decina di anni dopo: creare lo stato-nazione. Come ha osservato lo storico Manlio Graziano, non si trattò di un fallimento ideologico, bensì materiale: l’incapacità di formare una grande coalizione nazionale di interessi fra i diversi gruppi sociali che formavano il popolo italiano. In Germania (e in Giappone, sempre negli stessi anni) questa grande coalizione si formò; in Italia, no; e, aggiungiamo noi, non si è formata neppure in seguito. Questo spiega la debolezza fondamentale del nostro Paese, nonostante le eccellenze individuali di cui esso è capace; questo spiega perché, sia sul piano della forza militare, in passato, sia su quello della politica estera, dell’economia e della finanza, ai nostri giorni, l’Italia, che – per dimensioni, tradizione, posizione geopolitica — potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo da protagonista -, continua a subire il destino del vaso di coccio tra i vasi di ferro. Right or wrong, my country: è questo che manca. Ora, in mezzo alle sfide della globalizzazione, è tardi per recuperare…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash