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Travaglio interiore e visione salvifica nelle Confessioni di S. Agostino

Le «Confessioni» di S. Agostino sono una delle opere di più sconcertante modernità che l’antichità ci abbia lasciato."

"Esse sono innanzitutto l’analisi del travaglio interiore che dopo una giovinezza dissipata è sfociata nella conversione; il titolo stesso – «Confessiones», cioè confessione dei peccati e lode a Dio- sottolinea il carattere ambivalente di questa autobiografia: l’autore, nel ripercorrere il suo passato, si rivolge direttamente a Dio per glorificarne la misericordia, che ha avuto ragione della sua protervia nel peccare.

"Agostino stese le «Confessioni»nei primi anni del suo episcopato, tra il 397 e il 398. Cioè molto dopo la conversione, che era avvenuta nel 386. Lo spunto gli venne dalla necessità di rispondere a quanti lo criticavano per il suo passato manicheo, ma la complessità dell’opera è tale che solo un motivo per più profondo può averla ispirata. Egli stava entrando nell’età di mezzo re da un anno era assorbito dai nuovi compiti richiesti dalla propria assunzione alla cattedra vescovile di Ippona. L’ottimismo iniziale della sua conversione era scomparso di fronte alla difficoltà dei compiti imposti dalla milizia cristiana. L’ideale ascetico di una vita da trascorrere nella meditazione era stato accantonato e Agostino era diventato, come egli stesso dichiara, un uomo «profondamente impaurito dal peso dei propri peccati». Le diverse prospettive che gli si affacciavano, nel quadro di questo intenso travaglio interiore, richiedevano perentoriamente un riesame di quella parte del proprio passato che era culminata nella conversione. Ecco quindi il tono di ansioso ripiegamento sui propri anni trascorsi e sulle possenti emozioni di allora, che le necessità del presente hanno allontanato ma non distrutto e che ancora traspaiono al di là dei nuovi sentimenti scaturiti dalla professione vescovile."

B. Gentili- E. Pasoli- M. Simonetti

«Storia della letteratura latina», Bari, 1979, p. 456

Dei tredici capitoli che formano le Confessiones, composte verso il 397-98, i primi nove costituiscono l’autobiografia vera e propria, culminante nella conversione e, qualche tempo dopo, nella morte dell’amatissima madre Monica, che venne sepolta ad Ostia. Gli ultimi quattro sono, in effetti, libri di filosofia, nei quali S. Agostino tocca alcuni dei temi più ardui del pensiero umano, dal mistero della memoria, al mistero del tempo, alla creazione dal nulla, alla bontà divina. Si tratta di un’opera fortemente strutturata ma, al tempo stesso, originalissima: si può dire che Agostino abbia creato un nuovo genere letterario, che non esisteva nelle culture antiche (né in quella greca né nella latina); e in quel genere il suo libro è rimasto insuperato, perché né il Secretum di Petrarca, né le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau, né altre opere moderne dello stesso genere l’hanno uguagliata in potenza e vigore drammatico. Inoltre, così come nessun autore prima di Agostino aveva scandagliato il mistero della propria anima con una tale profondità e sistematicità, con una tale assoluto sforzo di sincerità e di verità, così nessuno è stato capace di fondere armoniosamente il racconto autobiografico, e sia pure prevalentemente di una biografia interiore, con pagine di altissima meditazione filosofica e spirituale.

N: B: Ci serviamo, per la citazione dei passi di S. Agostino, della traduzione di carlo Vitali nell’ormai classica edizione delle Confessioni a cura di una fra i massimi conoscitori di questo Autore e dell’età sua, Christine Mohrmann (Milano, Rizzoli, 1958, 1975).

LIBRO PRIMO

La prima parte del primo libro (capitoli I-V) è una parte a sé: si apre con una lode ed invocazione a Dio, fra le più solenni e commoventi che mai siano state scritte, e prosegue con una riflessione sul mistero del rapporto fra l’anima e Dio. In effetti, per Agostino Dio è nell’anima e l’anima in Dio; ma Dio è anche presente in tutto l’Universo, che pure non lo può contenere, poiché Egli è infinito: sgomenta solo il fatto di parlarne, eppure, guai a quelli che non parlano di Lui! L’uomo non è altro che un continuo anelito verso il suo Creatore: anelito che sarebbe vano, se non venisse soccorso dalla Sua infinita misericordia.

"Grande sei, o Signore, degno di somma lode; grande è la tua potenza, senza limiti la tua sapienza. L’uomo vuol Cantare le tue lodi, l’uomo, particella della tua creazione, che porta seco il peso della sua natura mortale, del suo peccato, la certezza che Tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, particella della tua creazione, vuol cantare le tue lodi. Tu lo sproni, affinché gusti la gioia del lodarti, poiché ci hai creati per Te e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in Te. Dammi grazia, o Signore, di conoscere appieno se prima ti si debba invocare o lodare; se la conoscenza di Te debba precedere l’invocazione.

"Ma chi ti invoca se prima non ti conosce? Chi non ti conosce potrebbe invocare una cosa per un’altra. O non piuttosto ti si invoca per conoscerti? Ma «Come si invocherà colui in cui non si crede? E come si può credere senza qualcuno che ti faccia conoscere?» «Loderanno il Signore coloro che lo cercano». Cercandolo, infatti, lo troveranno, e, trovatolo, lo loderanno.

"Signore, io ti cercherò invocandoti, e ti invocherò credendo in Te, poiché Tu ti ci sei fatto conoscere. Te chiama la fede che mi desti, la fede che mi inspirasti per il tuo Figliuolo incarnato, per il ministero del tuo banditore."(…)

"Forse che il non amarti è piccola calamità? Ahimé! Per la tua misericordia, mio Signore e mio Dio, dimmi che cosa sei per me. Dillo all’anima mia: «Io sono la tua salvezza». Così, così dillo, che io intenda. L’orecchio del mio cuore è qui, davanti a Te: aprilo e ripeti alla mia anima: «Io sono la tua salvezza». Verrò correndo dietro tal voce e ti raggiungerò. Non nascondermela la tua faccia! Morirò pur dio vederla, affinché io non muoia! Angusta casa è l’anima mia perché ti possa accogliere: e Tu amplificala. Cade in rovina, e Tu riparala: lo confesso, lo so. Ma chi altri potrebbe mondarla? A chi altri se non a Te alzerò la mia voce: «Purificami, Signore, dai miei peccati occulti, e tieni lontano il tuo servo dai peccati altrui»."

Inizia il racconto della vita di s. Agostino, con uno sforzo supremo per strappare il ricordo dei primissimi mesi di vita, quando le tenebre dell’inconsapevolezza offuscano le facoltà e la memoria retrospettiva. Ma subito, fin da questa prima pagina autobiografica, vi è una netta prevalenza della riflessione sul mistero di Dio, creatore sapiente di ogni essere vivente. Poi una domanda inquietante: prima di nasce fui qualcosa, fui qualcuno? Domanda troppo ardua, e destinata a rimanere senza risposta. Non resta che rendere gloria a Dio, che nella sua infinita bontà contiene ogni cosa e la conduce all’esistenza (cap. VI). Questo andamento meditativo, che intreccia e sovrappone continuamente i due piani del ricordo personale e della riflessione filosofica e teologica, sarà caratteristico dell’intera opera.

Fin dalla più tenera infanzia, Agostino non trova nel bambino – e quindi in sé stesso bambino – che miserie, capricci e tendenza alla prevaricazione: lacrime per ottenere qualcosa, volontà di colpire con violenza chiunque gli si opponga. E tuttavia il tono prevalente non è di condanna o disprezzo per le debolezze della natura umana, ma di confidente e stupita ammirazione per la generosità del soccorso divino, della divina sapienza che volge al bene ogni cosa. Infine Agostino rinuncia a tentare di ricostruire gli anni della primissima infanzia: che rapporto vi è tra essi e il presente, se il ricordo di essi è totalmente caduto dalla memoria? Uno psicanalista freudiano non sarebbe certamente d’accordo con una tale affermazione; e, poiché la cultura contemporanea è largamente permeata di freudismo, ecco che le Confessioni entrano subito in urto con un aspetto importante della odierna concezione della vita. Eppure avevamo parlato di assoluta modernità di quest’opera di S. Agostino. In realtà, non c’è contraddizione: un’opera non è "moderna" perché asseconda tutte le tendenze (e magari le mode) della cultura dei nostri giorni, ma perché rispecchia le inquietudini e il senso di sdoppiamento dell’io che caratterizzano la modernità: quel duplice io che vuole, allo stesso tempo, cose contrastanti, e che si sente lacerato e infelice perché ha smarrito il senso della propria unità originaria.

