
Hanno scelto il Diavolo per patrono e vogliono imporlo anche a noi
7 Giugno 2016
L’inferno è non riuscire a perdonare
8 Giugno 2016Si domandi a un qualsiasi cristiano, anche di buona dottrina, oppure a una qualsiasi persona colta, che abbia una certa familiarità con la Bibbia, che cosa fu il Peccato originale e chi lo commise, ed essi risponderanno, novantanove volte su cento: la disobbedienza di Adamo ed Eva a quanto Dio aveva loro prescritto nel Giardino dell’Eden. E invece non è così, se vogliamo parlare con precisione e non per approssimazione.
Il Peccato originale, dal punto di vista umano, fu certamente quello compiuto dai nostri progenitori, Adamo ed Eva; tuttavia, prima di esso, ve n’era già stato un altro, abbastanza simile, sia nella motivazione che nella dinamica: il peccato dell’Angelo, di Lucifero, che trascinò con sé anche altre creature angeliche, e che avvenne quando ancora l’uomo non c’era, e il mondo stesso non era ancor stato creato.
Così, quando fu creato il mondo e quando l’uomo, fatto a immagine di Dio, fu posto nel Paradiso Terrestre, l’ombra cupa del Peccato esisteva già e si protendeva sull’universo materiale; Adamo ed Eva erano ancora innocenti, e tuttavia, misteriosamente, un seme malvagio era già penetrato nell’ordine perfetto della creazione, incrinandolo e predisponendolo, in un certo senso, al male morale, liberamente scelto dai primi uomini e già potenzialmente presente in loro, perché inscritto nell’ambito della loro libertà.
Ha osservato in proposito un fine teologo milanese, Inos Biffi, nel suo libro Il tempo della Grazia. Brevi meditazioni per l’anno liturgico (Casale Monferrato, Alessandria, Edizioni Piemme, 1989, pp. 80-81):
Quando appare l’uomo il mondo è già misteriosamente segnato dal male; un male di cui ci sfuggono la natura e le dimensioni, ma che è già presente ed è il peccato dell’angelo. È estrema superficialità rimuovere dalla considerazione teologica della storia del mondo questa realtà che noi non comprendiamo, ma di cui abbiamo come i segni. Quando parte la storia dell’uomo, è già presente una libertà snaturata e antitetica: quella dell’angelo; snaturata perché ha dissolto la propria destinazione; antitetica perché si è posta, chiudendosi in sé, in antitesi a Dio.
C’è un passo, nel Libro di Isaia (14, 12-15), che i Padri della Chiesa hanno concordemente interpretato come riferito a Lucifero, l’Angelo ribelle e decaduto, anche se è possibile che il profeta avesse in mente un personaggio umano, storico, come appare dai versetti successivi, che qui non riportiamo, perché non ci proponiamo di trattare la questione sul piano della critica e della esegesi biblica, ma solo da un punto di vista teologico e morale:
Perché sei caduto dal cielo, / stella del mattino, figlio dell’aurora, / perché sei stato gettato a terra / tu, che atterrivi tutte le nazioni. / Eppure pensavi: / salirò in cielo, / sulle stelle di Dio / innalzerò il trono, / dimorerò sul monte dell’Assemblea, / nelle parti più remote del settentrione, / salirò sulle regioni superiori delle nubi, / sarò simile all’Altissimo. / E invece sei stato precipitato negli inferi, / nelle profondità dell’Abisso!
