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Quando i Saraceni saccheggiavano impunemente le basiliche romane di S. Pietro e S. Paolo

Verso la metà del IX secolo dell’èra cristiana, il Mediterraneo fu molto vicino a diventare un lago musulmano; la sua unità politica e culturale era stata spezzata già nella prima metà del VII secolo, con la tumultuosa avanzata dei seguaci di Maometto fino a Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, mentre i Bizantini erano ovunque in ritirata e le più antiche diocesi cristiane cadevano sotto I Saraceni si erano già insediati a Mazara del Vallo nell’827, a Palermo nell’831, a Messina nell’843 ed a Castrogiovanni (Enna) nell’859, respingendo palmo a palmo, durante una campagna durissima, protrattasi per oltre un sessantennio, le forze bizantine dalla Sicilia: le ultime piazzeforti a cadere furono Siracusa, nell’878, e Taormina, che cedette solo nel 902. Essi, inoltre, si erano insediati in vari punti delle coste dell’Italia meridionale, sia lungo il versante adriatico che quello tirrenico; e, inoltre, scorrazzavano anche nell’interno, poiché i piccoli potentati cristiani, e specialmente le fazioni longobarde in lotta per il Ducato di Benevento, erano così pazzi da arruolare bande musulmane per combattersi gli uni contro gli altri.

Nell’844 i Saraceni avevano lanciato un primo attacco contro Roma, nel corso del quale saccheggiarono la basilica di San Pietro e profanarono la tomba dell’Apostolo, pur senza riuscire a penetrare nel cuore della città; e contro Gaeta, depredando anch’essa. Pochi anni dopo riuscirono a impadronirsi delle foci del fiume Garigliano, distruggendo la città di Traetto e allestendo una base militare e navale, dalla quale si spingevano per delle audaci e micidiali scorrerie in tutte le direzioni, mettendo in serio pericolo Napoli, Salerno, Amalfi, le isole di Ponza, di Capri e Ischia e terrorizzando le popolazioni, sulle quali si abbattevano in cerca di ricchezze da saccheggiare e di schiavi da catturare, per poi rivenderli nei mercati del Levante.

La puntata dei Saraceni contro Roma, nell’agosto dell’846, si risolse in un vero e proprio sacco della città, anche se si limitò ai quartieri esterni e risparmiò il centro, il quale, protetto dalle possenti Mura Aureliane (ma non ancora dalle Leonine, che avrebbero inglobato il rione di Borgo e il Vaticano), e dalla mancanza, fra i Saraceni, di macchine da guerra adatte a condurre un assedio, fu miracolosamente risparmiato. La furia dei musulmani si rivolse allora contro le due grandi basiliche più care al cuore della cristianità, quella di San Pietro e quella di San Paolo, i due principi degli Apostoli, entrambe legate al loro martirio e adibite ad accogliere le loro spoglie mortali. La guarnigione di volontari dell’Europa settentrionale che difendeva San Pietro venne sterminata fino all’ultimo uomo, dopo una valorosa ma inutile resistenza.

Dispersa la loro flotta da una tempesta, i Saraceni erano rimasti così poco impressionati dalla fiacca difesa dei Romani, che appena tre anni dopo, nell’849, si presentarono con una grande flotta davanti alla foce del Tevere, con l’obiettivo strategico di conquistare Roma. Stavolta, però, trovarono ad aspettarli una flotta cristiana allestita dalle città marinare della Campania e posta al comando del console Cesario di Napoli, la quale, dopo un’aspra battaglia navale, durata l’intera giornata, riuscì ad avere la meglio e a disperdere le navi della Mezzaluna. Fu la più importante vittoria di una flotta cristiana nel Mediterraneo prima della battaglia di Lepanto del 1571. Da quella volta, la città di Roma poté considerarsi relativamente al sicuro da nuove spedizioni saracene.

