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Jacques Benoist-Méchin: quando i Francesi erano tutti col maresciallo Pétain

Abbiamo sostenuto più volte che il mito dell’Italia repubblicana e democratica si regge su una grossa menzogna: sulla negazione della guerra civile; sulla rimozione dell’8 settembre e la morte della patria; sulla smemoratezza circa i padri nobili della ritrovata libertà: il re, Vittorio Emanuele III, che per vent’anni aveva controfirmato tutte le decisioni di Mussolini, e il maresciallo Badoglio, che per vent’anni aveva accumulato onori e prebende al servizio dello stesso.

Bisogna però dire che quella menzogna non è stata solo italiana, ma europea, e, in un certo senso, mondiale; che tutti gli altri Paesi felicemente approdati sulle rive della democrazia liberale – quale più, quale meno — si sono costruiti delle mitologie equivalenti, basate su menzogne simili, su rimozioni analoghe, su falsificazioni e smemoratezze ugualmente interessate.

In Norvegia, per esempio, il nome di Quisling è diventato tabù; tabù è ricordare il processo al grande scrittore, premio Nobel per la letteratura, Knut Hamsun; così come tabù è parlare della sorte di quei bambini, si calcola fra 10.000 e 12.000, che nacquero dall’unione fra donne norvegesi e soldati della Wehrmacht, durante i cinque anni dell’occupazione militare tedesca, dal 1940 al 1945: vittime di ogni sorta di discriminazioni, ricoperti — insieme alle loro madri — da un implacabile disprezzo, ebbero tutti una vita durissima e molti di essi finirono per essere ricoverati in istituti psichiatrici, avendo sviluppato sindromi patologiche d’ogni tipo.

Oppure prendiamo la Francia. Dopo lo sbarco in Normandia, essa è rientrata, ma solo per la benevola concessione dei Tre Grandi (Roosevelt, Stalin, Churchill), nel numero dei "vincitori" e ha potuto rioccupare, almeno formalmente, a guerra finita, il suo ruolo di grande potenza, fra l’altro assicurandosi un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dotandosi di un arsenale atomico indipendente. Ciò è stato possibile perché, nel 1944-45, gli Alleati, nonché la stragrande maggioranza del popolo francese, hanno "deciso" che la vera Francia, dopotutto, era quella del generale De Gaulle; che essa, pertanto, non era stata sconfitta in maniera totale nel 1940, ma aveva continuato la lotta, al fianco della Gran Bretagna; che, dunque, la Francia di Vichy era solamente uno stato collaborazionista, anzi, uno stato fantoccio, e che il maresciallo Pétain era nient’altro che un volgare traditore della patria, meritevole della fucilazione, benché ultraottantenne. Insomma, un cumulo insostenibile di menzogne: ma ripetute con tale convinzione e introiettate talmente in profondità, da divenire perfettamente plausibili e veritiere.

C’era ancora qualche difficoltà da appianare, peraltro: c’era la distruzione della flotta francese da parte britannica, a tradimento, nell’azione di Mers el Kebir; c’era l’attacco britannico a Dakar; c’era la campagna di Siria, in cui forze britanniche e golliste avevano combattuto e vinto contro il generale Dentz, uomo di Vichy (dunque, un anticipo della futura guerra civile); e c’erano dettagli quasi insignificanti, come il fenomeno diffuso del collaborazionismo e quello dell’antisemitismo, poi la guerra civile, e infine la fucilazione di scrittori come Brasillach, il suicidio di Drieu La Rochelle, l’imprigionamento di Céline (e stiamo parlando solo dei maggiori letterati); ma insomma, quando una nazione ha deciso di voltar pagina e rifarsi una verginità, tutto si può accomodare, tutto si può aggiustare, perfino riscrivere la storia a proprio piacere.

Philippe Pétain, l’eroe della Prima guerra mondiale, comunque, alla fine non venne fucilato; benché condannato a morte, la pena gli venne commutata nel carcere a vita: fu internato, quasi novantenne, all’isola Yeu, e il rancore dei gollisti giunse al punto di respingere la sua richiesta che le sue spoglie venissero tumulate nel sacrario di Verdun. In compenso venne fucilato, nella schiena come si addice ai traditori, colui che era stato il suo Primo ministro, Pierre Laval. Un altro ministro di Vichy, Jacques Benoist-Méchin, studioso dell’esercito tedesco e ammiratore di Hitler (in cui vide un fautore della federazione europea), venne processato e condannato a morte nel 1947, poi graziato e infine liberato nel 1954. Forse De Gaulle lo risparmiò perché lo ammirava molto come esperto di cose militari; in ogni caso, raro esempio di fierezza intellettuale, egli non si umiliò mai a dichiararsi colpevole, a implorare la comprensione e il perdono dei suoi connazionali: sostenne sempre che, nel 1940, bisognava scegliere fra Stalin e Hitler, e che l’unica scelta possibile, per chi rifiutasse il comunismo sovietico, era quella di collaborare coi Tedeschi.