Di fatto, gli Angeli sono creature più perfette dell’uomo, perché totalmente spirituali, ma, come l’uomo, dotate di libero volere, e quindi accessibili alla tentazione e suscettibili di peccato. Molti teologi hanno ritenuto che tale possibilità si sia consumata al principio, una volta per tutte, con la ribellione di Lucifero e di una parte degli Angeli, che lo vollero seguire; mentre, dopo tale evento, la natura angelica non permetterebbe più al peccato di trovare alcuna breccia in se stessa. Se così fosse, allora bisognerebbe concludere che, ontologicamente parlando, l’uomo è perfino superiore agli Angeli, perché nella sua accessibilità alla tentazione e al peccato, paradossalmente, è impresso il sigillo della sua perfezione: se può cadere in tentazione e peccare, questo avviene perché è una creatura libera e non condizionata, non programmata a volere solo il bene. Dio non ha voluto una marionetta, un fantoccio, che lo adora solo perché non saprebbe fare diversamente, ma una creatura libera e responsabile, che può scegliere fra l’amore per Lui e il rifiuto del Suo amore. Soltanto se sceglie la prima possibilità, l’uomo diviene quel che è chiamato ad essere; ma se sceglie la seconda, egli regredisce al livello di sotto-uomo, perché fallisce nella realizzazione di se stesso. L’uomo, infatti, è incompleto senza Dio: per questo egli ne sente il bisogno, il desidero bruciante, la sete inestinguibile, che si manifestano in lui sotto la forma dell’inquietudine. Ma la sua grandezza è proprio qui: nel compito che gli è stato dato di lavorare su se stesso, per perfezionarsi e divenire quel che è chiamato ad essere, per ritrovare la strada di casa, la dimora dell’Essere, dalla quale ogni cosa ha avuto principio. L’Angelo è; l’uomo diviene. L’Angelo assiste l’uomo, l’uomo cerca Dio. L’Angelo è già presso Dio, unito a lui dal legame ineffabile del "sì" definitivo e irrevocabile alla sua offerta di amore; l’uomo può cadere, in qualsiasi momento, finché non abbia terminato il suo pellegrinaggio terreno. E non c’è santità che lo assicuri in maniera certa e definitiva di essere immune dalla tentazione e dal peccato. Il peccato, infatti, è il discostarsi da Dio; e l’uomo, fino all’ultimo respiro della sua vita terrena, è esposto alla tentazione di non cercare quel che Dio vuole, ma quel che piace a lui stesso.
Il peccato, dunque, è entrato nel mondo fin dal principio: fin da prima che l’uomo venisse a coronare la creazione divina. L’Angelo aveva peccato prima di lui, e per la stessa ragione: per non aver voluto accettare la propria creaturalità, e, quindi, il debito di amore nei confronti del suo Creatore. Essere debitore dell’esistenza all’amore di un Altro, gli risultava intollerabile. L’Angelo ribelle volle amare prima di tutto se stesso, e questo lo portò al folle orgoglio di rifiutare l’amore di Dio. Non volle ricevere l’amore: volle essere, da se stesso, la sorgente dell’amore di sé. Invece, la creatura deve amare se stessa attraverso l’amore di Dio, non per se stessa e basta; altrimenti, ciò significa che non vuole riconoscere la propria condizione creaturale. Sarebbe come se la Luna si stancasse di ricevere la luce dal Sole, e pretendesse di essere luce a se stessa; o come se il corpo si stancasse di sottostare all’anima e allo spirito, e volesse affermare una propria vita indipendente. Tutti i peccati, in ultima analisi, hanno questa prima radice: il rifiuto della creatura di accettare la propria condizione, e quindi la pretesa di farsi il dio di se stessa; cioè un peccato di superbia. Da questa prima radice hanno origine tutti gli altri peccati: l’invidia, la gelosia, l’ira, la lussuria, la cupidigia, la frode, la malizia satanica.
Dio, che è perfetta Sapienza, sapeva anche questo: che le creature, se dotate di libero volere, avrebbero subito la tentazione della superbia, e che sarebbero state portate a soccombere. Non per questo ha rinunciato alla creazione, quell’atto meraviglioso di amore cosmico mediante il quale ha voluto effondere nello spazio e nel tempo la sua unica essenza, eterna e indivisibile, a-spaziale e a-temporale. Ecco perché Cristo è stato generato dal Padre prima ancora che il mondo fosse creato: perché, prima che il mondo fosse, il Padre già sapeva che esso avrebbe avuto bisogno di un Redentore. Molti confondono Gesù con Cristo, ma è un grave errore teologico. Gesù è la manifestazione storica, limitata nello spazio e nel tempo, del Cristo-Verbo, che era presso Dio fin dal principio, anzi, che era Dio, la seconda Persona del Dio uno e trino; che si è incarnato per rendersi direttamente accessibile agli uomini, e recar loro la Buona Novella, insieme all’esempio della sua vita perfetta, perché perfetta è stata la sua adesione alla volontà del Padre, pur nelle membra di un essere umano, e con tutte le debolezze e le fragilità cui sono soggetti gli esseri umani, compresa la sofferenza fisica e lo smarrimento morale. Ma Gesù ha vinto la sua umana fragilità, con il rimettersi interamente alla volontà del Padre: l’ha crocifissa sulla croce insieme al suo corpo, e l’ha trasformata in strumento di redenzione per tutta l’umanità e per tutto il creato.