Ha scritto in proposito l’insigne archeologo italiano Rodolfo Lanciani (Roma, 1845-ivi, 1929)nel suo libro «La distruzione di Roma antica» (Milano, Le Edizioni del Borghese, 1971, pp. 122-124):

«Il 10 agosto 846 il conte Adalberto, governatore della Toscana, e protettore della  Corsica, ricevette un messaggio che avvertiva che erano stati segnalati sessantadue vascelli saraceni in rotta verso la foce del Tevere, con a bordo undicimila uomini e cinquecento cavalli. Il Conte insisteva affinché i Romano trasportassero all’interno della cinta fortificata i corpi dei Principi degli Apostoli Pietro e Paolo, con gli immensi tesori d’oro e d’argento accumulati da diverse generazioni di pellegrini sulle venerate tombe; le due basiliche, poste sulla via Cornelia e la via di Ostia, erano totalmente indifese. I Romani non diedero importanza all’avvertimento del conte Adalberto; ritennero di aver fatto abbastanza comunicando il contenuto della lettera ai contadini ed ai coltivatori agricoli, perché si riunissero per difendere la costa. I contadini ed i coltivatori, a loro volta, non dettero alcun peso alla faccenda. Fu così che il 23 agosto i Saraceni rimasero liberi di attraccare alle foci del fiume, occupare Gregoropolis dove non c’era nessuno, e fare di questa opera avanzata la loro base d’operazione. La situazione dei romani divenne critica; si mostrarono allora altrettanto deboli, per non dire codardi, di quanto erano stati imprevidenti. Era urgente difendere Porto situato di fronte ad Ostia; un unico e cattivo ponte univa le due città; ma i soli difensori da opporsi al nemico furono gli stranieri, Sassoni, Frisoni e Franchi, domiciliati nel Borgo, tra il Vaticano e Castel Sant’Angelo.

Dopo due scaramucce che lasciarono sul terreno diciannove uomini, gli infedeli s’impadronirono del Porto, massacrandone i difensori, salvo qualche superstite che inseguirono fino a Ponte Galera. Era il 26 di agosto. Fin dal giorno dopo i Saraceni marciarono su Roma mentre i loro vascelli risalivano il Tevere, e senza colpo ferire si impadronirono delle basiliche di San Pietro e San Paolo situate fuori le mura.

Mi sono preoccupato di rilevare dal "Liber Pontificalis" e di calcolare il peso dell’oro e dell’argento che, dal tempo di Costantino fino all’836 [sic], erano stati profusi nelle due basiliche; per quanto sia difficile fare un tale conto, calcolo che caddero allora nelle mani dei Saraceni circa tremila chili d’oro e trentamila d’argento; bottino quasi favoloso, che certo ripagava ampiamente le spese della loro impresa.

Mentre gl’infedeli saccheggiavano, i Romani tentarono una sortita nelle "pianure di Nerone", oggi Prati di Castello; ma vennero facilmente respinti. Sembra che le genti della campagna, aiutate da quelle di Albano e Tivoli, avessero più successo contro una parte dei Saraceni che dispersero nei pressi di san paolo. Sia per il timore suscitato da questa disfatta sia per la complicazione di caricare tutto il bottino sui loro vascelli, gl’invasori cominciarono a ritirarsi, non senza aver ucciso molta gente; distrussero città e roccheforti, si trascinarono dietro una massa di prigionieri e bottino d’ogni sorta. Cavalieri e fanterie si diressero a sud per la via Appia, mentre la flotta si dirigeva lungo la costa verso Gaeta; tra non molto sarebbe perita, corpi e beni, in una tempesta al largo della Sicilia.