Il giornalista italiano Enzio Biagi ebbe l’occasione d’intervistare Benoist-Méchin qualche tempo prima della sua scomparsa, avvenuta a Parigi nel 1983; riportiamo il passaggio centrale di quella significativa intervista (da: E. Biagi, «Noi c’eravamo», Milano, Rizzoli, 1990, pp. 139-140):

«PERCHÉ LA FRANCIA HA PERDUTO?

Non c’è stata, dal punto di vista strategico, una campagna, ma tre guerre contemporaneamente: la Germania, che faceva quella del 1939-40; la Francia che faceva quella del 1914; e l’Inghilterra quella del 1945; risparmiava le sue forze, perché sapeva che la prima fase si sarebbe conclusa con una sconfitta, e non voleva gettare tutti i propri mezzi in quella battaglia. Queste tre guerre non hanno coinciso. […]

CHI ERA PER LEI PÈTAIN?

Lo avevo incontrato in diverse occasioni. Una volta eravamo andati assieme al cinema; davano una pellicola intitolata "L’ammutinamento del Bounty", e durante la proiezione il maresciallo si è alzato ed è uscito. Gli chiesi: "Che succede, non le piace?". E lui mi disse: "Caro amico, sono stato obbligato a reprimere le rivolte del 1917, e per me è stato talmente terribile che non posso più sopportare film di sommosse.".Il primo che mi ha parlato di De Gaulle è stato proprio lui; diceva: "Mi sono allevato una serpe in seno".

COSA PENSAVA DEI TEDESCHI E DI HITLER?

Ero nello stato maggiore dell’Armata del Reno, nel 1933, come interprete, e ho avuto contatti con tutti i dirigenti d allora: Rathenau, Brüning, von Papen, Hitler. E per me Hitler era veramente colui che aveva tirato fuori la Germania dal caos, ed ero costretto a riconoscergli qualità eccezionali. Penso sia stato davvero un grand’uomo, ma è difficile sostenerlo quando uno è caduto come lui, e ha condotto una guerra: ha commesso errori proporzionati alle sue dimensioni, cioè colossali."

NON PENSA CHE ERA ANCHE UN ENORME CRIMINALE?

Chi?
HITLER.

Non più di molti altri. Se mettessimo su un piatto tutti i delitti che sono stati commessi in quell’epoca, io penso che ciascuno abbia fatto la sua parte.

IL FUHRER, AMMETTERÀ, CON PARTICOLARE DILIGENZA…

Non so.

LEI ANDAVA SPESSO A BERLINO?

Ero laggiù nel novembre del 1940, mi trovavo all’Hotel Adlon; c’erano dei buoni rifugi, in cantina, e ci venivano anche quelli dell’ambasciata sovietica, che stava a duecento metri, sull’Unter der Linden. Suonò l’allarme, io scesi con due o tre membri della delegazione, e vi trovai anche Molotov. Parlammo. Mi disse: "Non capisco cosa aspetta il vostro governo. Bisogna fare soltanto una cosa: collaborare. Guardate noi, che non abbiamo le vostre ragioni. Voi siete occupati per tre quarti, e vi chiedete ancora come bisogna regolarsi.". Prese un carteggio dalla sua borsa e me lo mostrò: "Guardi tutto quello che forniamo ai tedeschi. Petrolio, grano, ferro, manganese", e c’erano cifre e cifre.

ALLORA, QUALI MERITI ATTRIBUISCE A VICHY?

Ha rappresentato una speranza per i giovani dell’epoca. Ne avevano abbastanza di quei capi che con le loro chiacchiere ci avevano portato alla disfatta, di certi costumi corrotti, che ci rendevano tanto deboli. Tutta la Francia era per Vichy, nel 1940, e tutta la Francia era contro nel 1945. Questa è la verità. C’è stato un transfert di opinioni, non un blocco di pro e di contro fin dall’inizio. Ma si è trattato di una lenta progressione, perché è evidente che dopo quattro anni di occupazione le cose cambiano.

CHE COSA È RIMASTO DI VICHY?

Non molto, non molto. È assai triste per uno della mia età, che si è sacrificato a quello che pur sempre è stato un momento della storia di Francia, accorgersi che tutto il suo lavoro è troppo contrassegnato da determinate circostanze perché gli si possa attribuire un valore durevole. Io sono stato condannato a morte, e ho fatto dieci anni di carcere. Ero presente quando Brasillach è andato verso il poligono, e ho visto portare Laval al palo. È qualcosa di difficile da accettare e da condividere. Quanto a Brasillach, il problema è diverso. Non era un politico, ma un poeta, e i poeti hanno una virtù misteriosa, quella di sanguinare più a lungo degli altri quando vengono uccisi.

CHI HA VIINTO, IN DEFINITIVA?

La Russia.»

Insomma, giusta la tesi di Ernst Nolte sulla guerra civile europea, che infuriò dal 1917 al 1945 (ma potremmo prolungarla tranquillamente fino al 1989, cioè fino alla caduta del Muro di Berlino), i Francesi, nel 1945, proprio come tutti gli altri popoli europei, scelsero di collocarsi nell’area ideologica dei vincitori e di rinnegare quella dei vinti, onde non dover pagare lo scotto della sconfitta e non dover fare i conti con la propria cattiva coscienza: perciò fecero finta di non aver mai avuto nulla a che fare l’ideologia che si era rivelata soccombente.

A difendere la propria coerenza rimasero quasi solo pochi intellettuali, scrittori e poeti, come Ezra Pound, che pagarono un prezzo assai elevato sull’altare dell’opportunismo generalizzato: la loro sola esistenza disturbava il paradigma della verginità democratica restaurata per decreto, ricordando che gli armadi della coscienza europea erano pieni di scheletri e che solo circostanze casuali avevano fatto sì, ad esempio, che il totalitarismo staliniano, non certo meno spietato e sanguinario di quello hitleriano, non solo evitasse il suo processo di Norimberga, ma entrasse trionfalmente nell’Olimpo delle ideologie ammirate e propagandate da milioni di uomini desiderosi — almeno a parole – di vedere il sorgere d’un mondo nuovo, fondato sulla giustizia e sulla libertà.

Quel che disse Benoist-Méchin nell’intervista a Enzo Biagi è perfettamente vero: nel 1940 tutti i Francesi erano con Pétain (che avevano scongiurato di mettersi a capo della nazione, dopo la caduta di Parigi, in un momento così grave della sua storia), mentre nel 1945 erano tutti contro Pétain e con De Gaulle (che nel 1940 in pochissimi conoscevano e che, in ogni caso, consideravano perlopiù un avventuriero e un megalomane). Proprio come gli Italiani: tutti, o quasi tutti, con Mussolini il 10 giugno del 1940, quando dichiarò la guerra, una guerra che pareva ormai già quasi vinta, prima ancora di doverla combattere; tutti contro di lui il 25 luglio del 1943, quando il Gran Consiglio gli negò la fiducia e il re lo fece arrestare a tradimento (come l’ultimo dei felloni); tutti assetati del suo sangue e di vilipendere il suo cadavere, il 28 aprile del 1945.

Anche nella coscienza del popolo spagnolo, del popolo belga, del popolo slovacco, del popolo ungherese, del popolo romeno, del popolo croato, del popolo serbo, perfino del popolo russo, vi sono simili armadi pieni di scheletri; anche nella loro storia più recente vi sono simili menzogne, mezze verità, dimenticanze mirate. E, naturalmente, in quella del popolo tedesco (con la lunga e penosa polemica circa la cosiddetta emigrazione interna) e del popolo giapponese (e si pensi soltanto, in quest’ultimo caso, alla clamorosa, spettacolare protesta-suicidio dello scrittore Yukio Mishima, avvenuta nel 1970).

Solo i due veri vincitori della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, non hanno conosciuto questa mistificazione ideologica; però ne hanno costruita una ad essa parallela: che essi combatterono soltanto per amore della libertà e della democrazia; che furono trascinati in guerra per i capelli, mentre avrebbero preferito starne fuori; che non cercarono, né ebbero, vantaggi politici ed economici; che non si macchiarono di alcun crimine e di alcuna atrocità (nonostante le distruzioni deliberate di Amburgo, Dresda, Tokyo, Hiroshima e Nagasaki): che essi soltanto, insomma, hanno la coscienza perfettamente pura e trasparente, e nulla di cui rimproverarsi.

A ciascuno le sue comode verità, a ciascuno le sue utili menzogne: così è, se vi pare…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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