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28 Luglio 2015Cesare grande condottiero; Cesare grande politico; Cesare grande scrittore: certo: non vi sono dubbi al riguardo.
Tuttavia, allo scrittore Cesare, quale grado di attendibilità dobbiamo attribuire? Fino a che punto le sue memorie sulla guerra di Gallia, e quelle sulla guerra civile contro i pompeiani, valgono a illuminarci sulla realtà dei fatti storici, e fino a che punto, invece, devono essere viste come il tentativo abile, ma cinico, di riscrivere la storia al solo scopo, o quasi al solo scopo, di giustificare le decisioni politiche e militari dell’Autore, addomesticando la realtà dei fatti e piegandola a giustificare l’interesse personale dello scrittore, che fu anche il protagonista indiscusso di quelle vicende?
Vi sono degli indizi positivi, peraltro, che sembrano indicare come Cesare non abbia scritto le sue due opere storiche, e specialmente quella sulla guerra civile, per giustificarsi agli occhi dei suoi contemporanei: infatti, non pubblicò i commentari della guerra civile, mentre, se fosse stato questo il suo scopo, non avrebbe perso un attimo nel renderli noti al pubblico. Vi sono poi ragioni di esegesi interna al testo, le quali conducono alle stesse conclusioni: Cesare non abbellisce i fatti e non sminuisce le difficoltà incontrate, così come non si gloria inutilmente delle proprie vittorie. La sia concisione, la sua stringata asciuttezza, non sono, semplicemente, la conseguenza della sua preferenza per lo stile attico rispetto a quello asiano: è vero, semmai, che egli predilige l’atticismo proprio perché questo meglio rispecchia il suo modo di vedere e di porgere al lettore i fatti che viene narrando. Che è un modo, appunto, estremamente conciso, denso, senza fronzoli e, soprattutto, senza l’intromissione di giudizi personali.
Dei suoi due più grandi e pericolosi avversari, Vercingetorige e Pompeo, l’uno nella guerra gallica, l’altro nella guerra civile, non dice nulla di personale, neppure riguardo alla loro fine: di quella del capo gallico non parla neppure, dato che essa esula dal racconto della guerra vera e propria (egli verrà giustiziato più tardi, a Roma, dopo una breve prigionia); quanto a Pompeo, si limita a riportarne l’assassinio, per mano dei cortigiani di Tolomeo XIII, senza fare alcun commento: nessun sentimento traspare dalle sue parole, né di odio, né di pietà. Cesare è una sfinge, uno di quei rarissimi individui che sarebbero capaci di decretare lo sterminio di migliaia di persone (come avvenne nel caso degli Eburoni, sterminio da lui freddamente deciso e messo in atto, e altrettanto freddamente riferito, con un minimo spreco di parole) oppure la grazia della vita nei confronti di parecchi avversari politici, i quali, secondo la prassi ormai purtroppo abituale delle guerre civili, avrebbe potuto liquidare senza troppo biasimo (e sappiamo che di questa politica del perdono profittarono in molti, anche tra quelli che aspettavano solo l’occasione per vendicarsi di lui, togliendolo di mezzo), senza lasciarsi sfuggire la minima manifestazione dei suoi personali sentimenti, senza permettere ad alcuno di decifrare il mistero abissale del suo animo ambizioso e della sua lucida, diamantina intelligenza.
Se, in generale, voler giudicare uomini e situazioni del passato rappresenta una grossa tentazione cui lo storico imparziale, tuttavia, dovrebbe resistere, consapevole dell’anacronismo che ciò, inevitabilmente, comporta, nel caso di Cesare diventa doppiamente opportuno evitare ogni facile giudizio, perché egli è stato uomo troppo complesso e troppo indecifrabile, uno di quegli uomini che, in politica, rappresentano rarissime eccezioni, anche perché l’ambizione è già, di per se stessa, indice di un temperamento passionale ed emotivo (il potere è una passione, anzi, la regina delle passioni): ma in Cesare la fredda intelligenza e la strenua volontà sono talmente forti, da piegare e domare docilmente ogni passione personale, compresa la stessa, smisurata ambizione, sicché non si riesce mai a stabilire un chiaro confine tra ciò che egli bramava per se stesso e ciò che riteneva necessario al bene dello Stato, del quale volle essere, comunque, un leale e indefesso servitore.