Alla prima infanzia segue la puerizia, caratterizzata dalla pronuncia delle prime parole (cap. VIII), dal gioco e dai primi castighi corporali, inflitti dal maestro – all’uso romano – perché il piccolo Agostino amava la palla più dei libri (cap. IX). Qui l’Autore svolge una breve riflessione sulle incongruenze dell’educazione, incentrata sulla retorica che insegna l’arte del parlare ornato, ma somministra agli alunni vuote storielle mitologiche (cap. X). Guarito da una grave malattia, Agostino viene preparato a ricevere il battesimo che, però, viene differito. Qui ci vengono presentati i genitori: la madre, credente e tutta rivolta all’educazione cristiana del bambino; e il padre che, pur essendo ancora pagano, lascia fare: figura secondaria, mentre a giganteggiare è, sin da ora, Monica, presentata come esempio perfetto di madre cristiana (cap. XI). Crescendo, l’amore di Agostino per lo studio non aumenta: gli adulti ve lo costringono, e fanno bene; ma il suo cuore è ribelle (cap. XII). È pur vero che i metodi educativi dell’epoca, e specialmente l’assiduo insegnamento dei poemi classici, allontanano da ciò che importa nella vita, che è essenzialmente scoprire e amare Dio: ma proprio a quelle cose il piccolo Agostino si appassiona. S’incanta e sogna davanti alle peregrinazioni di Enea nel Mediterraneo, leggendo l’Eneide di Virgilio; mentre detesta con tutte le sue forze la matematica (cap. XIII).

Segue una acuta osservazioni pedagogica. Da piccolo, Agostino adorava la lettura di Virgilio tanto quanto aborriva quella di Omero; probabilmente, egli osserva, per i bambini sarà la stessa cosa, quando vengono costretti a studiare il latino, come lui lo era a studiare il greco (cap. XIV).

"La difficoltà, proprio la difficoltà di imparare a fondo una lingua straniera aspergeva per così dire di fiele la greca soavità di quei racconti fantastici. Non intendevo nessuna di quelle parole e mi si stava addosso senza pietà, con gravi minacce e castighi, affinché le imparassi. Anche del latino, da bambino, non ne conoscevo punte, eppure le appresi con la sola attenzione, senza paura delle battiture, anzi fra le carezze delle nutrici, gli scherzi del sorriso, l’allegria dei compagni di giuoco. Le imparai senza essere gravato dall’incubo di castighi, stimolato invece dal mio intimo ad esprimere i miei concetti: il che non avrei potuto fare se non avessi preso familiarità con alquante parole, non dai maestri, ma da tutti quelli che parlavano; e nelle loro orecchie alla mia volta io partorivo quello che era in me.

"Di qui appare chiaro che ha maggiore efficacia, nell’apprendere, una curiosità volontaria che non una costruzione intimidatoria…"

Dopo aver rivolto un’ardente preghiera a Dio, perché quanto di buono ha appreso nell’infanzia sia ora volto al suo servizio (cap. XV), Agostino si scaglia di nuovo contro i metodi d’insegnamento basati sulle opere classiche: da essi il fanciullo impara a vedere nelle divinità (Giove, Giunone, ecc.) continui esempi di passioni sfrenate e carnali, ciò che lo allontana irrimediabilmente da una retta comprensione del divino (cap. XVI). Egli non se la prende, si badi,, contro il contenuto di verità di quelle storie: già Cicerone, più di quattro secoli prima, le aveva messe in ridicolo, affermando che solo le vecchiette superstiziose vi prestavano ancora fede; ma contro il pernicioso influsso che quegli esempi compiaciuti di libidine e di violenza non potevano non esercitare nell’ambito, di per sé tanto delicato (perché non sorretto dalla capacità di giudizio critico) della vita morale del fanciullo. Vano è anche, sul piano strettamente pedagogico, un insegnamento basato quasi interamente su vane esercitazioni letterarie, dove si acquista la padronanza delle parole ma non delle cose (cap. XXVII); e inutile è lo sfoggio della retorica che, per di più, allontana dalla contemplazione della verità, ossia del divino (cap. XVIII).

Contro la tesi di una innata innocenza infantile, poi, l’Autore evidenzia in modo addirittura impietoso le colpe e i difetti propri dell’infanzia. Rievocando la sua infanzia, difatti, egli trova che pur di vincere nei giochi, non esitava a ricorrere all’inganno; e, se veniva scoperto, passava alle mani: proprio lui che era così sollecito nel denunciare il comportamento scorretto degli altri. Inganno, falsità, violenza, egoismo: ecco emergere tutti i difetti che, nel bambino, si notano di meno che nell’adulto solo perché, pensiamo noi, si esercitano in una sfera meno "seria" e perché generalmente vengono scusati dal non raggiunto possesso della ragione (cap. XIX).

"Codesta dunque l’innocenza infantile? No, Signore, no, mio Dio, essa non esiste. Perché queste frodi che si cominciano con pedagoghi e maestri, o per noci, palline e passerotti, coll’andar degli anni sono proprio le stesse che si tendono ai governatori, ai re, e che hanno per oggetto oro, poderi, schiavi: così come la sferza cede il posto a castighi più gravi"

Da ultimo Agostino leva un rendimento di grazie a Dio, Signore e Creatore dell’universo, che attira tutti gli esseri verso la verità che in Lui risiede.

LIBRO SECONDO

Amaro è il ricordo dell’adolescenza, anche se mitigato e addolcito dalla consapevolezza della infinita grazia divina (cap. I).

"Voglio ricordare le turpitudini del mio passato e la corruzione carnale della mia vita; non già che le ami, ma per amar Te, o mio Dio. Per amor del tuo amore mi accingo a rievocare il mio cammino nelle vie del peccato, ricordo pieno di amarezza, affinché Tu mi colmi della tua dolcezza, dolcezza non fallace, dolcezza felice e sicura…"

La forza degli istinti ribolle nell’animo di Agostino giovinetto, la sua natura di africano sensuale ed eccitabile lo sospinge versi i piaceri materiali della vita. Egli ha ben sintetizzato l’elemento fondamentale della sua indole con la sua famosa frase: «Una sola cosa mi sorrideva: amare ed essere amato». All’età di sedici anni, Agostino cade nella lussuria, nell’indifferenza degli adulti, preoccupati solo di fare di lui un oratore elegante e di successo (cap. II).

In quell’anno lascia Madaura, dove aveva iniziato gli studi e ritorna dai suoi nella natia Tagaste, per prepararsi a un soggiorno di studio a Cartagine, "suggerito più dall’ambizione che non dalle possibilità economiche di mio padre, modesto cittadino di Tagaste". Il periodo trascorso in famiglia nell’ozio temporaneo rinfocola le inquietudini e le disordinate passioni del ragazzo; il padre se ne accorge, ma invece di impensierirsene, se ne compiace, "quasi già rallegrandosi dei nipoti futuri". Nemmeno la madre, cristiana ancora piuttosto tiepida, mostra di preoccuparsene, ad esempio suggerendogli di avviarsi al matrimonio (cap. III). Segue il racconto del famoso furto notturno delle pere. Può sembrare – e a molti è sembrato – eccessivo il tono di esecrazione con cui Agostino rievoca quell’episodio della sua adolescenza; ma abbiamo già visto che, per lui, i vizi e i difetti dei piccoli non sono che l’anticamera di quelli, ben più terribili (e tuttavia idealmente analoghi) che caratterizzano il mondo degli adulti. Inoltre, Agostino indugia con particolare contrizione su quel furto di pere, in apparenza di poco conto, perché ne vuole sottolineare il carattere di assoluta gratuità, in quanto non motivato nemmeno dalla tentazione della gola: si trattò, dunque – egli conclude – di un atto malvagio per eccellenza, in quanto originato unicamente dal piacere di infrangere la legge morale (cap. IV).

"Dopo aver protratto il gioco, secondo la nostra pessima usanza, fino a tarda ora nelle piazze, nel cuor della notte la trista combriccola di noi ragazzacci si recò a scuotere quell’albero e a depredarlo: e ne portammo via un gran carico, non per mangiarne a sazietà, se pur ne assaggiammo, ma per darne in pasto persino ai maiali: nostro unico piacere fu di fare ciò che non era lecito, perché ciò ci piaceva.

"Eccolo, il mio cuore, o Dio, ecco il mio cuore, ecco quel mio cuore che ti ha mosso a pietà dal fondo dell’abisso. Ti dica ora questo mio cuore che cosa lo movesse ad essere cattivo senza alcun vantaggio, a non avere una ragione di malizia se non la malizia stessa. Torbida malizia: ed io la amai; amai la mia rovina, amai la mia caduta; non ciò per cui cadevo, ma proprio la caduta; io, anima malvagia che mi sradicavo dal tuo fermo sostegno per la mia rovina, non correndo dietro ad alcunché con disonestà, ma alla disonestà per se stessa."

L’episodio delle pere serve ad Agostino anche per sviluppare una riflessione di tipo quasi socratico, e cioè che, nel fare il male – ossia nel peccato – l’anima cerca un bene, ma lo cerca sregolatamente e nelle cose di infimo livello, ossia quelle materiali, distogliendosi dai veri beni e in particolare da Dio, il Bene supremo (cap. V). Nel capitolo seguente Agostino sviluppa e approfondisce il concetto: le passioni degli uomini li portano verso i beni di grado inferiore, ma quegli stessi beni, elevati alla massima perfezione, sono tutti presenti in Dio: è in Lui, e soltanto in lui, che l’anima può infine trovare quello che oscuramente cerca fra le ombre dei vaneggiamenti terreni, spegnendo quella sete che intimamente lo divora, e che invano cerca di spegnere nella ricerca affannosa e degradante dei piaceri materiali (cap. VI).

"Le carezze dei voluttuosi vogliono amore: ma nulla è più affettuoso del tuo amore, nulla si ama più salutarmente della tua verità, bella e luminosa quant’altre mai.

"La curiosità sprona in apparenza all’acquisto della scienza: Tu sai tutto, in sommo grado. Persino la ignoranza e la stoltezza si velano con il nome di semplicità e di innocenza, perché nulla si può trovare più semplice di Te, e nulla più innocente di Te, come che al malvagio è di danno il suo stesso malfare. L’ignavia vorrebbe tendere alla tranquillità: e quale sicurezza di tranquillità fuor che nel Signore? Il lusso vuole esser chiamato sufficienza e abbondanza; Tu sei la pienezza e la sorgente inesauribile di soavità che non conoscono corruzione.

"La prodigalità prende le apparenze della liberalità; ma Tu possiedi tutto. La gelosia briga per eccellere: chi più eccelso di Te? L’ira cerca la vendetta: e chi esercita la vendetta più giustamente di Te? Il timore si inquieta per ogni avvenimento insolito e improvviso che incombe sulle cose amate, si preoccupa della sicurezza: che cosa è insolita, improvvisa per Te? E chi può dividere da Te ciò che ami? Dove, se non in Te, una salda sicurezza? La cupidigia si rattrista e si consuma per la perdita delle cose che le davano gioia, perché vorrebbe che nulla potesse essere tolto a sé, come a Te.

"In tale modo va fornicando l’anima quando, allontanandosi da Te, cerca fuori di Te obietti che trova puri e limpidi solo ritornando a Te. Coloro che si allontanano da Te, che si ergono contro Te tutti ti imitano disordinatamente. Però anche con codesta forma di imitazione vengono a riconoscere che sei il creatore di tutta la natura e che perciò non esiste luogo in cui l’uomo possa considerarsi in tutto separato da Te."

La grazia divina, riversandosi nell’anima, ha tuttavia il potere di far ravvedere gli uomini, riconducendoli all’Amore che, solo, può appagare ogni loro desiderio (cap. VII). Poi, tornando a riflettere sulle motivazioni di quel lontano furto di pere, Agostino rivede la sua precedente affermazioni: non l’amore del male in sé lo spinse ad agire, ma il piacere di condividere quell’atto con i suoi compagni: da solo, infatti, non l’avrebbe commesso (cap. VIII). Esiste, dunque, una facoltà dell’anima che si definisce come perversa solidarietà nel male: è l’agire in gruppo (in branco, come si usa dire oggi nel gergo giornalistico) che fa scattare la molla di molte azioni malvagie e apparentemente gratuite. Nel gruppo, infatti, viene abolito il principale freno che ci trattiene, di norma, dal commettere cattive azioni: il sentimento della vergogna (cap. IX).

Il secondo libro delle Confessioni, il più breve di tutti, si conclude quindi con una citazione dal Vangelo di Matteo (XXV, 21): «entra nel gaudio del tuo Signore», perché solo in Lui si trova quella gioia piena e pura che invano inseguiamo nei beni terreni.

LIBRO TERZO

Trasferitosi a Cartagine, il giovane Agostino dà sfogo senza ritegno alla sua morbosa ricerca dell’amore, non rendendosi conto di essere affamato, in realtà, di un cibo completamente diverso, un cibo spirituale( cap. I).

"Perciò l’anima mia era inferma, piagata, si gettava al di fuori, miseramente avida di sfregarsi al contatto delle creature sensibili. Ma anch0’esse non le avrei amate se non avessero avuto anima.

"La dolcezza di amare e di essere amato era per me molto maggiore se andava unita al possesso del corpo dell’amante. Inquinavo così la vena dell’amicizia con le lordure della concupiscenza, ne offuscavo il candore con l’alito diabolico della concupiscenza, e, ciò non ostante, sozzo e disonesto qual ero,, nella mia immensa vanità volevo apparire fine e di belle maniere.

"Ed andai a precipizio verso quell’amore di cui bramavo la catena."

Anche un’altra passione afferra il giovane provinciale inurbato, quella per gli spettacoli e specialmente per il teatro (cap. II). A Cartagine prosegue brillantemente i suoi studi di retorica, mosso dall’ambizione di diventare un grande avvocato; intanto, però, è attratto e anche un po’ spaventato dalla sfrenata turbolenza degli altri studenti, ai quali si unisce più per non sfigurare che per intima convinzione (cap. III). Si tratta di una turbolenza così sfrenata che qualche anno, divenuto insegnante, lo stesso Agostino deciderà di lasciare Cartagine per Roma, alla ricerca di un ambiente più calmo e ordinato. Intanto legge l’Ortensio, opera di Cicerone andata disgraziatamente perduta, nella quale il grande oratore romano difendeva lo studio della filosofia contro l’avvocato suo grande avversario, Ortensio appunto. Quel libro opera uno straordinario influsso sull’animo del giovane studente di Tagaste, influsso che viene descritto con poche, ma efficaci e commosse parole (cap. IV).

"Ebbene, quel libro cambiò la mia mentalità, cambiò anche il tono delle mie preghiere a Te, Signore, cambiò radicalmente le mie aspirazioni e i miei desideri. Di colpo ogni sorta di vane speranze rinvilì; con incredibile ardore di cuore presi a desiderare la sapienza imperitura: e già incominciavo ad alzarmi per far ritorno a Te.(…)

"Come ardevo, mio Dio, come ardevo di spiccare il mio volo dalle cose terrene a Te! Non sapevo quale fosse la tua azione su me: poiché «in Te risiede la sapienza».

Per contro, la lettura della Bibbia non produce dapprima, nel giovane africano, un’impressione altrettanto favorevole: la durezza dello stile, a paragone dell’eleganza ciceroniana, lo allontana (cap. V). A quell’epoca, ardente di una religiosità ancora confusa, Agostino si avvicina alla religione dei manichei, di cui subisce profondamente l’influenza (da cui, per certi aspetti, non li libererà forse mai del tutto, anche se condurrà poi una durissima polemica contro di essi). Tuttavia, per adesso, non ci dà molti particolari di quella fase della sua vita; si diffonde invece a compiangere lo smarrimento della sua anima, paragonandola al Figliuol prodigo della parabola evangelica (cap. VI). Poi ricorda che, se per i manichei il Male è un principio sostanziale che si contrappone al Bene, in realtà esso non è che una ignoranza del vero Bene, e non ha una consistenza propria: dottrina che avrebbe sviluppato compiutamente più tardi e che ha dato luogo a infinite discussioni e polemiche. È un fatto che Agostino, qui, per reazione al dualismo manicheo sembra essere più vicino alla concezione neoplatonica che a quella cristiana ortodossa, secondo la quale l’esistenza di un polo negativo e demonico, anche se non originario (come volevano i manichei), è parte integrante di una compiuta prospettiva dogmatico-teologica. Del resto, vi sono stati studiosi (come Prosper Alfaric, nella sua monografia su S. Agostino del 1918) che hanno negato che egli si sia convertito al cristianesimo nel 386 quanto piuttosto al neoplatonismo; e che solo in seguito egli sia passato definitivamente al cristianesimo, ma solo perché vi ritrovava gli elementi essenziali insegnati nelle Enneadi di Plotino, filosofo che continuò ad ammirare per tutta la vita. Sia come sia, non è questa la sede per approfondire una questione di tanto peso; ci accontentiamo di avervi accennato, rimandando il lettore desideroso di approfondire la questione agli studi specifici di Becker, di Scheel, di Thimme, di Alfaric e del celebre Alfred Loisy.

In ogni modo, ad Agostino appare chiaro che i criteri della giustizia divina divergono da quelli della giustizia umana, e di ciò non si può evitare di tener conto quando si affronta il problema del Male da un punto di vista teologico (cap. VII). Tuttavia, se il giudizio umano – fuorviato dalle apparenze – può errare nel giudicare ciò che gli appare una cattiva azione, e magari non essere tale agli occhi di Dio, da ciò non deriva alcun relativismo etico. Esistono comunque delle azioni che sono intrinsecamente peccaminose, quali – ad esempio – le pratiche dei sodomiti, davanti alle quali Agostino non esita ad affermare che «anche se tutto il genere umano le commettesse, tutto il genere umano sarebbe reo di codesto crimine» (cap. VIII): e questo, almeno, è un parlare chiaro.

"Ma quando Iddio comanda qualche cosa contraria ad usi o istituzioni di chicchessia, anche se essa in quel determinato luogo non sia mai stata fatta, si deve fare; se è andata in disuso si deve rinnovare; se non è mai stata stabilita si deve stabilire (…) Come infatti nella distribuzione dei poteri nella società umana il potere più elevato ha diritto all’obbedienza del subordinato, così Dio a quella di tutti."

E questo è un passo che sarebbe piaciuto (e quasi certamente è piaciuto) a Sören Kierkegaard, in particolare al Kierkegaard di Timore e tremore, tutto preso dal mistero che emana dall’ordine assurdo (umanamente parlando) che Dio rivolge ad Abramo di sacrificare il suo unico, amatissimo figlio Isacco, sul Monte Moriah.

"Ciò vale anche per le colpe il cui movente è la deliberata volontà di fare il male agli altri o con ingiustizia, o con violazione di diritti. E l’uno e l’altro può aver luogo sia per motivi di vendetta, come fa l’avversario all’avversario, sia per cupidigia di un bene indebito, come il brigante con il viaggiatore; sia per evitare un male, come si fa ad uno che ci è causa di timore; sia per invidia – il misero verso il più fortunato o il bene arrivato verso colui che non vuole veder suo pari, oche si contrista di veder tale, sia per il solo compiacimento del male altrui, come gli spettatori delle lotte dei gladiatori, i motteggiatori, i mistificatori degli altri."

Vi sono poi dei peccati che sono tali solo in apparenza: Agostino ribadisce il concetto che il giudizio umano è spesso inadeguato, ed erra sia quando condanna, sia quando loda, perché altro può essere il giudizio di Dio, che sa vedere nel mistero dell’anima (cap. IX). Segue una ulteriore puntata contro i manichei che, per la verità, ha più l’aria di un colpo basso: giocando un po’ sul concetto manicheo di "cibo spirituale" destinato a liberare la sostanza spirituale contenuta negli alimenti, Agostino poco generosamente mette in caricatura questo aspetto delle loro credenze, deridendo ciò in cui aveva creduto (cap. X).

Il terzo libro è chiuso da due episodi che creano un’atmosfera carica di attesa. Il primo è un sogno della madre Monica che sembra chiaramente alludere a un cambiamento di vita da parte di suo figlio, se non a una vera e propria conversione (cap. XI).

"Sognò infatti che se ne stava ritta in piedi su di un’assicella e che uno splendido giovane le veniva incontro lieto e sorridente, mentre essa si consumava nella tristezza della desolazione. Egli le chiese la cagione di quella sua mestizia e di quel suo piangere continuo; non che avesse bisogno di sentirselo dire, ma come succede, per aver modo di dirle quanto voleva. Avendo ella risposto che piangeva la mia rovina, egli volle che si riconfortasse, esortandola a ben notare ed a vedere che là dove era ella mi trovavo anch’io. Ed ella riguardò e vide che io le stavo accanto sulla stessa assicella."

Il secondo episodio riguarda la profezia di un vescovo, al quale Monica si era rivolta per convincerlo ad avere un colloquio con Agostino nel quale confutare i suoi errori e allontanarlo, così, dall’influenza dei manichei. Al che il sant’uomo rispose:«Lascia che se stia così; solo, prega il Signore per lui; studiando, troverà da sé la natura e l’empietà di quegli errori». E aveva concluso dicendole: «Vattene pure; così tu possa vivere a lungo, come è certo che il figlio di codeste lagrime non può andar perduto».

LIBRO QUARTO

Il quarto libro si apre con l’inizio dell’insegnamento a Tagaste, ove Agostino è rientrato da Cartagine. Continua a frequentare i manichei, anzi è divenuto "uditore": ora, quel periodo della sua vita gli appare come una dolorosa serie di errori (cap. I).

"Per tutto il corso di quei nuove anni – dal diciannovesimo al ventottesimo – fui insieme sedotto e seduttore, ingannato e ingannatore in ogni genere di passioni; pubblicamente con l’insegnamento delle così dette scienze liberali, occultamente con la pratica di una falsa religione ;là superbo, qui superstizioso, vano in entrambi i casi; da una parte correvo dietro al miraggio della gloria popolare, fino agli applausi da palcoscenico;, fino alle gare poetiche, alle dispute per corone di fieno ,alle insulsaggini di spettacoli, ad ogni sregolatezza di passioni; dall’altra, anelando di purificarmi da quelle bassezze, ero tutto zelo nel portare ai così detti "Santi" ed "eletti" i cibi dai quali nell’officina del loro stomaco potessero fabbricarci angeli e dèi, mezzi della nostra liberazione. E ci credevo, e compivo tali pratiche: io e gli amici con me o da me ingrulliti."

Inoltre, in quel periodo Agostino si lega con una donna, non maritalmente, tuttavia con costante fedeltà e affetto, dalla quale avrà un figlio, Adeodato. Ricorda anche uno strano episodio, allorché uno stregone gli offrì la vittoria in una gara di poesia da tenersi in una teatro, se avesse acconsentito a praticare un rito di magia nera, nel quale sarebbero stati sacrificati degli esseri viventi. Egli aveva rifiutato con orrore (cap. II); il fatto, ad ogni modo, ci dice quanto fossero diffuse le arti magiche nel tardo Impero Romano, e quanto l’ambizione divorante di Agostino dove essere ben nota ai suoi concittadini; altrimenti, quel personaggio non avrebbe osato rivolgersi a lui per offrirgli i suoi sinistri servigi. Non rifiuta, invece, di affidarsi ai responsi degli astrologi, cui anzi ricorre volentieri; solo più tardi l’autore delle Confessioni giungerà alla conclusione che il sapere dell’astrologia è vano e fallace, poiché in contrasto con la libertà di scelta dell’uomo (cap. III). Notiamo di sfuggita che in altro modo giudicherà l’astrologia il seguente millennio, durante il quale i massimi esponenti della cultura, Dante compreso, crederanno fermamente all’influsso operato dagli astri sul cosiddetto mondo sub-lunare; e tale sarà la convinzione prevalente fino a tutto il Rinascimento, non sentita in contrasto con i dogmi del cristianesimo, ed insegnata presso diverse università europee.

Poi Agostino racconta il dolore provato per la perdita di un giovane, del quale ignoriamo anche il nome, ma al quale si era legato di profonda (cap. IV); mentre per la morte del padre suo, Patrizio, che alfine si era convertito alla religione della moglie, non dice una parola. Dopo aver riflettuto sulla dolcezza che il pianto offre nei grandi dolori, ai quali offre un sollievo (cap. V), ricostruisce quell’epoca della sua vita, osservando come lo avesse invaso un profondo smarrimento, mescolato a un senso di estrema precarietà di ogni cosa umana, davanti alla cieca violenza della morte, nonché a uno strano piacere nell’abbandonarsi alla disperazione.

"Ero infelice, ed infelice è sempre l’anima avviluppata dall’amore delle cose mortali; lacerata quando le perde, sente la miseria da cui è affetta anche prima di perderle.. Tale ero io in quel periodo di tempo; piangevo amarissimamente e nell’amarezza mi riconfortavo. Infelice, sì; eppure quella misera mia vita mi era ancor più cara dell’amico; cambiarla, certo, avrei voluto, ma non perdere lei piuttosto dell’amico, e non so se avrei acconsentito, anche per lui, a quello che si racconta di Oreste e di Pilade, se pure è vero, che volevano morire l’uno per l’altro, insieme, perché non vivere insieme per essi era peggio che morire. Ma non so quale sentimento in opposizione di quello, era nato in me; un profondissimo tedio della vita e la paura della morte. Quanto più lo amavo, tanto più lo odiavo e temevo come il più crudele nemico la morte che me lo aveva rapito ,e mi pareva che essa dovesse portarsi via di colpo tutta l’umanità, posto che aveva potuto portarsi via lui. Tale era il mio stato d’animo: e ben l’ho presente."

Per confortarsi di quella perdita, Agostino cerca l’amicizia di altri compagni (cap. VIII); indi scrive una delle più alte pagine sul significato della vera amicizia, che consiste nell’amare l’altro non per se stesso, ma in Dio (cap. IX). Ogni bene terreno, infatti, è caduco ed effimero: cercando le cose per se stesse, anche le più belle, non si fa altro che inseguire il dolore; mentre è in Dio, creatore di ogni bellezza terrena, che l’animo nostro può trovare ciò di cui veramente è assetato (cap. X). Dopo aver rivolto una esortazione alla propria anima, perché rivolga tutta se stessa a Dio, sede della vera pace e della perfetta letizia (cap. XI), Agostino afferma che l’amore dei bei corpi può rivolgerci dalla bellezza materiale a quella spirituale e di lì, infine, alla Bellezza divina: un ragionamento di pretta impronta platonica, e che certo sarebbe piaciuto – e forse piacque, se lo lesse – al S. Francesco del Cantico delle creature. Con questa differenza, però, rispetto a Platone: che la bellezza materiale non rimanda a un’Idea perfetta e totalmente separata dal mondo, ma che proprio nella bellezza delle cose terrene noi possiamo percepire la presenza del divino, che non si ritrae da esse, ma vi permane in tutto il suo fulgore. Il mondo, pertanto, non viene retrocesso a pallido e illusorio riflesso di una realtà trascendente, ma promosso al rango di luogo per eccellenza della ierofania, ossia della rivelazione del sacro.

"Se ti piacciono i copri, trai motivo da essi per lodare Iddio, e riporta l’amore sul loro autore, perché tu non gli dispiaccia negli esseri che piacciono a te. Se ti piacciono le anime, amale nel Signore, perché anch’esse sono mutabili e solo fissandosi in lui acquistano stabilità; diversamente sene andrebbero in rovina. Siano dunque amate in Lui, trascinane a Lui teco quante vuoi, e di’ loro: «Lui, lui amiamo: Egli ha fatto codeste creature, né è lontano perché, dopo averle fatte, non si è ritirato da esse, ma, fatte da Lui, sono in Lui. Ecco dove egli sta: , ecco dove la verità si insapora. È nel profondo del nostro cuore ma il cuore si è sbandato, lontano da lui. Ritornate al cuore, prevaricatori; stringetevi a Lui che vi ha creati,. Tenetevi a Lui e avrete stabilità; riposate in Lui e avrete riposo. Dove andate, dove andate per luoghi scoscesi? Il bene che voi amate viene da Lui, e quanto si rapporta a Lui è buono, è dolce, ma può giustamente diventare amaro, se si abbandona Lui e si ama disordinatamente quello che procede da Lui. Dove tende questo vostro ostinato camminare per strade difficili e faticose? Non è là dove lo cercate il riposo. Cercate pure quello che cercate; ma esso non è là dove lo cercate. Cercate la felicità della vita nelle regioni della morte: non è là. Come potrebbe esservi vita felice dove non si trova nemmeno la vita?»."

Segue un passo stupendo sul mistero dell’Incarnazione, visto come l’evento salvifico che ha riportato la vita nel regno della morte, ribadendo il carattere di trionfo della vita sulla morte che sta al cuore del messaggio cristiano. Sono parole ispirate, che ricordano le pagine più potenti di san paolo; e, infatti, culmina con una citazione dalla Prima lettera a Timoteo (I, 15).

"Egli, la vita nostra, è disceso quaggiù; si è preso la nostra morte, la uccise nella sovrabbondanza della vita, e con voce di tuono ci gridò di ritornare di qui a Lui, in quel misterioso recesso da cui prese le mosse per venire a noi nel grembo di una vergine, per la prima volta, dove si disposò con Lui, la creatura umana, carne mortale ,destinata all’immortalità: e di là, «come sposo che esca dal talamo, avanzò qual campione lieto di percorrere la sua via»."

Poi Agostino ci informa che, all’età di ventisei o ventisette anni, aveva composto un’operetta, intitolata De puchro ed apto, che purtroppo è andata perduta (cap. XIII); e d’averla dedicata a un celebre oratore di origine siriana da lui non personalmente conosciuto, tale Jerio, che dopo aver primeggiato nell’eloquenza greca, aveva riportato altrettanti trionfi nell’uso di quella latina (cap. XIV). Quanto al contenuto, l’autore delle Confessioni compie una piena autocritica, poiché in quel libretto non era ancor giunto a distaccarsi da una concezione immanentistica dell’estetica (cap. XV). Più in generale, Agostino lamenta che, a quell’epoca, egli stava facendo un cattivo uso della sua intelligenza. A soli vent’anni aveva già letto e studiato le Categorie di Aristotele; e inoltre sai era formato, senza difficoltà, una vasta cultura che spaziava dalla retorica, alla dialettica, alla geometria, alla musica e alla matematica (circa quest’ultima, evidentemente, aveva superato l’antipatia della fanciullezza); ma vagava ancora lontano dalla verità più importante, quella delle cose divine (cap. XVI).

LIBRO QUINTO

Il quinto libro si apre con un inno di lode a Dio (cap. I) e prosegue con la riflessione che Egli è sempre vicino a noi, anche quando noi crediamo di allontanarcene (cap. II). Quindi Agostino si lancia in un duro atto di accusa contro la superbia e la cecità di quelli che allora si chiamavano filosofi naturali e che noi, oggi, chiamiamo scienziati. Non è la loro scienza che viene condannata, anzi, il Nostro ha parole di ammirazione per i risultati raggiunti dal loro sapere; ma è condannata la loro pretesa di fondare una scienza autosufficienze, chiusa in sé stessa e resa superba dalle sue conquiste, senza riconoscere il legame necessario esistente fra Dio e il mondo. Si tratta di un passo di notevole attualità, che il lettore moderno dovrebbe meditare alla luce degli effetti che il predominio dell’apparato tecno-scientifico esercita sulle nostre vite e sui nostri modi di pensare; un passo (come quello dell’Ulisse dantesco lanciato nel suo "folle volo" verso l’ignoto) che non si deve leggere in un’ottica oscurantistica ma, al contrario, nella sua straordinaria forza profetica, come un monito e un necessario grido di avvertimento.

"I superbi non Ti trovano, anche se la loro perspicace curiosità è riuscita a contare le stelle e l’arena, a misurare le plaghe del cielo, a seguire la via degli astri. Con la forza dell’intelligenza e dell’intuizione che Tu donasti loro essi compiono tali ricerche; e fecero scoperte, e annunziarono molti anni prima le eclissi del sole e della luna, indicandone il giorno, l’ora, se totali o parziali: i loro calcoli non li hanno tratti in errore: avvenne proprio come avevano preannunciato. Misero in iscritto le leggi trovate che si studiano anche oggi, e da esse si può fare il calcolo in quale anno, in quale mese dell’anno, in quale giorno del mese, in quale ora del giorno e in quale misura avverranno le eclissi della luna o del sole: e tutto si verificherà a puntino. Quelli che non hanno simili cognizioni rimangono meravigliati, quasi instupiditi; i dotti ne gioiscono, si gonfiano d’orgoglio; la stolta superbia li allontana ed eclissa loro la Tua gran luce: vedono in anticipo l’oscuramento del sole e non vedono il loro ,proprio e presente, perché non si domandano piamente donde venga l’intelligenza che li guida in codeste scoperte; e anche se arrivano a capire che Tu sei il creatore, non si affidano a Te per la conservazione del tuo operato; non vogliono sacrificare a Te il loro ‘io’, né annientare i loro infatuamenti svolazzanti a guisa d’uccelli, le loro investigazioni che a guisa di pesci scendono nelle vie segrete degli abissi, né la loro lussuria che li fa simili alle bestie irragionevoli: affinché Tu, fuoco divoratore, riduca in cenere le loro passioni di morte per ricrearli ad una vita eterna."

Agostino trae la conclusione che la scienza umana è vana, se non è accompagnata da un giusto rapporto fra l’uomo e Dio; insensato è colui che «sa misurare i cieli e contare le stelle e pesare gli elementi, ma poi trascura Te che a tutto hai prestabilito misura, numero e peso» (cap. IV).

Dopo aver deplorato gli errori della dottrina di Mani nella scienza astronomica (cap. V), il Nostro rievoca il suo incontro con il vescovo manicheo Fausto, che descrive come uomo garbato e ottimo parlatore, ma non più profondo né più veridico quanto alla sostanza del suo insegnamento (cap. VI). Agostino, peraltro, gli riconosce volentieri alcune buone qualità, prima fra tutte l’umiltà: infatti, quando gli sottopone i suoi calcoli matematici che contrastavano con la dottrina manichea, Fausto non vuole addentrarsi in tale materia, ammettendo la sua inadeguatezza a livello scientifico: non era come quegli altri "venditori di fumo", ma un uomo retto, purtroppo invischiato nell’errore della sua religione (cap. VII).

È a questo punto che Agostino, retore promettente e seguace già in crisi del manicheismo, decide di partire da Cartagine per recarsi a Roma, spinto a un tale passo non dalla speranza di maggiori guadagni o di una fama più vasta, ma dal desiderio di sottrarsi alla turbolenza degli studenti della metropoli africana, per lavorare in un ambiente più calmo e sereno (cap. VIII). Siamo nel 383 e la partenza avviene di nascosto dalla madre Monica; su di essa, crediamo, influisce anche la delusione profonda riportata dall’incontro con Fausto, dal quale sperava di veder sciolti i suoi dubbi crescenti. È come se, tagliandosi i ponti alle spalle e gettandosi a capofitto in una nuova vita, egli stia cercando inconsciamente una nuova certezza cui aggrapparsi, qualche cosa in cui credere fermamente dopo aver fatto il vuoto delle sue precedenti sicurezze.

Il viaggio non sembra compiersi sotto una buona stella: appena giunto a Roma, Agostino è colpito da una grave malattia che lo spinge sull’orlo della morte; né si preoccupa, come invece aveva fatto, in analoghe circostanze da bambino, di ricevere il battesimo. Ma Dio non vuole che giunga la sua ora prima che lui sia riuscito a trovarLo, né che la povera Monica riceva una così dolorosa ferita, prima di aver avuto la gioia di vedere il figlio tornare alla vera religione (cap. IX). Durante la malattia, il Nostro si è consolato pensando, d’accordo con la dottrina manichea, che non l’uomo pecca con la sua libera volontà, ma un qualche cosa d’oscuro che si trova dentro di lui, e in qualche modo da lui distinto; sicché, se morisse, la sua anima potrebbe affrontare il gran passo libera da ogni peccato. Eppure la dottrina manichea, ormai, non era più in grado di soddisfarlo, e proprio per il dualismo in essa esplicitamente affermato (cap. X).

"Mi pareva sconveniente in modo assoluto credere che Tu avessi l’aspetto di un corpo umano, limitato e definito da contorni materiali come le nostre membra. E siccome quando volevo pensare alla divinità non riuscivo che a fissarmi su masse corporee – a mio modo di vedere non esisteva altro che non fosse tale -, ero tratto all’inevitabile errore da questa principalissima e quasi unica ragione.

"Di qui la mia idea fissa che anche il male fosse una sostanza di quello stesso tipo, e avesse una sua massa oscura e informe, in parte densa, ed era la terra, in parte tenue e sottile, come un corpo aereo: a detta loro, uno spirito maligno che va strisciando su quella terra. E poiché il mio sentimento religioso, di qualsiasi natura fosse, mi costringeva ad ammettere che un Dio buono non poteva aver creato una natura cattiva, mettevo le due masse in opposizione tra loro, infinite entrambe ma la cattiva in forma più angusta, la buona più ampia; pestilenziale premessa da cui derivavano blasfeme conseguenze."

Certo, ricordando che una delle ragioni che spingono Agostino a scrivere le Confessioni sono proprio le critiche malevole di quanti non sono disposti a perdonargli facilmente il suo passato di manicheo militante, si può comprendere ora la sua insistenza nel prendere radicalmente le distanze dalla loro dottrina; salvo poi, quando sarà nel pieno fervore della polemica contro l’ottimismo antropologico propugnato dal pelagianesimo, ricadere in una visione assai cupa dell’umanità, "massa dannata" che nulla potrebbe, con le sue sole forze, per innalzarsi verso la luce della grazia. Comunque, egli descrive con sincerità questa fase di trapasso della sua vita, quando ondeggiava fra le dottrine manichee, che sempre meno soddisfacevano le esigenze della sua anima, e quelle cattoliche, verso le quali lo trattenevano ancora numerosi dubbi e pregiudizi (cap. XI).

La situazione del giovane insegnante, appena giunto nella vecchia capitale dell’Impero, non è delle migliori; oltretutto, vive nel timore di essere truffato dai suoi discepoli, secondo le sregolate consuetudini del tempo (cap. XII). Così, quando un anno dopo – nel384 – viene messo a concorso un posto di docente di retorica a Milano, egli ricorre ai buoni uffici del praefectus Urbi, Simmaco – un pagano convinto -, e lo ottiene; il viaggio nella nuova capitale, peraltro (Milano era la capitale dell’Occidente dai tempi della tetrarchia dioclezianea), gli offre l’opportunità di avvicinare per la prima volta la figura carismatica del vescovo cattolico di quella città, S. Ambrogio, energico oppositore delle tendenze filo-ariane della corte occidentale. Agostino, peraltro, in un primo momento è attratto dalla sua eloquenza, più che dai contenuti della sua predicazione; ma almeno è inizio di avvicinamento al cristianesimo (cap. XIII). In quel momento, per una esigenza di onestà intellettuale, egli decide di staccarsi dai manichei; non è ancora l’inizio della conversione, quanto un temporaneo rifugio nello scetticismo allora prevalente nella scuola accademica, ove raccogliersi in sé stesso, in attesa di ulteriori decisioni. (cap. XIV).

LIBRO SESTO

È ormai l’anno 385: Monica, rimasta vedova, raggiunge il figlio a Milano per stargli vicino e per sostenerlo nel cammino verso la fede. (cap. I). La religiosità della madre è così pura e docile alla guida spirituale di Ambrogio, che egli sene compiace più volte col figlio (cap. II). Agostino, nonostante i cordiali rapporti instauratisi col vescovo di Milano, vorrebbe rivolgersi a lui per avere chiarimenti dottrinali, ma ne è impedito dal pochissimo tempo che quegli ha a disposizione, preso com’è dai mille impegni pratici relativi alla gestione della sua diocesi (cap. III). Lo trattiene anche una sporta di orgoglio, poiché gli pesa dover ammettere di aver seguito per tanti anni le dottrine dei manichei, che ora giudica quantomeno incerte (cap. IV). In compenso si dedica con rinnovata energia allo studio delle Sacre Scritture; e, se essa gli avevano fatto un tempo una cattiva impressione per la loro oscurità, ora la lettura gli riesce molto più facile e persuasiva, tanto che cadono in lui una serie di radicati pregiudizi (cap. V). Intanto continua a riflettere sulla patetica ricerca della felicità, che gli uomini conducono inseguendo beni fallaci e, in particolare, il successo, cui li spingono l’ambizione e il desiderio di onori. Infatti, poco dopo aver pronunciato il panegirico in onore dell’imperatore Valentiniano II (allora quattordicenne, e per questo, probabilmente, "pieno di falsità", come lo definisce ora, nelle Confessioni, il suo autore), Agostino osserva un mendicante ubriaco che pare aver raggiunto quella pace dell’animo cui vanamente le persone sapienti aspirano in tutto il corso della propria vita; episodio del tutto secondario, ma che lo lascia a lungo pensieroso (cap. VI).

A Milano egli ha presso di sé due buoni amici, Nebridio e il giovane Alipio, un suo ex studente dei tempi di Cartagine; e sappiamo quanto valore abbia per Agostino il sentimento dell’amicizia; vorremmo dire che, nell’antichità latina, solo in Cicerone ne troviamo un senso altrettanto forte, come di un nutrimento vitale dell’anima. Alipio rimane così impressionato da un discorso del suo vecchio insegnante, che decide di rinunciare per sempre ad assistere agli spettacoli del circo, dei quali era un grande appassionato (cap. VII): vivido esempio di quella riforma dei costumi, operata dalla nuova morale d’ispirazione cristiana, che culminerà, ai primi del V secolo, con l’abolizione definitiva dei ludi gladiatori per opera di un editto dell’imperatore Onorio. Uno scrittore contemporaneo, l’americano Lewis Mumford, nel suo libro La condizione dell’uomo, ha scritto pagine esemplari circa lo sfrenato sadismo, la morbosa eccitazione sessuale e la forte carica anti-educativa cui gli spettacoli del circo avevano assuefatto le masse romane. Non è quindi cosa di poco conto la dissuasione dal parteciparvi che la visione del mondo propria del cristianesimo ha operato sulle plebi urbane della tarda romanità, raggiungendo quell’obiettivo che solo poche menti illuminate, come Seneca, avevano vagheggiato a suo tempo: bonificare la palude delle passioni più basse e violente, a favore di una concezione della persona umana basata sulla sua intrinseca dignità e sul suo fine trascendente.

Famosa, e degna di un grande scrittore, è la pagina in cui Agostino descrive il meccanismo psicologico mediante il quale una persona mite e di indole profondamente buona, come il giovane Alipio, era stata presa e inconsapevolmente trascinata a una vera e propria forma di dipendenza dai sanguinosi spettacoli dell’anfiteatro (cap. VIII).

"(…) Alipio mi aveva preceduto a Roma per studiare il Diritto; ed ivi fu travolto contro ogni credenza e in una misura incredibile dalla passione per gli spettacoli dei gladiatori. Ne aveva avuto dapprima disgusto e odio; ma alcuni amici e compagni di studio un giorno tornando dal pranzo imbattutisi in lui, per quanto opponesse forte resistenza, con amichevole prepotenza, lo trascinarono nell’anfiteatro: era un giorno di quegli spettacoli crudeli e malvagi. Egli badava a dire: «Forse che trascinando e costringendo il mio corpo a rimanere in quel luogo credete di poter costringere anche il mio animo ed i miei occhi a quello spettacolo? Vi sarò, ma come un assente, ed avrò vittoria di voi e di esso». Ma non ostante questa affermazione, gli amici lo trascinarono seco, forse anche punti dal desiderio di fare la prova della sua forza d’animo.

"Quando vi arrivarono e trovarono modo di mettersi a sedere, tutto già respirava inumana voluttà. Alipio, chiuse le porte degli occhi, inibì al suo animo di prender parte a quegli orrori. E almeno avesse chiuso anche le orecchie! Ad un certo istante del combattimento un immenso urlio del popolo lo fece sussultare: vinto dalla curiosità e come pronto, di qualunque cosa si trattasse, a disprezzare ed a vincere anche la vista, aperse gli occhi e l’anima sua fu colpita da una ferita più grave di quella ricevuta nel corpo dal gladiatore che per un istante aveva voluto guardare: e cadde ben più miseramente di quelli la cui caduta aveva provocato tale clamore: entrò nelle sue orecchie gli fece sbarrare gli occhi, sicché si formasse una breccia attraverso la quale fosse ferito e abbattuto quell’animo più temerario che forte, tanto più debole in quanto cercava in sé stesso la forza che avrebbe dovuto cercare in Te. Vedere quel sangue e imbeversi di crudeltà fu tutt’uno: non ne distolse gli occhi, anzi ve li fissò; respirava furore senza accorgersene, prendeva gusto a quella lotta criminale, ebbro di sanguinario piacere. Non era più quello che era venuto, ma uno della plebaglia tra cui era venuto e degno compare di quelli che ve lo avevano condotto. che più! Guardo, gridò, si entusiasmò; se ne venne via portando seco una febbre che lo spinse a tornarvi non solo con quelli che ve lo avevano trascinato, ma primo di essi, trascinatore di altri.