Dice infatti San Paolo che l’universo intero soffre e geme, come nelle doglie del parto, in attesa della sua liberazione: perché, senza Cristo, esso sarebbe condannato ad una esistenza priva di senso (Epistola ai Romani, 8, 19-23):
La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
L’espressione paolina del versetto 20: La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, può anche essere tradotta con questa, che è stata adottata nel testo interconfessionale curato, insieme, dalla Elle Di Ci e dalla Alleanza Biblica Universale: Il creato è stato condannato a non aver senso. Che senso può avere, ad esempio, la sofferenza degli animali, della quale si parla così poco, specialmente in ambito teologico, se la redenzione di Cristo non è destinata ad essere realmente universale, e non rivolta solamente agli esseri umani? E come escludere che vi siano, nelle vastità dell’Universo, altre forme di vita, e anche delle forme di vita intelligente, quindi suscettibili di senso morale, le quali sono anch’esse, evidentemente, bisognose di redenzione, perché anch’esse imprigionate nella condizione spazio-temporale, con tutte le sue miserie, e legate a un corpo fisico destinato a invecchiare e morire, nonché dotate di una volontà che può scegliere il male?
Eppure, questo gemere e soffrire della creazione, come se fosse nelle doglie del parto, sta a indicare che tutta la creazione, e non l’uomo solamente, attende la propria liberazione e la propria redenzione. L’uomo, dunque (per quel che ne sappiamo finora), essendo la creatura più alta di tutte, e la sola fornita di libero arbitrio, la sola fatta davvero a immagine di Dio e di poco inferiore alla natura degli Angeli, porta su di sé non soltanto la responsabilità di se stesso, ossia di diventare, mediante l’adesione all’amore di Dio, quel che deve essere, ma anche quella di tutte le altre creature e dell’intera natura materiale, proprio come il capitano di una ave, in navigazione in mezzo all’oceano, porta la responsabilità di tutto ciò che si trova a bordo, uomini e beni, in virtù del suo grado, ma, più ancora, della sua competenza, della sua serietà, del suo spirito di abnegazione, qualora il mare dovesse ingrossare e la giusta rotta venisse smarrita. Il "sì" a Dio, pieno e incondizionato, da parte dell’uomo, è il "sì" della creazione intera; allo stesso modo, anche il suo "no" ripercuote su di essa i suoi terribili effetti, condannandola a non avere senso. Il senso della creazione è nell’adesione all’amore del suo Creatore: e la creatura che è in grado di farlo, a nome e per conto della creazione tutta, è l’uomo. Immensa è dunque la sua responsabilità; anche il suo peccato di omissione, anche il suo trascurare di fare quel che va fatto, ossia cercare Dio e fare la Sua volontà, prolunga le sofferenze e le doglie dell’universo. In questo senso, ogni singolo uomo è impegnato e solidale con ogni singola fibra dell’universo, dalla più lontana e immensa galassia, al più vicino ed umile fiore di campo.
Ancora più grande, se possibile, è la responsabilità negativa che grava sull’Angelo ribelle. Col suo "no" all’amore di Dio, egli per primo ha rotto l’armonia dell’universo, quando ancora le cose materiali non erano state create. Il suo peccato di superbia si è ripercosso, misteriosamente ma inesorabilmente, su tutta la sfera della realtà visibile, una volta che questa è stata tratta all’esistenza dal Fiat divino. Inoltre, quel "no" è stato come una anticipazione, e, in un certo senso, come un paradigma negativo, di ogni successiva tentazione e di ogni successivo peccato. Peccando, gli uomini hanno rinnovato quel primo "no" e, nello stesso tempo, hanno aperto un varco ancora più ampio perché si insinuasse nel mondo l’azione subdola del Male. L’Angelo caduto, infatti, non si è rassegnato al crollo del suo sogno blasfemo: non potendo essere come Dio, cerca almeno di distruggerne l’opera, insidiando la Sua creatura prediletta, l’uomo, sì da trascinarlo lontano da Lui. Spera, con tale rivincita, di lenire l’amarezza del fallimento. A patto che l’uomo glielo permetta…
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Gustave Dorè)