In Cesare, dunque, si realizza il raro connubio fra la ricerca dell’interesse personale e quella dell’interesse generale: la conquista della Gallia, per esempio, certamente rispondeva a una strategia di avvicinamento al potere supremo, mediante la gloria che gliene sarebbe derivata e, soprattutto, l’ascendente che si sarebbe conquistato presso i "suoi" eserciti, secondo il modello già sperimentato da Mario (e dallo stesso Silla); ma è altrettanto certo che essa rispondeva anche a un disegno geopolitico lucido e grandioso, trattandosi di anticipare una probabile invasione germanica, che avrebbe riportato a ridosso delle Alpi il mortale pericolo già corso dalla Repubblica con le migrazioni e le invasioni dei Cimbri e dei Teutoni, una cinquantina d’anni prima.
Di ciò abbiamo già parlato in un precedente articolo e ad esso rimandiamo il lettore desideroso di approfondire la questione (cfr. «La campagna di Cesare in Gallia fu proprio necessaria?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 30/05/2012); è certo, comunque, che Cesare seppe coniugare il proprio "particulare" (per dirla con Francesco Guicciardini) con l’interesse generale dello Stato che aveva deciso di servire, o — il che, nel suo caso, è quasi lo stesso: ma si tratta d’una coincidenza rarissima — del quale aveva deciso di servirsi, per realizzare i suoi ambiziosissimi disegni.
L’attendibilità di Cesare come storico, dunque, dicevamo: antica questione; questione controversa e mai del tutto risolta, in un senso o nell’altro. Fino a che punto possiamo servirci del «De Bello Gallico» e del «De Bello Civili» quali fonti relativamente attendibili per ricostruire quelle vicende, che videro Cesare nella veste di protagonista assoluto, ma delle quali egli è anche il narratore, e per le quali la sue opere rappresentano le nostri fonti principali?
Ha osservato il filologo classico Nicola Tammaro nel suo libro «Prosa latina» (Torino, Lattes Editori, 1984, pp. 86, 91):
«Cesare nel raccontare la guerra gallica ("Commentarii de bello Gallico", 7 libri) ed il conflitto civile con Pompeo ("Commentarii de bello civili", 3 libri) non va oltre la cruda cronaca delle azioni militari: il termine "commentarii" significa "appunti", "diari", per cui non vi sono considerazioni moralistiche, discorsi fittizi, divagazioni letterarie o filosofiche. Le stesse divagazioni etnografiche o topografiche nascono dalla consapevolezza di quanto sia importante, nella storia, la geografia; sono anche tali digressioni al servizio della guerra.
Cesare è un uomo d’arme, d’azione: a lui interessano solo fatti. Nel narrare i quali balza alla nostra attenzione la sua impassibilità, fredda e, forse, disumana. Annuncia e descrive gli argomenti più terribili con gelida brevità, come la carneficina dei Belgi fuggiaschi, il massacro di Avarico, le donne di Gergovia che si sporgono dalle mura disperate e supplici. Poche righe dedica alla resa del suo più pericoloso nemico, Vercingetorige: "iubet arma tradi, principes produci. Vergingetorix deditur, arma proiciuntur". Tutto qui. Dopo Farsàlo egli insegue di paese in paese Pompeo, il fiero avversario che gli aveva aspramente conteso il sommo comando di Roma: in cinque parole scarne, senza aggettivi od avverbi, ne annuncia la morte: "Alexandriae de Pompeii morte conosci": né gioia per la vittoria finale, né compassione per la misera fine del rivale, vittima di tradimento in Egitto.
Questo tono così distaccato, come se l’autore non parlasse di se stesso — egli invero usa sempre la terza persona ed usa quasi sempre il discorso indiretto — è favorito dallo scrupolo della verità. Sebbene egli narri le sue imprese, non può essere tacciato di falsità o di unilaterale interpretazione; non ha ritegno di rivelare suoi momenti critici, insuccessi, defezioni, così come non esagera gli eventi lieti o positivi. Quando una cosa è detta, perché realmente avvenuta, il periodo è finito. Anche per Cesare protagonista della storia è l’uomo ed in questa concezione dinamica della vita l’elemento divino non entra quasi mai. […]
Il Mommsen e molti critici posteriori hanno interpretato i "Commentarii" come scritti giustificativi, a scopo politico, che Cesare avrebbe composto, il "De bello Gallico" per difendersi dall’accusa di aver suscitato e condotto una guerra lunga e dispendiosa per la sua ambizione personale; il "De bello civili per allontanare il sospetto di ribellione, di violenza ai poteri legali del senato. Se è innegabile che nel "De bello civili"Cesare fa ricadere la responsabilità della guerra sull’arbitrio del rivale e del senato, si deve pur notare che l’opera non fu mai pubblicata da Cesare e rimase incompiuta per due anni fino alla morte: se egli avesse avuto bisogno di difendersi, avrebbe finito e pubblicato io libro. E quale bisogno di giustificarsi poteva egli avere nel momento che, dopo le vittorie in Tessaglia, in Egitto ed in Asia, tutti si sottomettevano a lui? E se già nel 58 a. C. vi erano persone che rinfacciavano a Cesare la guerra gallica, non autorizzata dal senato, per la sua personale ambizione, possiamo immaginare che Cesare avrebbe atteso sei anni per pubblicare sette libri e rispondere alle critiche? E quale peso potevano costituire le due opere presso gli immancabili detrattori, malevoli e partigiani?