Poi Agostino si diffonde nei particolari di una accusa di furto, dalla quale Alipio esce scagionato quasi per miracolo, episodio che serve a mostrare tutto il candore e l’ingenuità di questo suo amico (cap. IX). Più significativo l’episodio in cui Alipio, prima di trasferirsi da Roma a Milano, sfida le ire di un potente senatore che vorrebbe il placet ad una azione illegale del comes sacrarum largitionum, del quale Alipio è appunto il segretario. Ci viene presentato anche l’altro amico carissimo di Agostino nel periodo milanese della sua vita, Nebridio, col quale divide i travagli spirituali di una ricerca sempre più intensa e angosciosa della verità (cap. IX). Il passo seguente, nel quale Agostino descrive i travagli della sua anima lacerata fra le vecchie certezze manichee, ormai quasi del tutto crollate, e l’aspirazione a una più intima e profonda verità, è anch’esso giustamente famoso come esempio delle capacità d’introspezione psicologica dell’Autore (cap. X); sicuramente è una delle pagine che più avranno ispirato Francesco Petrarca nella composizione del Secretum, non solo per lo stile ma anche per l’andamento dialogico tutto interiorizzato, fra Agostino e l’anima sua insistentemente interrogata (cap. XI).

Agostino, all’epoca, progetta di contrarre matrimonio; non con la madre di Adeodato, che è stata allontanata, ma con un’altra fanciulla; è convinto di non poter vivere lontano dall’amplesso femminile, perché ignora che la forza della castità non viene dalla volontà umana, ma dal rivolgersi dell’anima a Dio (cap. XII). È specialmente Monica che si dà da fare per concludere il fidanzamento, convinta che sia per il bene del figlio, e la scelta cade su una giovinetta cui mancano ancora due anni per raggiungere l’età del matrimonio (cap. XIII). Intorno ad Agostino si è formato un gruppo di amici, una decina di persone unite da comunanza di ideali e stile di vita che, per un momento, accarezzano l’idea di mettere le finanze in comune e ritirarsi dal mondo, dandosi a vita comunitaria; ma il progetto sfuma per la difficoltà di conciliarlo con lo stato matrimoniale di alcuni di essi, prima ancora di essere tradotto in pratica (cap. XIV).

Quanto ad Agostino, i due ani di attesa prima delle nozze gli sono troppo gravosi ed egli si prende un’amante, vinto dalla debolezza della carne: di tutti questi particolari ci parla con estrema franchezza, in un modo che non ha esempi nella letteratura classica, neanche nel genere epistolare (cap. XV).

"E intanto i miei peccati andavano moltiplicandosi; strappata dal mio fianco come un ostacolo al matrimonio, la donna che mi era stata compagna di vita, il mio cuore, che le era molto legato, rimase straziato come da una ferita e dava sangue. Ella era ritornata in Africa facendo voto a Te di rinunziare per sempre all’uomo, e mi aveva lasciato il figliolo naturale che io avevo avuto da lei.

"Ed io, miserabile, che non riuscivo ad imitare una donna, insofferente dell’attesa, poiché solo fra due anni avrei avuto quella che avevo richiesto, ed ero non tanto attaccato all’idea del matrimonio quanto schiavo dei miei sensi, me ne procurai un’altra, non già come moglie, per alimentare, quasi, l’infermità della mia anima, per trascinarmela ininterrotta o aggravata dalla custodia di una ostinata abitudine fino alla conquista della sposa. Ma la ferita inflitta dallo strappo precedente non si rimarginava, anzi, dopo bruciori e dolori acutissimi incancreniva; poi il dolore divenne quasi più cupo ma più disperato."

Il libro si chiude con un inno di lode al Dio della misericordia e con la commossa rievocazione delle fervorose discussioni con Alipio e Nebridio circa l’immortalità dell’anima e il destino ultimo dell’essere umano (cap. XVI).

CAPITOLO SETTIMO

Il libro settimo si apre con il ricordo di come Agostino immaginava la divinità: immaginazione ancora mista di elementi vagamente panteistici, come se Dio fosse contenuto nelle varie parti dell’Universo (cap. I). Dopo aver nuovamente deprecato l’assurdità della concezione manichea della divinità (cap. II), egli ricorda che la sua mente, allora, si travagliava soprattutto intorno alle cause del male, dato che Dio è il Sommo Bene e che non esiste un principio delle tenebre a Lui contrapposto, che giaccia sul suo stesso piano ontologico (cap. III).

"E mi studiavo di veder chiaro quello che mi si ripeteva: essere nel libero arbitrio la causa del male che facciamo, , nella rettitudine del tuo giudizio la causa del male che dobbiamo sopportare: ma quel veder chiaro non mi riusciva facile: e se tentavo di spingere la mia mente fuori dell’abisso, mi vi sprofondavo di nuovo: e a tentoni rinnovati seguivano rinnovate cadute. Mi teneva però sollevato verso la tua luce la certezza di avere una volontà, forte come quella della mia esistenza.

"Così dunque sapevo con sicurezza che, quando volevo o non volevo qualche cosa, ero proprio io che volevo o non volevo: e già affiorava in me l’idea che qui stava la causa del mio peccato: e sentivo anche che il fare qualche cosa a mio malgrado era piuttosto patire che agire: questo non lo chiamavo una colpa, bensì un castigo, ed ero tratto a confessare senz’altro che ero colpito giustamente, sapendo Te giusto.

"Ma di nuovo mi domandavo: «Chi mi ha fatto? Non fu il mio Dio, che non solo è buono, ma è la Bontà stessa? Donde, allora, in me il volere il male, il non volere in me il bene? Forse perché ci fosse materia a un giusto castigo? Chi ha posto in me, chi ha fatto di me un semenzaio di amarezza, se io tutto quanto sono l’opera del mio dolcissimo Signore? Se il diavolo ne è il responsabile, donde viene il diavolo stesso? Che se anche lui il traviamento della volontà ha trasformato da buon Angelo in demonio, donde venne anche in lui quel malvolere per cui diventò diavolo, se l’angelica natura tutta quanta fu creata da un creatore ottimo?"

Pur tormentato da tali dubbi, Agostino ha raggiunto almeno un punto fermo: l’incorruttibilità di Dio, che, essendo il Bene supremo, sfugge a ogni forma di corruzione (cap. IV). Ma il problema del male continua a riempirlo di dubbi ed incertezze.

"Ma io mi domandavo: «Eccolo, il Signore: eco tutto quello che Iddio ha creato: e Iddio è buono, immensamente più grande di tutte queste cose; ed essendo buono, le ha create buone, ed ecco, vedi come le abbraccia, come le riempie. E allora dove sta il male, donde e per dove si è strisciato fin qui? Quale la sua radice, quale i il suo seme? O forse non esiste nemmeno? Ma allora perché dovremmo temere quello che non esiste o guardarcene?"

Poi Agostino ci narra di come abbia abbandonato definitivamente la credenza nell’astrologia, dopo che un amico di nome Firmino, venuto da lui per farsi fare l’oroscopo (cosa che il Nostro esegue, pur avvertendolo essere quelle pratiche vano: segno, comunque, che all’astrologia doveva aver creduto quanto basta per saperla praticare), gli narra il caso della sua nascita. Nello stesso momento in cui egli è nato, è nato anche il figlio di una schiava dell’amico di suo padre: dunque, dovrebbero avere lo stesso destino; invece l’uno è cresciuto da gran signore, l’altro è rimasto schiavo e figlio di schiavi. E lo stesso avviene per i gemelli: sono questi i fatti e i ragionamenti che hanno distolto per sempre Agostino dalla credenza nell’astrologia (cap. VI).

L’apparente insolubilità del problema del male, comunque, procura ad Agostino momenti di estrema difficoltà intellettuale e spirituale, tanto da spingerlo a citare il Salmo XXXVII, 9 sgg.: «i ruggiti del mio cuore dolorante arrivavano tutti al tuo orecchio, il mio desiderio ti era chiaro, ma la luce dei miei occhi non era meco» (cap. VII). Dio, però, non è lontano dall’anima angosciata di Agostino, e già si prepara a soccorrerlo (cap. VIII):

Segue una curiosa confutazione della dottrina neoplatonica quasi per mezzo delle stesse parole con cui inizia il Vangelo di Giovanni, relative al mistero dell’Incarnazione: «Al principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio…» (cap. IX). Probabilmente Agostino sceglie questa strana linea di attacco per meglio stigmatizzare la superbia della filosofia pagana, che vede nel mistero dell’Incarnazione una intollerabile umiliazione del Figlio di Dio, giungendo così a eliminare per absurdum la dottrina della Redenzione; forse anche ad essi va riferita la pagina precedente (libro quinto, capitolo terzo) in cui si era scagliato contro i filosofi "gonfi di superbia".

Così, pur venendo da una formazione culturale sostanzialmente pagana e imbevuta di neoplatonismo, grazie alla lettura della Bibbia e specialmente delle Epistole di S. Paolo, finalmente Agostino giunge ad acquisire la prima intuizione dell’essenza spirituale di Dio, primo significativo passo avanti nella sua febbrile ricerca religiosa (cap. X). Da lì, egli perviene a comprendere la natura del rapporto che lega le cose terrene al loro Creatore(cap. XI).

"Volsi allora il mio pensiero a tutte le cose che sono sotto di Te e vidi che esse hanno l’esistenza, ma non in senso assoluto; non hanno l’esistenza, pure non in senso assoluto. L’hanno, in quanto sono opera tua; non l’hanno, in quanto non sono quello che sei tu. Esiste nel vero senso della parola solo ciò che immutabilmente permane."