In questo susseguirsi d’avvenimenti, quello che più c’interessa è la sorte delle tombe degli Apostoli. È assolutamente certo che i Romani non tennero affatto conto degli avvertimenti del conte Adalberto per quanto concerneva i tesori che circondavano le sacre tombe; tutti i racconti concordano nell’affermare che nelle due basiliche che nelle due basiliche i Saraceni s’impadronirono di ricchezze incalcolabili, innumerabilia bona. Ma il popolo romano, almeno, diede ascolto alla seconda raccomandazione del Conte, relativa ai corpi degli Apostoli? Furono aperti o no i sarcofaghi? Il prezioso contenuto fu posto o no in salvo dietro le mura della città? Il fatto è, a dir poco, molto dubbio. Anzitutto papa Sergio II era talmente afflitto dalla gotta che non poteva occuparsi degli affari; stando al suo biografo, "non era buono a nulla". Secondo lo stesso informatore, il padre del papa, di nome Benedetto, era "villano e mezzo matto"; ancora meno fiducia si poteva concedergli. In secondo luogo, i Saraceni piombarono come il fulmine sulle due basiliche secondo un piano d’operazione accuratamente prestabilito, non difficile da capire. Supponiamo che i Crociati fossero diventati padroni della Mecca; la loro prima mossa non sarebbe forse stata quella di forzare la Casbah [sic] e di gettare ai quattro venti le ceneri del Profeta? Gl’invasori musulmani, davanti ai nostri santuari, sembrano aver ubbidito allo stesso impulso.»

La conclusione del Lanciani è che i Saraceni certamente dovettero profanare le tombe degli Apostoli e, se pure non riuscirono, forse, a trafugare il corpo di San Pietro, a causa della solidità del sepolcro, senza dubbio lo fecero con quello di San Paolo; anche se non porta a sostegno di tale ipotesi alcuna prova archeologica certa e incontrovertibile, ma solo qualche labile indizio e, per il resto, le sue congetture di ordine psicologico. Congetture per nulla infondate, sia ben chiaro: ma sufficienti per dire una parola definitiva su tale delicata e controversa questione?

L’Autore si dice convinto che, se un esercito cristiano si fosse impadronito della Mecca, non avrebbe esitato a depredare la Kaaba (e non la Casbah) e a profanare la tomba di Maometto, disperdendone al vento le reliquie; per poi dedurne che, senza dubbio, anche i Saraceni si comportarono in tal modo nei confronti delle tombe dei due Apostoli, o, almeno, che fecero di tutto per realizzare un tale disegno. Veramente, ci pare cosa un po’ ardua dire con sicurezza che cosa avrebbero fatto i cristiani se fossero riusciti a conquistare la Mecca e i luoghi santi dell’Islam, anche se è un fatto che, quando due religioni entravano in lotta l’una contro l’altra, la sorte riservata dai vincitori ai vinti era generalmente proprio quella di profanare le loro cose più sacre e disperderle, in modo da "purificare" i luoghi dalla presenza degli dèi del nemico. Così facevano i giudei allorché conquistavano le città dei filistei, e così avevano fatto, in generale, i musulmani all’epoca in cui le loro flotte e i loro eserciti scorrazzavano in lungo e in largo attorno al Mediterraneo e seminavano il terrore con le loro scorrerie. Veramente, là dove effettuavano delle stabili conquiste, come accadde allorché strapparono alla cristianità la Palestina, la Siria e l’Egitto, nonché tutto il Nord Africa e poi la stessa Spagna, si regolavano con maggiore magnanimità, concedendo una relativa libertà di culto, ma solo a certe condizioni e, in particolare, imponendo la tassa sugli infedeli, la quale, un po’ alla volta, finiva per gravare così tanto sulla popolazione, da provocare una lenta ma inarrestabile conversione alla religione del vincitore, cosa che liberava automaticamente da ogni discriminazione giuridica e fiscale. Tuttavia, se i luoghi santi cristiani avevano un particolare valore simbolico, gli islamici non esitavano a convertirli in moschee, anche se si trattava di conquiste stabili e definitive: fu così che accadde per l’antica e gloriosa basilica di Santa Sofia in Costantinopoli, dopo la conquista turca del 1453, allorché l’ex capitale bizantina venne trasformata nella capitale ottomana dal sultano Maometto II e assunse il nome di Istanbul.

Sta di fatto, per tornare al nostro assunto, che mai i cristiani ebbero la ventura di avvicinarsi ai luoghi santi dell’islam, fino a poterli minacciare; anzi, che mai essi pensarono a intraprendere delle operazioni militari a ciò finalizzate, visto che anche le Crociate, così spesso presentate come delle guerre di aggressione condotte, ingiustificatamente, contro un mondo islamico nel complesso pacifico e tollerante, non ebbero, in realtà, che un carattere strategico di alleggerimento e di contenimento della costante e minacciosa pressione araba sull’Europa, e, tutt’al più, di riconquista dei luoghi santi cristiani, divenuti insicuri per i pellegrini europei, dopo che al blando dominio degli Omayyadi di Damasco e degli Abbasidi di Baghdad era succeduto quello, assai più duro, dei Fatimidi, la dinastia sciiita ismailita più importante di tutta la storia dell’islam. Perciò crediamo sia lecito affermare che il cristianesimo era meno aggressivo nei confronti dell’islam, di quanto non lo fosse questo verso di esso: era l’islam, venuto sei secoli dopo, a voler distruggere la religione degli "infedeli".

Quanto a Maometto, non pochi cristiani tendevano a considerarlo più come l’esponente di una eresia cristiana, che come il fondatore di una nuova religione: impressione suffragata dal fatto che il Corano si ispira largamente sia al giudaismo, sia al cristianesimo e che si presenta come il completamento e non come la negazione di quelle due religioni. Anche Dante Alighieri, la pensava così, dal momento che pose Maometto tra i seminatori di discordia, nella IX Bolgia dell’Ottavo cerchio infernale; sicché vediamo il Profeta dell’islam punito nel fuoco dell’Inferno anche nell’affresco del giudizio Universale, di ispirazione dantesca, realizzato da Giovanni da Modena, nella cappella dei Re Magi entro la basilica bolognese di San Petronio (inizi del XV secolo). Giudaismo, cristianesimo e islamismo erano le "religioni del libro": e, per i musulmani, i cristiani (e i giudei) stavano un gradino più in su dei pagani, poiché anche nei loro libri sacri vi era una scintilla di verità, sebbene priva del suggello definitivo di Allah nella persona del Profeta Maometto.

Ai nostri giorni si fa un gran parlare delle minacce, peraltro esplicite e dichiarate, degli esponenti del sedicente Stato islamico, sorto nel 2014 in Siria ed Iraq, ma con appendici anche in Libia e in altre zone dell’Africa sub-sahariana (abbreviato: I. S. I. S.), noto anche come Califfato, di portare la guerra e la conquista musulmana fino nel cuore dell’Europa, Italia e Roma comprese, come del resto nella Penisola Iberica, in Sicilia e nei Balcani, insomma in tutti i Paesi europei che, nel corso del Medioevo, caddero, in maniera più o meno temporanea, sotto il dominio saraceno. Non sappiamo ancora se tali minacce siano puramente propagandistiche o se celino una reale volontà di aggressione terroristica e di conquista armata della città che è, da sempre, la capitale morale e giuridica del cristianesimo e, più precisamente, della Chiesa cattolica.

Una cosa è certa. L’islam ha già minacciato Roma e saccheggiato le sue basiliche più amate dai fedeli, ed è mancato poco che la distruggesse o la conquistasse stabilmente, poco prima della metà del IX secolo, senza che vi fosse un proporzionale soprassalto di energia e di volontà di reazione da parte del mondo cristiano. Non vi fu una vera mobilitazione difensiva da parte dell’Europa e neppure dell’intera Penisola. Lotario, che era re d’Italia e anche imperatore carolingio, in tutt’altre faccende affaccendato, non mosse un dito in soccorso della Città Eterna; mentre papa Leone IV, succeduto a Sergio II, non aveva né esercito, né navi da mettere in campo, e si limitò a benedire solennemente la flotta di Cesario. Perciò le forze che difesero Roma nell’846, e che, nell’849, la salvarono da un nuovo e più massiccio attacco dei Saraceni, erano decisamente modeste e tutte di provenienza locale, specialmente campane.

Vorremmo sbagliare: tuttavia potrebbe darsi che, proseguendo nella clamorosa sottovalutazione del pericolo, quella storia, oggi, sia sul punto di ripetersi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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