Sappiamo da Svetonio che egli ogni anno, al termine di ogni campagna, inviava al senato delle lettere aventi la caratteristica del commentario: queste epistole potrebbero essere documenti giustificativi, non le narrazioni storiche complete. Se un fine politico esse ebbero, possiamo pensare che Cesare se lo sia proposto più per i posteri, che per i contemporanei: egli possedeva troppo senso politico per illudersi di poter convertire gli avversari. Inoltre, se vogliamo cercare un fine politico anche presso i contemporanei, è lecito supporre che egli abbia redatto le due opere per far sapere al popolo quante fatiche e sacrifici sia costata la conquista gallica, ampliamento notevole della potenza romana; quanto lutto e sangue la guerra fratricida. Perché nell’una e nell’altra narrazione il protagonista non è tanto Cesare, quanto il popolo romano stesso, attraverso i suoi umili e forti soldati, gli intrepidi centurioni, i generosi veterani.»
Riassumendo.
Nella maniera storiografica di Cesare vi sono una lucidità, un distacco, una capacità di spogliarsi di sentimenti (e risentimenti) personali, che hanno dello sbalorditivo e che non si riscontrano, se non in casi rarissimi, da parte di altri protagonisti della storia i quali siano stati anche narratori delle proprie imprese: l’imperatore Carlo V o Napoleone Bonaparte, fra quelli che per primi vengono in mente, volendo fare dei raffronti, o non raggiungono la sua intensità narrativa, o non possiedono il suo sereno, imparziale distacco, tutti presi, come sono, dal fine giustificativo, diretto, se non verso i loro contemporanei, quanto meno verso i posteri.
Cesare spicca in una solenne, fredda solitudine, con una sovrana padronanza di sé, con una capacità di autocontrollo che lasciano perfino sconcertati: ci si chiede a quale tipo umano egli appartenesse, e come sia possibile che, in una medesima persona, albergassero una così grande sete di potere e una così mirabile capacità di freddezza nel pensare e nell’agire. Egli era uomo dalle decisioni fulminee e dalla smisurata ampiezza di visione: sapeva abbracciare tutti i lati di una questione, per quanto complicata, con un unico colpo d’occhio; e, come scrittore e come storico, aveva il dono di rappresentare tale complessità per mezzo di pochi tratti decisi, nitidi, dalla sovrana bellezza, giungendo a creare degli effetti che appaiono, nel medesimo tempo, superbamente eleganti e supremamente naturali.
Se, poi, veniamo alla storia contemporanea, potremmo fare un parallelo con le memorie di uomini politici come Bismarck, Clemenceau, Trotskij, o, meglio ancora, con Winston Churchill e la sua «Storia della Seconda guerra mondiale» (o con la sua storia della Prima guerra mondiale, «La crisi mondiale»): ebbene, anche da questi confronti la personalità di Cesare, come scrittore di eventi storici dei quali fu egli stesso protagonista, esce straordinariamente lucida e coerente, dotata di una credibilità assai maggiore. Sembra che Cesare si preoccupasse assai poco di idealizzare la propria figura o di giustificare le proprie decisioni. Anche se non mancano sottili forme di manipolazione dei fatti (come quando giustifica la sua campagna contro gli Elvezi con la discutibile motivazione che la migrazione di quel popolo avrebbe messo in pericolo l’integrità della Provincia romana), il grado di verosimiglianza della sua ricostruzione appare quasi sempre perlomeno accettabile. Quando narra la battaglia contro i Nervi, sul fiume Sabis (Sambre), non si vergogna di ammettere d’essersi lasciato sorprendere e d’avere rischiato il disastro. Non è certo poco, nella sua posizione…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash