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Gli immutabili, il niente, il caso nella filosofia di Emanuele Severino

La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei greci. E in questa vicenda la storia della metafisica è il luogo ove l’alterazione e la dimenticanza si fanno più difficili a scoprirsi: proprio perché la metafisica si propone esplicitamente di svelare l’autentico senso dell’essere, e quindi richiama ed esaurisce l’attenzione sulle plausibilità con cui il senso alterato si impone. La storia della filosofia non è per questo un seguito di insuccessi; si deve dire piuttosto che gli sviluppi e le conquiste più preziose del filosofare si muovono all’interno di una comprensione inautentica dell’essere.

Con queste parole si apre uno dei libri più noti di Emanuele Severino, Essenza del nichilismo (Adelphi Edizioni, Milano, 1995, p. 19; apparso per la prima volta nel 1972), in cui viene enunciata l’idea fondamentale che ha guidato la sua intera ricerca.

Tutta la storia del pensiero occidentale non è stata altro, fin quasi dagli inizi, che un oblio dell’essere; intravista per un momento con Parmenide, l’idea dell’essere è andata poi smarrita, e la sua dimenticanza è stata mascherata dalla metafisica che, in teoria, ha cercato di risalire a quella verità perduta, ma in pratica, postulando un al di qua e un al di là, ha creato l’illusione dell’apparire e dello scomparire degli enti e, quindi, una visione nichilista della realtà. Tutta la storia dell’Occidente, per Severino, è la storia di questo fraintendimento, di questo oblio e di questo incombere minaccioso del nulla. Platonismo, cristianesimo, umanesimo, capitalismo, marxismo, fascismo, scienza e tecnica non sono altro che le maschere indossate, volta a volta, dall’ansia metafisica occidentale, scaturente dall’oblio dell’essere. Maschere diverse per un unico, gigantesco peccatum originalis: la dimenticanza del senso dell’essere, del permanere di ogni cosa, dell’eternità e della immutabilità dell’essere.

Non è un’idea particolarmente originale, né si regge sul benché minimo senso delle sfumature e dei distinguo. L’Occidente è concepito come una realtà univoca; non trapela mai l’idea che, forse, si tratta di un contenitore assai generico, per designare elementi eterogenei. Non si colgono le differenze fra le varie forme che ha assunto la metafisica – nel senso che Severino dà a questo termine -, ma le si accomuna nell’unica categoria del nichilismo, e sia pure del nichilismo inconsapevole. Lo sguardo del filosofo si colloca talmente in alto da appiattire tutte le differenze, da far scomparire le tensioni e le lotte: in pratica, tutto il pensiero dell’Occidente, tutta la sua storia, tutto il suo destino non sono che un unico sbaglio, un’unica corsa su un binario morto, un’unica marcia verso la catastrofe.

Vi è un’atmosfera spengleriana nelle opere di Severino: incombe, cupo, il senso del tramonto, della fine sempre più prossima. Lo stile, invece, è di chiara impronta heideggeriana: uno stile drammatico, visionario, che fa continuo ricorso a espressioni come "irrompere", " irruzione", "evocare", "apparire", "minaccia", "minaccia estrema", "destino", "travolgere", "distruggere", e via dicendo. Il lessico sembra quello di un profeta apocalittico, di un Geremia o di un Ezechiele; lo stile è quello, compiaciuto, di un professore di filosofia che rifugge dall’esprimersi in modo immediato ma che sempre, ad ogni frase e ad ogni periodo, vuol sfoggiare una funambolica abilità nel rendere complessi e un po’ astrusi anche quei concetti che si potrebbero rendere con relativa semplicità. La sintassi è ampia, sontuosa, solenne e sorprendente al tempo stesso, caratterizzata da barocchi giri di frase in cui il lettore scopre, con raccapriccio, che proprio là dove il pensiero occidentale ha cerato di costruire le sue più salde e inattaccabili certezze per delimitare l’angoscia del divenire e, quindi, del nulla, è caduto nei lacci che da sé stesso aveva teso, e ha finito per costruire castelli di illusioni, malintesi e inconsapevoli paradossi.

In pratica, con la parziale eccezione di Parmenide, niente e nessuno si salva. È vero che Severino afferma, come abbiamo visto, che «la storia della filosofia non è per questo un seguito di insuccessi»; però, subito dopo, aggiunge che «gli sviluppi e le conquiste più preziose del filosofare si muovono all’interno di una comprensione inautentica». Il che, detto in parole più semplici, significa che quel poco di buono che il pensiero occidentale ha realizzato, lo ha realizzato in maniera inconsapevole e, comunque, senza una chiara comprensione del reale. Inautentica è stata tale comprensione, da parte di tutti i pensatori occidentali: Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Bruno, Cartesio, Leibniz, Kant, Hegel, Kierkegaard, Marx, Nietzsche, Husserl, Heidegger (anche lui!), Sartre. Egli solo, Severino, ha conservato saldamente il senso dell’essere; egli solo ha misurato tutto l’errore, tutta la deviazione della filosofia occidentale dalla retta via.

La cosa che più colpisce, nel pensiero di Severino, è l’assoluta mancanza di una proposta che non sia, genericamente, la necessità di un ritorno al senso dell’essere. In un certo senso si tratta di un pensiero statico, monocorde, ripetitivo fino all’ossessione. Si regge su un’unica idea centrale, e quell’unica idea non è di carattere propositivo, ma negativo: più che una filosofia, assomiglia a una dura, implacabile requisitoria contro l’inautenticità di tutto quanto l’Occidente ha prodotto, dal platonismo all’apparato della tecno-scienza. Ovunque il suo sguardo, lucido e disincantato, altro non vede che un maldestro tentativo per rendere ragione del divenire delle cose, dell’apparire e dello scomparire degli enti, instaurando un dominio sul divenire che vorrebbe esorcizzare, mentre invece aggrava la minaccia del nulla che assedia l’Occidente da ogni parte e che incombe minaccioso su tutto e su tutti.

Non si può neanche dire che vi sia una particolare sensibilità per la distinzione fra pensiero e azione, tanto è vero che il platonismo e il cristianesimo sono messi, dal punto di vista dell’oblio dell’essere, sullo stesso piano del capitalismo e della tecnica. Tutte forme – illusorie – di dominio sul divenire; tutti sforzi – inutili o peggio – per circoscrivere la minaccia del divenire e, quindi, del nulla.

Ma è proprio vero, poi, che l’idea greca del divenire, passata in eredità all’Occidente, è di per sé un’idea nichilista e che, di per sé, comporta una visione nichilistica del reale? Dato che tutto l’edificio del pensiero severiniano poggia su questo assunto, vale la pena di chiederselo, perché non ci sembra affatto che la cosa sia auto-evidente.

Sempre in Essenza del nichilismo (Op. cit., p. 275), Severino afferma che

Se la verità dell’essere è l’apparire dell’inseparabilità dell’ente e dell’essere dell’ente, e dunque è l’apparire dell’eternità di ogni ente (dal più umbratile e sfumato al più ricco e concreto, dal più ideale al più reale, immaginato e vissuto, umano e divino), e se l’apparire della verità dell’essere è l’ente la cui essenza è l’apertura della verità di ogni ente, l’apparire della verità dell’essere non è allora un’attività che esca e ritorna nel nulla, o che cominci e finisca di apparire, ma è il luogo già da sempre aperto in cui giunge a manifestarsi ogni evento e si annuncia ogni parola. I millenni della storia e la totalità del tempo si distendono all’interno di questo luogo eterno, in cui consiste l’essenza dell’uomo. L’eterno apparire della verità dell’essere è aperto al sopraggiungere dell’accadimento. La terra è la totalità dell’accadimento che sopraggiunge nel cerchio eterno della verità dell’essere. E quindi non solo è la totalità dell’accadimento storico, ma include ogni possibile cielo. Ciò significa che la terra è quanto di sé dona, all’apparire della verità, la totalità eterna dell’ente. Se la verità dell’essere è ciò che è necessità dire di ogni ente – se la verità è il predicato dell’Ente -, l’apparire della verità è lo sfondo senza di cui nessun ente e nessun accadimento possono apparire. Il Predicato appartiene all’essenza dell’ente in quanto tale, e un ente che appaia senza l’apparire del Predicato non è un ente: un ente è ciò alla cui essenza appartiene il Predicato, sì che il concetto di un ente che appaia senza l’apparire della verità dell’essere è il concetto di un ente che appare sena se medesimo.

Questo è un buon esempio del barocchismo dello stile severiniano, con quei giri di frase inutilmente ridondanti e ripetitivi, che sembrano fatti apposta per strappare ammirazione e stupore nel lettore profano. Non bastava, ad esempio, dire che «un ente deve apparire, necessariamente, insieme al proprio predicato» invece che: «un ente che appaia senza l’apparire del Predicato non è un ente»? Forse fa più colpo quell’«appaia senza l’apparire»? E non era sufficiente dire che: «il predicato appartiene all’essenza di ciascun ente», invece che: «un ente è ciò alla cui essenza appartiene il Predicato»?

Ma lasciamo perdere le questioni di stile – per leggere ad alta voce la prima frase del brano su riportato, bisogna riempirsi ben bene d’aria i polmoni – e andiamo al sodo.

Qui Severino sostiene, fra l’altro, che la terra è il luogo di ogni possibile accadimento, e che ogni possibile cielo è compreso in essa. Aggiunge, però, che ogni accadimento sopraggiunge nel cerchio eterno della verità dell’essere. Certo, quel "cerchio eterno" è discretamente poetico ed evocativo; tuttavia non possiamo fare a meno di chiederci: se la terra comprende in sé la totalità dell’accadimento, da dove viene questo cerchio eterno della verità dell’essere, entro cui l’accadimento sopraggiunge? E se la terra è quanto di sé dona, all’apparire della verità (che non si sa di dove venga), la totalità eterna dell’ente, allora noi non abbiamo a che fare con la totalità eterna dell’ente, ma con una parte soltanto della sua manifestazione: la terra, di cui l’ente eterno e totale ci fa "dono". Ebbene, questo non equivale a reintrodurre il dualismo ontologico da cui hanno avuto origine, secondo Severino, sia l’oblio dell’essere, sia la metafisica, come illusorio tentativo di esorcizzare il senso del divenire e, perciò, del nulla?

E se, come sostiene Severino all’inizio del brano su citato, «la verità dell’essere è l’apparire dell’inseparabilità dell’ente e dell’essere dell’ente, e dunque è l’apparire dell’eternità di ogni ente», non si suggerisce una sottile distinzione fra l’essere e la verità dell’essere, che apre una crepa in tutto l’edificio così faticosamente costruito? Se la verità dell’essere è una verità-per-noi, ossia per gli enti che si pongono di fronte ad essa, allora l’essere in quanto tale, che cos’è? Una sorta di noumeno kantiano? Ma, se è così, allora la verità dell’essere non è altro che il fenomeno, e – anche per questa via – si reintroduce quel dualismo ontologico che, per Severino, è l’errore originario di tutto il pensiero occidentale.

Ma lasciamo stare i libri più corposi di Severino, come Essenza del nichilismo (circa 450 pagine, delle quali un buon terzo di risposta ai suoi critici) e confrontiamoci con uno dei suoi testi più agili, come Legge e caso (Adelphi Edizioni, Milano, 1979), per cercar di mettere bene a fuoco i concetti fondamentali del suo pensiero.

Riportiamo i passaggi chiave del primo capitolo (Gli immutabili, il niente, il caso, pp. 18-29), cercandovi, se possibile, le risposte alle domande che ci siamo sin qui fatte.

La nascita della filosofia consiste – stando alla ricostruzione platonico-aristotelica – nella posizione del "principio" di tutte le cose che nascono e muoiono, ossia nella posizione della unità immobile che raccoglie insieme tutte le cose divenienti, dalle più umili e vicine alle più diverse lontane – e che in quanto è questo "raccogliere" è appunto λόγος, legere, lex. Il principio e cioè l’άρχή che, come la stessa parola greca dice chiaramente, domina e spinge il suo dominio sino a raggiungere tutte le cose, anche quelle già morte e quelle ancora non nate. L’intenzione originaria della filosofia è certamente di svelare, manifestare, mostrare il principio di tutte le cose; certamente, la filosofia vuole essere θεωρία, contemplazione, visione. Ma proprio perché la θεωρία contempla ed è visione del principio immutabile di tutte le cose, proprio per questa la θεωρία è la previsione dell’ordine immutabile al quale devono adeguarsi tutte le cose che nel divenire sopraggiungono quindi è proprio per questo che la pura θεωρία è dominio assoluto; il puro vedere è prassi, anzi la forma più potente di prassi che nella storia dell’Occidente può esistere prima dell’avvento della scienza moderna. Questo, anche se il carattere essenzialmente pratico della θεωρία rimane nascosto nell’inconscio della θεωρία.

Gli immutabili e gli eterni che l’Occidente ha evocato per salvarsi , cioè per dominare l’irruzione del divenire, sono stati di volta in volta, il dio della tradizione greco-cristiana e il dio dell’immanentismo moderno, l’ordine e il diritto naturali, così come il bene e il bello naturali (che si rispecchiano nel retto operare e nell’opera d’arte), l’anima immortale dell’uomo, l’autorità e l’insegnamento del "Figlio di Dio"" e della Chiesa, l’autorità del padrone, del monarca, dello Stato, i rapporti di produzione dell’economia capitalistica, la legge morale, il determinismo della natura, la razionalità dialettica della storia, l’irreversibilità del tempo, la società comunista come sbocco della lotta di classe. Alla radice di tutti gli immutabili sta quell’immutabile che è l’epistéme, ossia, il luogo, lo spazio non oscillante in cui possono essere innalzati con verità tutti gli immutabili (e al quale si riconnette direttamente la concezione assolutistica delle scienze logico-matematiche e delle stesse scienze empiriche). In questa prima epoca del dominio, nella storia dell’Occidente le forme immediate, familiari, quotidiane del dominio – come l’uso della terra, degli animali, degli uomini – sono vissute come efficaci solo in quanto si inseriscono nel senso del mondo, aperto dell’evocazione degli immutabili; diversamente, appaiono come errore, deviazione, peccato, quindi inevitabilmente destinate al fallimento

Ma nella storia dell’Occidente le forme del dominio che precedono il dominio scientifico hanno un carattere essenzialmente antinomico. L’antinomia sta in questo, che gli immutabili e gli eterni, evocati dalla previsione epistemica per dominare il divenire, rendono impossibile e impensabile il divenire, ossia rendono impossibile ciò che per essere dominato deve essere possibile e pensabile, e che anzi sin dall’inizio l’Occidente ha considerato la stessa evidenza fondamentale.

Per i mortali, il divenire del mondo è sì la minaccia estrema ed è la radice dell’angoscia, ma è ineludibile. Esso è l’evidenza fondamentale perché appartiene in modo emergente al contenuto dell’epistéme. In quanto conoscenza incontrovertibile, l’epistéme è affermazione e visione incontrovertibile di un contenuto al quale appartiene il divenire del mondo. la visione del divenire appartiene anzi al fondamento su cui l’epistéme si costruisce.

Il carattere essenzialmente antinomico delle forme prescientifiche di dominio compete quindi, e in modo anzi primario, all’epistéme. L’epistéme è invocata per dominare il divenire, ma è proprio l’epistéme a rendere impossibile il divenire – e quindi a rendere impossibile se stessa in quanto portatrice della convinzione che il divenire sia oggetto di visione incontrovertibile.

La volontà di dominare il divenire è il riconoscimento più radicale dell’esistenza del divenire (soprattutto se questa volontà si realizza come epistéme), ma il domino del divenire mediante l’evocazione dell’epistéme e degli immutabili che in essa vengono via via innalzati esige un significato del mondo che è incompatibile con l’esistenza del divenire. Perché, dunque, diciamo questo?

Il pensiero greco stabilisce una volta per tutte il senso del divenire del mondo. All’interno del senso greco del divenire cresce l’intera civiltà occidentale – quindi anche la scienza moderna, sia come sapere empirico, sia come formalismo logico-matematico.

Per il pensiero greco il divenire delle cose è il loro uscire dal niente e il ritornare nel niente – cioè il loro incominciare ad essere e cessare di essere. Il niente non ha nulla a che vedere con una sorta di spazio vuoto: una cosa esce dal niente nel senso che prima di essere essa non è alcunché, è niente. Essa esce dal niente nel senso che incominciando ad essere non esce da alcuna dimensione, cioè ha niente dietro di sé.

Certamente, prima che la cosa sia esistono già le condizioni della cosa, e possono esistere già parti della cosa o i materiali di cui essa è fatta. Ad esempio, prima che l’anfora sia esiste già l’argilla – e il vasaio e il progetto che egli intende mettere in atto e gli strumenti del lavoro, – ma prima che l’anfora sia, l’anfora non è, e, nella misura in cui non è, essa è niente. È da questo suo esser niente che la cosa esce quando incomincia ad essere. Gran parte di ciò che appartiene all’anfora esiste già (ossia non è un niente) prima che l’anfora sia, ma l’unità specifica e irripetibile che raccoglie in sé tutto ciò che dell’anfora preesiste- e lo rende, appunto, un’anfora, e anzi, quest’anfora, questa unità che è appunto l’anfora in quanto tale – non esiste prima che l’anfora sia.

Se gran parte di ciò che appartiene all’anfora le preesiste, non può preesisterle tutto ciò che le appartiene e tutto ciò che essa è. Se di una cosa che incomincia ad essere preesiste tutto, non si potrebbe dire nemmeno che essa incomincia, cioè non si potrebbe dire che essa diviene. Ciò che non preesiste è la cosa in quanto incomincia. Tutto ciò che incomincia, prima di incominciare è niente.

Solo a partire dalla filosofia greca il niente è pensato a partire dalla sua infinita lontananza dall’ente, cioè come il non essere alcuna delle cose (e quindi come il non essere alcuno degli aspetti, delle funzioni, dei sensi delle cose) Ma è proprio per questo carattere radicale del niente che all’inizio della civiltà occidentale la minaccia del divenire diventa estrema.

La minaccia del divenire diventa estrema proprio quando, nella storia dei mortali, compare l’evocazione greca degli immutabili, cioè la prima forma decisiva di dominio del divenire messa in opera dall’Occidente. L’irruzione del divenire minaccia le cose esistenti perché ciò che irrompe è nuovo, imprevedibile, inatteso; ma se rimangono incerti e confusi i confini tra l’esistenza e la regione da cui proviene ciò che irrompe nell’esistenza, se, come avviene nel mito, non si sa dove finisce il regno della realtà e dove incomincia il regno delle ombre da cui irrompe la minaccia del divenire, allora resta sempre aperta la possibilità di trovare una via che, per quanto nascosta, conduca dal mondo a ciò che ancora non ha fatto irruzione nel mondo, una via che renda quindi in qualche modo prevedibile e familiare ciò che pertanto solo di fatto e provvisoriamente si sottrae alla previsione.

Ma è appunto questa via ad esser resa impercorribile dal significato greco del niente: il niente è appunto niente, il niente non contiene alcunché e quindi non contiene alcunché che possa esser previsto ed atteso. Ma tutto ciò che divenendo irrompe nel mondo ed essere, nasce dal niente, è stato un niente. Sì che è proprio per questo suo essere stato un niente che ciò che irrompe nel mondo è assolutamente, infinitamente, imprevedibile, inatteso, inaudito, nuovo; e quindi è la minaccia estrema rivolta alle cose esistenti.

Ciò che esce dal niente incomincia in modo assoluto, non ha tendenze, vocazioni, inclinazioni propensioni, non ha scopi, non è sottoposto a regole, leggi, principi. Dietro di sé non ha nulla; il suo affacciarsi all’esistenza non è affidato a nulla, non è in vista di nulla, non ha scopi, non ha ragioni. Il niente è niente e non può esserci una ragione che spinga il niente in una direzione piuttosto che in un’altra. Proprio perché è stato niente, tutto ciò che nel divenire incomincia ad essere è il puro caso. Nella storia dell’Occidente il senso del caso è indissolubilmente legato al senso del niente. Nel suo significato essenziale il caso è l’uscire dal niente, è il cadere sull’esistenza essendo stato gettato da niente. Il divenire in quanto tale è caso. Le cosiddette regolarità secondo cui si dispongono le cose che incominciano ad essere sono soltanto un fato, cioè sono esse stesse casuali.,

Questo, anche se il pensiero greco evita costantemente di rendere esplicito il significato essenziale che esso attribuisce al caso, e, come avviene in Aristotele, riduce il caso a un tipo particolare di divenire (γίγνεσθαι άπò τύχης), subordinato al divenire per opera della natura e dell’arte (γίγνεσθαι φύσει, τέχνη). Ciò che diviene per opera della τύχη umana o divina è certamente considerato come realizzazione di uno scopo, ma in quanto esso diviene, in quanto cioè esce dal suo essere stato niente, la sua conformità a uno scopo è soltanto l’aspetto esterno della sua radicale mancanza di scopi, ossia la stessa conformità a uno scopo è casuale. Nella lingua greca, oltre che da τύχη, il caso è nominato dalla parola αύτόματον, che significa esplicitamente – quando la lingua greca viene parlata dall’epistéme,- l’irruzione del divenire (μάομαι) da parte di qualcosa che è esso solo il protagonista e il responsabile dell’irruzione; onde esso irrompe «da sé»(αύτό) – e non è e non ha niente prima di irrompere.

La vicenda in cui la minaccia del divenire diventa estrema è la vicenda stessa in cui si realizza la prima forma decisiva di dominio del divenire messa in opera dall’Occidente. Questa vicenda è l’evocazione greca degli immutabili. È infatti all’interno dell’epistéme che resta stabilito il senso essenziale del divenire , del niente e del caso; e l’Occidente evoca tutti i suoi immutabili per dominare il divenire, pensato e vissuto in questo senso essenziale.

Ma – abbiamo incominciato a dire – gli immutabili, cioè gli dei dell’Occidente, rendono impossibile il senso essenziale che l’Occidente conferisce al divenire. L’immutabile è ciò che nessun divenire minaccia. Se ne sta da sempre e per sempre al di fuori del niente, «sempre salvo», come dice Aristotele (ώς τής τοιαύτης φύσες άιεί σωζομένης, Met., 983b, 12-13).Poiché nessun divenire può travolgerlo, poiché non può irrompere alcuna novità che lo sorprenda e lo costringa a piegarsi, l’immutabile spoglia il divenire di ogni imprevedibilità. L’immutabile è cioè la legge alla quale deve sottostare tutto ciò che sopraggiunge. Proprio come una fortezza inespugnabile non è un’opera semplicemente difensiva, ma estende ovunque il suo dominio, perché anche coloro che si trovano nelle più lontane contrade sanno che non potranno mai espugnarla e quindi su questa consapevolezza regolano la loro esistenza, così l’immutabile non si limita a far quadrato attorno all’esistenza, ma impone a tutti gli eventi di adeguarsi alla sua natura.

Il senso dell’esistenza aperto dall’immutabile e in cui l’immutabile consiste non ha confini: raggiunge anche l’estrema contrada di tutto ciò che ancora è un niente e gli prescrive la propria legge: anche tutto ciò che ancora è un niente dovrà adeguarsi, incominciando ad essere, alla legge dell’immutabile. Anzi, tutto ciò che ancora è un niente è già adeguato alla legge, è già sottoposto alla legge di doversi adeguare, quando incomincerà ad esistere, alla legge dell’esistenza. Ma se la legge raggiunge il niente e prescrive il proprio senso al niente, se il niente non ha più nulla di imprevedibile perché da esso non può uscire più nulla che sfugga alla legge, allora il niente non è più un niente, ma si è trasformato in una delle regioni su cui domina la legge dell’immutabile. E se il niente non è più un niente, l’uscire delle cose dal niente, cioè il divenire del mondo, diventa un’apparenza.

In effetti l’immutabile ha già tutto previsto e tutto anticipato in sé. Non c’è più spazio per il divenire reale del mondo, sia che l’immutabile si ponga come il dio della tradizione greco-cristiana, come i rapporti di produzione concepiti dall’economia paleocapitalistia come leggi naturali, come l’ordine deterministico dell’universo, come la necessità del superamento della contraddizione del capitalismo nella società comunista, sia che, innanzitutto, l’immutabile sia la filosofia in quanto epistéme, cioè la verità definitiva e incontrovertibile in cui si apre il senso al quale tutto, in cielo, in terra e nell’Ade del niente deve adeguarsi.

Stabilendo la propria legge, l’immutabile prevede, anticipa e domina il divenire del mondo, ma questo dominio rende impossibile e impensabile ciò che esso deve dominare. La legge dell’immutabile impedisce al niente di essere niente, al caso di essere caso, al divenire di essere divenire. E tuttavia questa legge è stata evocata proprio per salvarsi da ciò che viene ritenuto la realtà più reale e più ineludibile: il divenire, cioè l’ac-cadere degli eventi che escono dal proprio niente. Questo, il carattere antinomico degli immutabili, cioè degli dei dell’Occidente.

Ma il divenire, come processo dell’uscire e del ritornare nel niente, è insieme l’evidenza originaria che a partire dall’epistéme greca non verrà più messa in discussione nella storia dell’Occidente, nemmeno quando all’interno della scienza moderna e di certe forme della filosofia contemporanea si creerà di poter completamente prescindere dal senso greco del divenire.

L’esistenza del divenire è l’evidenza originaria dell’Occidente e l’Occidente evoca gli immutabili appunto per dominare il divenire. È quindi inevitabile che questa forma di dominio – che, attraverso l’evocazione degli immutabili, giunge a cancellare il divenire sul fondamento del riconoscimento più perentorio dell’esistenza del divenire – finisca per mostrare il proprio carattere onirico e quindi la propria impotenza rispetto agli eventi che, sopraggiungendo, lacerano la rete degli immutabili e irrompono nell’esistenza come imprevedibilità e novità radicali e quindi come minaccia estrema e mantenuta. Per dominare realmente il divenire è quindi necessario dissolvere l’incantesimo degli immutabili, il sogno all’interno del quale si domina solo perché si sono voltate le spalle a ciò che per altro si intende dominare. La meta-fisica è appunto l’epistéme che, a partire dalla φύσις, cioè dall’evidenza del divenire, va oltre il divenire evocando la dimensione degli immutabili. La metafisica è appunto il dominio sognato.

La volontà di potenza esige dunque la distruzione degli immutabili perché la volontà di potenza è unita necessariamente alla fede nell’esistenza di ciò su cui la potenza deve esercitarsi, è unita cioè alla fede nell’esistenza del divenire, ossia di ciò la cui esistenza è inconciliabile con l’esistenza degli immutabili. La storia dell’Occidente, come storia della forma estrema della volontà di potenza, è la vicenda dell’evocazione e della distruzione degli immutabili.

Tale distruzione (dalla distruzione di dio e del concetto universale – che anticipa in sé ogni individuazione come dio anticipa in sé ogni evento del mondo – alla distruzione della tonalità nel linguaggio musicale e di ogni "forma naturale" nell’opera d’arte, dalla distruzione dei rapporti di produzione capitalistici alla distruzione dell’autore e del testo scritto nel "teatro della crudeltà" di Artaud) è la stessa distruzione della civiltà tradizionale dei suoi valori; ma la forza che distrugge la tradizione è l’essenza stessa della tradizione, cioè la volontà di dominio sul divenire, che dunque entra in contraddizione con la forma che la tradizione ha conferito alla propria essenza mediante le vocazioni degli immutabili. Si tratta di una distruzione inevitabile.

Ma questa inevitabilità va cercata al di sotto del piano in cui la cultura dell’Occidente prende coscienza della distruzione degli immutabili. L’Occidente è completamente immerso nel senso greco del divenire, ma proprio per questo gli riesce difficile averlo dinanzi agli occhi. Ma è proprio e soltanto il senso greco del divenire a implicare necessariamente l’impossibilità degli immutabili e delle forme di civiltà che su di essi si fondano: se il senso greco del divenire non sta dinanzi agli occhi, si sottrae allo sguardo anche l’inevitabilità della distruzione degli immutabili, sì che tale distruzione si presenta, all’interno della cultura occidentale, come un semplice fatto, costantemente esposto, quindi, a una revisione possibile.

Tutte le critiche che la civiltà e la cultura contemporanee rivolgono alla civiltà e alla cultura della tradizione occidentale sono soltanto il tentativo della distruzione degli immutabili, perché sono soltanto il fenomeno della distruzione essenziale che si compie nel sottosuolo invaso dal senso greco del divenire.

Proviamo a ricapitolare il ragionamento di Severino.

Per poterlo seguire più chiaramente, lo divideremo in alcuni singoli punti; e per ciascuno di essi – come già abbiamo fatto nel precedente saggio L’etica del finito come neopaganesimo nella proposta di Salvatore Natoli (sul sito di Arianna Editrice) svolgeremo alcune contro-deduzioni. Se lo facessimo solo alla fine, crediamo che i concetti si accavallerebbero in modo fastidioso e, comunque, confuso.

Punto primo. La filosofia greca nasce come tentativo di svelare il "principio" di tutte le cose. ma, proprio perché la filosofia nasce come theoría, ossia visione e contemplazione, essa prefigura un ordine rigido e immutabile, al quale devono adeguarsi gli enti che sopraggiungono nel divenire. Da ciò si origina una forma di pensiero che è dominio assoluto: per la precisione, «il puro vedere è prassi, anzi la forma più potente di prassi che nella storia dell’Occidente può esistere prima dell’avvento della scienza moderna». Da questa originaria esigenza di ordine, che si traduce in un vedere come prassi e come dominio sulle cose, nascono gli immutabili, a cominciare dal Dio del cristianesimo: qualcosa che garantisca la stabilità del mondo contro la continua mutevolezza e il carattere effimero delle cose.

Critica. La filosofia greca, in particolare da Platone e Aristotele, sarebbe un continuo sforzo per raccogliere insieme e per dare una legge al perpetuo divenire delle cose; per fondare l’unità e la verità originaria di ciò che ci appare come mutevole ed effimero. Però Severino dice anche che la filosofia vuole essere contemplazione, visione. Ora, le due interpretazioni della nascita della filosofia greca sono contraddittorie: contemplare non vuol dire legare insieme e dare una legge; vuol dire, semplicemente, aprirsi alla manifestazione dell’essere. Pertanto, o la filosofia greca – e, sulla scia di essa, l’intera filosofia occidentale – nascono da una esigenza "legislativa", oppure da una attitudine contemplativa. Solo nel primo caso si può parlare di una forma di prassi, non nel secondo; e, inoltre, dal concetto di prassi al concetto di dominio, il passo è lungo; né Severino si prende la briga di spiegarlo.

Eppure, la cosa non è per niente chiara. Ogni prassi si risolve in un dominio? Questa è, nel migliore dei casi, una forzatura logica. Sarebbe più giusto affermare che, nella prassi, è presente la possibilità del dominio; questo sì. Ma possibilità non vuol dire necessità. Se io compio l’azione di respirare, che forma di dominio starei esercitando? Quella di dare un ordine ai miei polmoni? Ma – a parte il fatto che il respiro è un’azione semi-volontaria, mentre altre azioni tipiche dei viventi, come il battito cardiaco, sono del tutto involontarie – ci sembra che si tratti di un genere di dominio molto particolare. Bisognerebbe, allora, distinguere le diverse forme del dominio: altro è annusare il profumo di un fiore, altro è sganciare un bomba atomica su una grande città. Azioni entrambe: ma talmente diverse, sotto ogni punto di vista, che volerle inscrivere in un’unica categoria, quella della praxis come dominio, non può che ingenerare gravissimi rischi di fraintendimento.

Punto secondo. Per "salvarsi", ossia per dominare l’irruzione del divenire, l’Occidente, ha evocato una serie di immutabili: il Dio cristiano, l’immanentismo moderno, il diritto naturale, il bene e il bello naturali (con l’etica e l’insieme delle opere d’arte), la chiesa, le figure del padrone e del sovrano, lo Stato, il capitalismo, la dialettica hegeliana e marxista, l’irreversibilità del tempo, la lotta di classe, il comunismo. Il comune denominatore di queste forme storiche è l’epistéme, la pretesa di una conoscenza certa propria della scienza, contrapposta alla doxa, ossia la conoscenza solamente probabile. In origine, forme di dominio come l’uso della terra, degli uomini e degli animali appaiono giustificate solo se inserite in un contesto che comprende gli immutabili; altrimenti vengono percepite come ingiuste ed erronee.

Critica. Gli "immutabili" di cui parla Severino sono una categoria talmente ampia, che è possibile mettervi dentro praticamente tutto quanto ha caratterizzato la storia dell’Occidente. Ma, a parte questo, ci si può domandare cosa significhi l’affermazione che l’Occidente ha evocato gli immutabili; che li ha evocati per salvarsi dall’irruzione del divenire; e se è vero che tale irruzione comporta la minaccia del niente. Si evoca, infatti, qualche cosa che già esiste, magari allo stato latente; non qualcosa che non esiste. Ma allora gli immutabili esistevano già, come la statua esiste già, prima di essere scolpita, nella mente dell’artista che la vuol realizzare?

Ancora: perché il divenire sarebbe una irruzione? Irrompere comporta l’idea di un ingresso improvviso, violento e, soprattutto, inaspettato. Ma il divenire non si presenta all’uomo con queste caratteristiche; al contrario, esso è – per il senso comune – la regola della natura, non l’eccezione. In natura, le cose nascono e muoiono; gli enti appaiono e scompaiono. E l’uomo greco, «fedele alla terra» (per usare l’espressione nietzschiana che adopera anche Natoli), non ha mai visto le cose diversamente, se non con Parmenide e pochi altri. Lo stesso Severino lo riconosce esplicitamente, nel prosieguo del suo ragionamento (alla pagina successiva).

E poi, perché l’Occidente avrebbe avuto bisogno di salvarsi? Salvarsi da chi o da cosa? Il concetto di salvezza, in questo contesto, sembra avere una valenza religiosa: l’uomo, ad esempio, si attende la salvezza da Dio.

La risposta a questa domanda si trova nel primo volume di Severino su La filosofia dai Greci al nostro tempo (Rizzoli, Milano, 2004, p. 39): «Gli enti del mondo sono generati da quell’Ente supremo che è l’Arché – e in esso, corrompendosi, ritornano. L’arché "si conserva sempre", dice Aristotele (…). Traducendo con maggior precisione, si deve dire: "l’arché è sempre salvo". Sempre salvo dal niente. Nascita e morte riguardano le cose del mondo, cioè gli enti divenienti: uomini, animali, piante, città e mondi. La nascita e la morte è, per essi, il provenire e il ritornare nell’arché».

Dunque, il concetto di salvezza vien fuori da come Severino traduce il concetto aristotelico di «conservarsi sempre»; ma, al di là della validità filologica di questa interpretazione, resta il fatto che dire che l’Occidente evoca gli immutabili per salvarsi, evoca (appunto) un contesto drammatico, ingiustificatamente denso di pathos: a metà strada fra Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton e Marte e i suoi canali di Percival Lowell, nel quale ultimo l’astronomo americano ipotizzava che gli abitanti di Marte lottassero disperatamente contro la desertificazione del loro pianeta, mediante la costruzione di giganteschi canali d’acqua dolce.

Letteratura, dunque, più che filosofia. E questa è un’altra forzatura che, dal piano linguistico, travalica in quello speculativo.

Punto terzo. Il divenire è un dato ineludibile della condizione umana (vedi la critica al punto precedente); al tempo stesso, però, esso è «la minaccia estrema e la radice dell’angoscia». Ora gli immutabili e gli eterni rendono impossibile e addirittura impensabile il divenire. Dunque gli uomini, mediante l’epistéme, hanno evocato – per così dire – un rimedio peggiore del male; ossia hanno ribadito l’impossibilità di quella evidenza che è offerta loro dal divenire. L’epistéme, in ultima analisi, non solo si rivela uno strumento spuntato per rendere ragione delle antinomie del mondo, ma finisce per rendere impossibile se stessa.

Critica. Qui, forse, Severino – tutto preso dal contesto emotivo da lui stesso evocato, già dalla particolare scelta lessicale – dipinge dell’uomo greco un ritratto più tragico di quel che non comporti la verità storica (in effetti, sembra di trovarsi in una dimensione a-temporale, fuori della storia concreta, con le sue concrete tensioni e contraddizioni). Dire che gli immutabili sono stati evocati per placare l’angoscia dell’uomo di fronte allo spettacolo del divenire, significa incupire il quadro più del necessario.

Ma se anche fosse, il punto centrale, adesso, è un altro: perché mai gli immutabili e gli eterni dovrebbero rendere non solo impossibile, ma anche impensabile il divenire? Anche qui, ci sembra di ravvisare, nel procedere di Severino, lo steso difetto che già Kierkegaard ravvisava in Hegel: quello di porre i concetti, invece di prendersi la briga di dimostrarli.

Prendiamo, per fare un semplice esempio, quel particolare "immutabile" che Severino ha definito il bello naturale. Ci domandiamo per quale mai ragione il Doriforo di Policleto o la Venere di Cnido di Prassitele, che discendono dall’idea di un bello naturale, dovrebbero rendere impossibile e impensabile l’idea del divenire.

Al contrario: ci sembra che la funzione dell’arte "bella", come la intendevano i Greci (e come l’ha intesa l’Occidente, almeno fino alle soglie del XX secolo) sia proprio quella di rasserenare l’angoscia del divenire, che non è affatto divenuto impossibile e impensabile, ma semplicemente è stato spostato su un piano ideale e universale, fuori del tempo e della storia. Perciò gli immutabili non hanno reso affatto contraddittorio il concetto del divenire, e l’epistéme non ha aumentato l’angoscia dell’uomo: l’ha purificata e trasfigurata.

Non aveva già Platone sostenuto che il bello sensibile può essere il primo gradino per innalzarsi alla contemplazione del bello ideale? E non aveva affermato che, una volta realizzato tale passaggio, gli occhi dell’anima avrebbero incominciato a vedere, proprio quando gli occhi del corpo fossero rimasti al buio?

Punto quarto. Per il pensiero greco, il divenire delle cose è il loro uscire dal niente e il ritornare nel niente – cioè il loro incominciare ad essere e cessare di essere. Il niente, dice Severino, non deve essere immaginato come una sorta di spazio vuoto, di terra di nessuno: una cosa esce dal niente nel senso che prima di essere, essa non è alcunché, è niente. Essa esce dal niente nel senso che, incominciando ad essere, non esce da alcuna dimensione, cioè ha niente dietro di sé. Poi Severino fa la similitudine dell’anfora, per dire che qualche cosa degli enti può esistere benissimo prima che gli enti appaiano; ma non può preesistere la loro totalità. Tutto quello che ha un inizio, prima di incominciare è niente. E aggiunge che solo a partire dalla filosofia greca il niente è pensato a partire dalla sua infinita lontananza dall’ente, cioè come il non essere; e, quindi, come il non essere alcuno degli aspetti, delle funzioni, dei sensi delle cose. A suo dire, d’altra parte, è proprio per questo carattere radicale del niente che – all’inizio della civiltà occidentale – la minaccia del divenire diventa estrema.

Critica. L’affermazione di Severino, che solo a partire dalla filosofia greca il niente è pensato a partire dalla sua infinita lontananza dall’ente, cioè come il non essere alcuno degli aspetti delle cose, ci lascia un po’ perplessi, e per due ordini di motivi.

Il primo è che non ci sembra storicamente documentabile questa assoluta novità della concezione greca del niente come radicale non-essere delle cose. Di nuovo, ci sembra che qui il filosofo evochi un tempo mitico in cui le cose stavano altrimenti: in illo tempore, chissà dove, chissà quando. Prima della nascita della filosofia, le cose stavano diversamente? L’uomo greco aveva un’altra concezione del niente? E, se sì, di dove gli veniva?

Noi, veramente, un’idea ce l’avremmo; ma è un’idea che implica necessariamente una scorribanda fuori dai limiti culturali e geografici dell’Occidente. Ma Severino ha sempre parlato di Occidente (al singolare!), come se si trattasse di una categoria unitaria ab origine. A dispetto del fatto che la nascita stessa della filosofia greca non si spiega se non a patto di uscire da quell’ambito, e di guardare verso l’Oriente.

A ciò si aggiunga – ed è la seconda ragione di perplessità – che l’espressione «a partire dalla filosofia greca il niente è pensato a partire dalla sua infinita lontananza dall’ente» sembra, anch’essa, di natura più poetica che filosofica. Che cosa significa, esattamente, che nella filosofia greca il niente è pensato come infinitamente lontano dall’ente? Il concetto di lontananza (per quanto infinita) fa a pugni col concetto di totale privazione degli aspetti e delle funzioni di una cosa. O si è lontani, o non si è. Che se, poi, essere infinitamente lontani vuol dire, semplicemente, non esserci né essere mai stati, perché non dire – chiaro e tondo – che il niente non è lontananza dall’ente, ma assenza radicale di ogni predicato dell’ente?

Punto quinto. La minaccia del divenire si fa estrema, perché l’irruzione del divenire, a sua volta, minaccia le cose esistenti in modo nuovo, imprevedibile e inatteso. La via dell’epistéme è la via che dovrebbe stornare la minaccia, aiutando l’uomo a trovare una conoscenza certa del reale, in modo da rendere prevedibile quel divenire che minaccia l’uomo in modo tanto inatteso. Ma il niente, inteso come radicale privazione dell’essere, non consente alcuna previsione, alcun ordine, dunque si sottrae a ogni tentativo di esorcizzarlo. Non solo: ciò che irrompe nel mondo, esce dal niente, e dunque è un niente esso stesso. L’irruzione del divenire nel mondo è, allora, quanto di più minaccioso si possa immaginare, perché si tratta, in ultima analisi, di una irruzione del niente.

Critica. Qui vi sono almeno due passaggi logici non adeguatamente giustificati, anzi, non giustificati affatto. Lo scenario, sempre più apocalittico, richiama lo scontro imminente e inevitabile fra un universo di materia ed uno di antimateria, dal quale entrambi usciranno annientati.

Perché ora Severino dice che «ciò che irrompe è nuovo, imprevedibile, inatteso», se appena due pagine prima aveva ammesso che, sì, «il divenire del mondo è la minaccia estrema e la radice dell’angoscia», ma che essa è «l’evidenza fondamentale» ed è assolutamente «ineludibile»? Come fa una cosa evidente ad apparire come imprevedibile e inattesa?

Il secondo passaggio logico non giustificato è quello in cui Severino afferma che, se ciò che incomincia ad essere (il diveniente) esce dal niente, vuol dire che è esso stesso un niente.

La cosa appare ancor più chiara se si guarda l’aggettivo indeterminativo: un niente, adoperato alla fine del ragionamento; anziché quello determinativo, il niente, che sarebbe stato logico adoperare. Se una cosa non è, vuol dire che è il niente; se la si pensa come un niente, allora vuol dire che la si pensa come parte di qualcosa d’altro, ossia come quello "spazio vuoto" contro cui lo stesso Severino aveva messo in guardia.

Torniamo a domandare: anche ammesso che una cosa possa uscire dal niente (ex nihilo), ciò la rende, automaticamente, un niente? Non ci sembra, in primo luogo, che i Greci avessero la nozione dell’essere come uscito dal non essere; questa è la nozione cristiana della creazione dal nulla di tutte le cose che esistono. Ma ammettiamo che così non sia: sorge (in secondo luogo) la domanda: nel momento in cui una cosa è, come la si può definire un niente? Nel momento in cui è, essa è qualcosa. Qualcosa di effimero, fin che si vuole, paragonabile a una corda sospesa fra il niente da cui è apparsa e il niente in cui scomparirà; ma non un niente.

Non è vero, dunque, che le cose uscite dal niente sono niente; e non è vero che la minaccia del divenire alle cose esistenti appare ai mortali come "estrema". Sarebbe estrema solo nel caso in cui minacciasse di non farle più emergere dal niente; non lo è, invece, quando può solo minacciarle di estinzione dopo che sono state.

Punto sesto. Fa la sua comparsa il concetto di caso. Ciò che esce dal niente, dietro di sé non ha nulla; il suo affacciarsi all’esistenza non è affidato a nulla, non è in vista di nulla, non ha scopi, non ha ragioni. Il niente è niente e non può esserci una ragione che spinga il niente in una direzione piuttosto che in un’altra. Proprio perché è stato niente, tutto ciò che nel divenire incomincia ad essere è il puro caso. Nella storia dell’Occidente, il senso del caso è indissolubilmente legato al senso del niente. La storia del divenire e la storia del caso si intrecciano qui indissolubilmente, in una funesta alleanza: il divenire, in quanto tale, non è altro che il caso. L’irruzione del divenire equivale all’irruzione del caso.

Critica. Ci sembra che nemmeno questo passaggio logico si adeguatamente giustificato.

Severino dice che ciò che esce dal niente è niente, e non può darsi alcuna particolare ragione che spinga il niente in una direzione piuttosto che in un’altra. Questa indeterminatezza sarebbe, dunque, la manifestazione del caso.

Tuttavia, così come non è stato spiegato in che modo ciò che esce dal niente sia niente, così, adesso, non viene spiegato perché la mancanza di scopi e ragioni dovrebbe significare, di per sé, che una cosa è frutto del caso. A nostro modo di vedere, una cosa può anche esistere senza fini e senza ragioni apparenti, e tuttavia far parte di un odine superiore, a noi attualmente incomprensibile. Né si pensi che questo concetto sia per forza di natura provvidenzialistica o, ancora più specificamente, di origine cristiana. I Greci avevano un concetto del genere, ed era l’opposto della provvidenzialità: il concetto del Fato, ossia di un destino imperscrutabile e ineluttabile, al quale gli stessi dei dovevano sottomettersi.

Il fato è esattamente l’opposto del caso. Nel fato vi sono delle ragioni, solo che esse non si rivelano ai mortali. Ribadiamo, pertanto, il concetto: un ente può esistere in modo apparentemente casuale, e tuttavia non esser privo di ragioni. Si tratta piuttosto di vedere a chi siano accessibili tali ragioni. Gli immutabili, per Severino, non erano stati "evocati" dagli uomini appunto per ridurre il disordine ad ordine, il caso ad epistème?

Punto settimo. Evocando tutti i suoi immutabili per difendersi dal divenire, l’Occidente si è spinto da sé in un vicolo cieco. L’immutabile, infatti, è la legge cui deve sottostare tutto ciò che sopraggiunge. Aristotele, nella Metafisica (983b, 6-13) afferma che l’immutabile è «sempre salvo», dunque capace di sottomettere alla legge ogni cosa, anche ciò che esce dal niente, nel momento in cui emerge all’esistenza. Ma, allora, il niente non è più un niente, è divenuto parte del dominio dell’immutabile; e, cosa ancora più importante, l’uscire delle cose dal niente diventa una semplice apparenza.

Critica. A questo punto è opportuno che citiamo per esteso la traduzione di Giovanni Reale del passo, indicato da Severino, della Metafisica di Aristotele: (Rusconi, Milano, 1994, pp. 15-17): «La maggior parte di coloro che prima filosofarono pensarono che princìpi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre».

La prima cosa che si sarà notata, è che qui Aristotele parla dei princìpi materiali delle cose.

La seconda cosa è che Aristotele afferma che l’immutabile se ne sta, eternamente, fuori del niente; e c’è una bella distanza fra questo concetto e l’affermazione severiniana che «la legge raggiunge il niente e prescrive il proprio senso al niente», un passaggio un po’ criptico, che – al solito – viene piuttosto accennato che spiegato a fondo.

Quanto al fatto che il divenire delle cose, a causa della "cosificazione" o, se si preferisce, della solidificazione del niente, diventa una semplice apparenza, qui si direbbe che siamo in prossimità del concetto indiano di lila, di creazione del mondo come gioco divino: gioco illusorio, sogno di un sogno della mente divina. Anche in questo caso, bisognerebbe gettare un ponte verso l’Oriente; ma nulla del genere ci viene detto in proposito da Severino. Per lui, "Occidente" sembra una entità «blindata», autosufficiente e chiusa in se stessa.

Punto ottavo. L’immutabile – dice Severino – ha già tutto previsto e tutto anticipato in sé. Non c’è più spazio per il divenire reale del mondo, sia che l’immutabile si ponga come il dio della tradizione greco-cristiana, come l’ordine deterministico dell’universo o come la necessità del superamento della contraddizione del capitalismo nella società comunista; insomma, come ogni forma di epistéme, di verità certa e definitiva

«Stabilendo la propria legge, l’immutabile prevede, anticipa e domina il divenire del mondo, ma questo dominio rende impossibile e impensabile ciò che esso deve dominare. La legge dell’immutabile impedisce al niente di essere niente, al caso di essere caso, al divenire di essere divenire. E tuttavia questa legge è stata evocata proprio per salvarsi da ciò che viene ritenuto la realtà più reale e più ineludibile: il divenire, cioè l’ac-cadere degli eventi che escono dal proprio niente. Questo, il carattere antinomico degli immutabili, cioè degli dei dell’Occidente».

Critica. Qui Severino dice, in sostanza, che la contraddizione fondamentale dell’Occidente consiste nell’essersi dato, lungo la sua storia bimillenaria, una serie di immutabili e, di conseguenza, di leggi, che in teoria dovrebbero dare ordine e sottomettere quella sfera della realtà – il divenire – che, per il solo fatto di esistere, contraddice la legge. La legge dell’immutabile impedisce al niente di essere niente; ma il niente è niente: dunque, la filosofia dell’Occidente è l’espressione di un pensiero non solo angosciato e nevrotico, ma apertamente schizofrenico.

Lo si poteva dire meglio, crediamo: in maniera più semplice e meno ripetitiva.

Ma qual è la conclusione? Che vi è stato, nella storia dell’Occidente, un accanimento bimillenario contro se stesso; che l’Occidente non ha mai saputo, potuto o voluto prendere consapevolezza delle proprie continue antinomie, né pacificare ragionevolmente le proprie ansie.

Con la sola eccezione di Emanuele Severino e, forse, di Parmenide.

Punto nono. L’Occidente ha evocato e continua ad evocare gli immutabili – ultimo dei quali, la scienza – appunto per dominare il divenire. Ma si tratta di un dominio di carattere onirico, il divenire essendo un’apparenza; e quindi è un dominio impotente, che lascia vedere ovunque le smagliature della sua rete.

«Per dominare realmente il divenire è quindi necessario dissolvere l’incantesimo degli immutabili, il sogno all’interno del quale si domina solo perché si sono voltate le spalle a ciò che per altro si intende dominare». Si tratta, pertanto, di dissolvere il sogno della metafisica.

Ora, la volontà di potenza esige la distruzione degli immutabili, perché la volontà di potenza è unita necessariamente alla fede nell’esistenza del divenire, ossia di ciò la cui esistenza è inconciliabile con l’esistenza degli immutabili. La storia dell’Occidente, conclude Severino, è la storia della forma estrema della volontà di potenza, ossia la vicenda dell’evocazione e della distruzione degli immutabili.

Critica. Qui fanno la loro comparsa due concetti risalenti a due momenti ben precisi della storia della filosofia moderna. Il primo concetto è kantiano: bisogna dissipare il sogno della metafisica per riprendere contatto con il mondo reale. Il secondo è nietzschiano: la volontà di potenza, che qui emerge bruscamente e senza alcuna preparazione. Si dice soltanto che, se l’epistéme e gli immutabili sono forme di dominio, la volontà di potenza non può non accompagnarsi alla fede nel divenire, in quanto strumento per dominarlo.

Pertanto, in una atmosfera sempre più cupa e simile al "crepuscolo degli dei" della mitologia germanica, Severino sentenzia che la storia dell’Occidente non è che la storia della forma estrema della volontà di potenza e della continua evocazione e distruzione dei suoi idoli: gli immutabili. Così, in una sola formula, abbiamo la spiegazione di tutto: il succedersi di religioni e rivoluzioni, di totalitarismi trascendenti ed immanenti: tutto si chiarisce, tutto è figlio della alterazione e della dimenticanza del senso dell’essere.

E Severino è il profeta di questa tragedia, il giudice di questo errore, lo scienziato di questa patologia masochista dell’Occidente.

Punto decimo. La storia dell’Occidente è la storia della continua distruzione della propria tradizione; ma la forza che distrugge la tradizione è l’essenza stessa della tradizione, cioè la volontà di dominio sul divenire Presa in questa fatale contraddizione, la cultura dell’Occidente va incontro a una distruzione inevitabile. Eppure, paradossalmente, l’Occidente non è consapevole delle ragioni che lo spingono, senza sosta, a dar mano a una tale opera di distruzione, perché è totalmente immerso nel senso greco del divenire. La lotta contro la tradizione gli si presenta come un semplice fatto (teoricamente reversibile) e non come una necessità inevitabile.

Critica. Il millenarismo della rappresentazione severiniana tocca il culmine. La distruzione della tradizione è una realtà inevitabile, e l’Occidente è tanto cieco da non essersi nemmeno reso conto che, lottando per distruggere la tradizione, esso vuole, in realtà, distruggere gli immutabili, che creano una fatale antinomia con la realtà visibile del divenire. L’ultima forma del dominio assunto dagli immutabili è quella scientifica, ma non vi è motivo di pensare che essa sarà più durevole di quelle che l’hanno preceduta.

Esiste, tuttavia, la possibilità che l’Occidente esca dal vicolo cieco in cui si è messo: tornando al pensiero greco prima di Socrate e Platone; riscoprendo l’eterno apparire della verità dell’essere, aperto al sopraggiungere dell’accadimento; riscoprendo, infine, la terra come la totalità dell’accadimento, che sopraggiunge nel cerchio eterno della verità dell’essere.

Vogliamo concludere queste brevi riflessioni citando un giudizio del teologo tedesco Elmar Salmann nel suo libro Contro Severino. Incanto e incubo del credere (Piemme, casale Monferrato, 1996, pp. 14-18), che ci sembra riassumere alcuni aspetti essenziali dell’opera di Emanuele Severino.

Il primo impatto con la scrittura di Emanuele Severino può risultare traumatico, allucinante. Non mancheranno i lettori che si troveranno come accerchiati da una noia vertiginosa come invischiati in un paesaggio monocolore e attanagliati dalle forbici di un senso scontroso di polemica. Un autore monotono, ossessivo, martellante, eppure vi è un che di avvolgente, la forza stregante di un pensiero pagano, arcaico che ti fa sentire la vanità confortante di ogni errare, perché sei già da sempre a casa – e fuori corso. Non scapoli dallo scapolare della verità e dell’essere (…)

Un impatto strano e sconvolgente: ci si imbatte in un mare di scritti tanto numerosi quanto monotoni, tutti nati e sorretti da un unico pensiero tanto profetico quanto tecnico, insieme vicino e nemico al cristianesimo, alla tradizione dell’occidente che viene contestata, anzi respinta senza mezzi termini. Un pensiero che rigetta tutto ciò di cui vive – a nome di che cosa? Strana situazione: ci si trova di fronte ad un pensiero del tutto impersonale, monocolore e per questo unico, originale e stantio allo stesso momento; ossessionato, oppresso e sostenuto da una idea, una prospettiva: la medesimità dell’Essere, meglio della Verità che compare in ogni soggetto e pensiero, perfino in ogni errore, nella sua apparente negazione, perché l’essere non può essere negato, ma deve e può apparire, non è nient’altro che la forza limpida e soave, non violenta del presente che si rappresenta in ogn-uno. Come si vede, piuttosto una visione che non un pensiero, una visione "parmenidea" che risale alle sorgenti fittizie e mitiche dello spirito, ad un mondo che esiste a monte e prima di ogni corruzione, di ogni dialettica, di ogni divenire, previo ala nascita della mentalità occidentale che avrebbe poi devastato quella presenza che il pensare severiniano intende custodire come il fuoco di quel forno presso il quale già Eraclito intuiva la presenza degli dei. Torniamo al fondo del pozzo dei tempi, dove non c’è più tempo, ma solo l’istante dell’apparire e dello scomparire dei momenti del medesimo. (…)

Il lettore non iniziato ne rimarrà letteralmente esterrefatto e trasecolato.; gli vengono tolte le solite coordinate di spazio e tempo., del suo orientarsi nel mondo. Incontriamo un pensiero tetro, remoto, profondamente ferito dalla violenza spudorata del niente, dalla dialettica del divenire, da tutte le concezioni del mondo che pensano l’essere come emerso dal nulla e votato al niente. Un pensiero che non sopporta l’idea di produzione, creazione, distruzione. Ad un tale occhio, per una tale sensibilità, le dialettiche platoniche, le intuizioni del cristianesimo (creatio ex nihilo) e tutte le forme ibride che si sono create tra entrambi sono inammissibili, mistificazioni del nulla e nella violenza. E non possono non sfociare nelle ideologie devastatrici del nostri secolo [n. b., il Novecento]: la politica delle diverse chiese (cattolicismo, fascismo, capitalismo e marxismo) e della tecnica che li domina tutti: i termini ultimi e infii di una lunga storia della dimenticanza e della rimozione dell’essere, dell’oblio fatale della tautologia di ogni esistenza che è. (…)

Ciu si imbatte in un pensiero ferito e fiero, insofferente nei confronti di tutta la storia occidentale. Davanti agli occhi spaventati e conici (o profetici) di Severino, tutto precipita nella bolgia della fugacità e caducità di un evoluzionismo annichilante: idealismo e materialismo, lo stesso cristianesimo, Heidegger e Nietzsche, Spinoza e Hegel, tecnica e vita sociale. Un pensiero e una scrittura martellanti, perentori; un visionario, un vate esasperato. Parla a nome della Verità che rimane inafferrabile eppure si presta in e ad ogni momento. E per questo ci sfugge. E smonta i meccanismi del mondo occidentale che gli sembra essere un orologio che non lascia spazi all’evento dell’essere, pur avendo la pretesa di averlo compreso e definito. Insomma, un vate e un orologiaio travolto dal mistero buio del fiume dei tempi. (…)

Ahimé, se Severino avesse almeno una punta di quella malinconia e di quell’umorismo che nascono dalla chiarezza della intuizione poetica…

E, invece, ci scontriamo con l’ultimo dei vati della modernità, un Nietzsche e un Heidegger redivivo che denuncia anche loro di cadere vittime dell’oblio dell’essere. Strana gara di pensatori radicali che si superano a vicenda. Che delirio e che sbadiglio. Si ritengono pensatori e sono in verità per molti versi attori, registi, attori e spettatori di un dramma mitologico che loro stessi hanno inventato e messo in scena. Ci si imbatte in uno scrittore che difende il mito della tautologia dell’essere nell’evento permanente dell’apparire e dello scomparire in ogni cosa per via e a furia di una fiumana infinita di opere polemiche, ripetendo senza sosta le stesse accuse e ribadendo la stessa verità immane e imminente. ha soltanto una idea e due direzioni di pensiero: attende l’essere e contesta la storia occidentale, l’idea del divenire come la viviamo e la concepiamo noi. Come si può affrontare un tale autore, uomo, pensatore, insieme visionario e orologiaio, che proprio in quanto martellante, preciso e univoco risulta infine sfuggente, generico ed equivoco?…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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