Ed ecco che anche la natura del male comincia a chiarirsi alla mente del Nostro: proprio quel problema che più di ogni altro lo ha affaticato e messo in seria difficoltà.

"Ormai mi risultava anche evidente che le cose soggette a corruzione hanno un certo grado di bontà; esse infatti non si corromperebbero se fossero il sommo bene, ma anche non potrebbero corrompersi se non avessero qualche bontà: insomma se fossero il bene perfetto sarebbero incorruttibili, se non fissero in parte buone, non ci sarebbe l’elemento della corruzione.

"La corruzione porta seco un danno, e, se non c’è perdita di bene, non c’è danno. Dunque, o la corruzione non nuoce, il che è una contraddizione, o è certissimo che tutto ciò che si corrompe subisce diminuzione di bene. Se poi le cose ne saranno private del tutto,, non esisteranno nemmeno: perché, se esistono e non possono subire oltre privazione di bene, saranno migliori di prima, sfuggite ormai alla corruzione. Ora, quale peggiore assurdo di dire che con la perdita di tutto il bene sono diventate migliori?

"La totale privazione del bene dunque significa inesistenza, e, viceversa, l’esistenza suppone il bene.

"Ma allora tutto ciò che esiste è buono, e il male, quel male di cui cercavo l’origine, non è sostanza, perché se fosse sostanza sarebbe un ben: o sostanza incorruttibile, e sarebbe un grande bene; o corruttibile, e quindi buona in quanto può perdere bontà.

"Così mi apparve con chiarezza che Tu hai fatto tutte le cose buone e che inoltre non esistono sostanze che non siano state fatte da Te. Ma non le facesti tutte uguali, perciò in quanto esistono sono tutte buone, e, nel loro complesso, ottime perché il nostro Dio «ha creato tutto in perfezione»."

Tutto il creato, allora, canta le lodi di Dio (cap. XIII), e «non hanno la mente sana coloro ai quali non piace qualche parte della tua creazione»: com’è appunto il caso dei manichei, che nel mondo vedono il principio del Male (cap. XIV). Bellissimo, e di grande profondità teologica, è il brano in cui Agostino descrive le cose come esistenti nello spazio e nel tempo, quasi raccolte nella mano di Dio (cap. XV).

"Mi rivolsi poi a considerare le altre cose e vidi che da Te hanno il loro essere e in Te la loro limitazione, non come in un luogo, ma molto diversamente, poiché Tu le racchiudi tutte nella verità, come in una mano, e, in quanto esistono, sono tutte vere, né si ha falsità se non quando si crede che esista ciò che non esiste.

"E vidi pure che le cose non solo si accordano ciascuna con il proprio luogo, ma anche con il proprio tempo, e che Tu, il solo Eterno, non hai incominciato ad operare dopo incalcolabili periodi di tempo, perché i periodi di tutti i tempi, i passati e i futuri, non andrebbero e non verrebbero, se Tu non operassi, eternamente stabile."

Tutte le cose, dunque, sono tanto più in armonia, quanto più si avvicinano al loro Creatore; e tanto più in contrasto, quanto più se ne allontanano. Il Male non ha una vera consistenza ontologica, è solo il frutto di un allontanamento della volontà da Dio; e Agostino lo chiarisce con una immagine plastica dalla notevole forza drammatica (cap. XVI).

"Mi domandai che cosa fosse la malvagità: e trovai non una sostanza, ma il traviamento della volontà dalla somma sostanza, da Te, o Dio, volontà ripiegantesi su ciò che vi è di più basso, gonfiata al di fuori sotto la spinta delle sue interiora."

Questa tendenza delle cose a trovare in Dio la loro perfezione e a derivare la loro imperfezione dall’allontanamento da Lui determina l’eterno conflitto tra la carne e lo spirito (cap. XVII). Si noti peraltro che tutta questa parte, teologicamente molto bella ed efficace, è di pretto stampo neoplatonico, tanto che potrebbe essere stata scritta benissimo da un Ammonio Sacca, da un Plotino o da un Giamblico.

Quel che ancora tiene Agostino lontano dalla rivelazione piena della verità, è ancora l’orgoglio intellettuale che gl’impedisce di essere umile: e solo con l’umiltà è possibile trovare Dio (cap. XVIII). Anche un altro punto gli impedisce di riconoscere la verità: le incertezze e gli errori che continua a nutrire nei confronti del dogma dell’Incarnazione. Se il Figlio di Dio si è fatto uomo, in quanto uomo è stato soggetto ad una natura mutevole, il che non si concilia in alcun modo con la perfetta stabilità della natura divina: questo è il nodo che ancora non riesce a sciogliere, accettando l’idea di Cristo che è al tempo stesso vero Dio e vero uomo (cap. XIX). D’altra parete, l’assidua lettura dei testi neoplatonici lo ha ormai familiarizzato con l’idea di una verità incorporea, che si può conoscere per mezzo delle cose create (cap. XX). Perciò, quando da esse procede ad immergersi nella lettura di san paolo, la rivelazione gli appare ormai vicinissima; nelle lettere dell’Apostolo egli ritrova tutte le verità che la filosofia greca ha insegnato, e in più l’esaltazione commossa della grazia divina (cap. XXI).

LIBRO OTTAVO

Anche l’ottavo libro si apre con una preghiera a Dio, e, subito dopo, con il rammarico per il fatto che le lusinghe della carne ha ritardato così a lungo il momento, per Agostino, di spiccare il volo verso il porto felice della fede (cap. I).

Recatosi a trovare Simpliciano, padre spirituale del vescovo Ambrogio, Agostino gli narra il suo travaglio interiore e gli dice di aver letto alcuni testi platonici, tradotti dal greco in latino da Vittorino. Simpliciano se ne compiace, poiché li reputa quelli che più di tutti suggeriscono un’idea esatta di Dio e del Verbo; poi, avendo conosciuto personalmente Vittorino, ne narra la conversione al cristianesimo, avvenuta in tarda età; racconto che colpisce fortemente Agostino, che vi vede un’analogia con la propria situazione, e che sarà – insieme ai colloqui con Nebridio e alla lettura di S. Paolo, uno dei fattori decisivi della sua stessa conversione (cap. II).

"Come raccontò Simpliciano, egli leggeva la santa Scrittura, faceva studi accuratissimi e approfonditi sulle opere degli autori cristiani, e diceva a Simpliciano, non in pubblico ma segreto e amichevolmente: «Sappi che io sono ormai cristiano». E l’altro rispondeva: «Non potrò crederlo, né ti conterò tra i cristiani, se non quando ti avrò veduto nella chiesa del Cristo». E quello, motteggiando, diceva: «Son dunque i muri che fanno cristiani?», e ripeteva spesso di essere già cristiano, e Simpliciano replicava allo stesso modo, ma Vittorino ritornava sulla facezia dei muri. In realtà egli aveva timore di inimicarsi quei suoi amici superbi adoratori di demoni, e si aspettava che dalle vette della loro boria babilonica, come da cedri del Libano non ancora schiantati dal Signore, sarebbero ruinate su di lui gravi inimicizie. Ma quando dalla assidua lettura aspirò come da fauci aperte la fermezza, e temette di essere rinnegato da Cristo davanti ai santi angeli se temeva di confessarlo davanti agli uomini, si riconobbe grandemente colpevole di arrossire dei misteri d’umiltà del tuo Verbo e di non arrossire dei riti sacrileghi dei superbi demoni da lui, superbo imitatore, accolti; cessò di vergognarsi di fronte alla vanità, arrossì di fronte alla verità, e improvvisamente, senza che si potesse pensarlo, disse a Simpliciano, come questi narrava: «Andiamo alla chiesa; voglio farmi cristiano». E quegli, che non capiva più in sé per la gioia, ve lo accompagnò. Non appena istruito nelle prime verità di fede, Vittorino fece tosto richiesta di essere rigenerato nel battesimo. Roma ne fu meravigliata, la chiesa esultante. I superbi fremevano vedendolo, digrignavano i denti e se ne struggevano; ma il servo tuo aveva posta la speranza nel Signore Iddio, e non si rivolgeva a guardare vanità e pazze menzogne.

"Quando poi giunse il momento della professione di fede – che a Roma gli aspiranti alla tua grazia sogliono fare a un luogo eminente, davanti a tutto il popolo dei fedeli, con una formula fissa imparata a memoria – i sacerdoti, diceva Simpliciano, avevano fatto la proposta a Vittorino di recitarla in privato, come si usa per quelli che si prevedono esitanti per timidezza; egli però scelse di confessare quello che faceva la sua salvezza alla presenza ella santa folla: quella salvezza 8disse) non si trova nella retorica insegnata da lui, eppure ne aveva fatto professione davanti a tutti; tanto meno doveva vergognarsi di pronunziare le parole tue al cospetto del tuo gregge mansueto, egli non temeva le turbe insensate nelle parole sue? Quando dunque salì per fare la professione tutti quelli che lo conoscevano – e chi non lo conosceva? -, gli uni e gli altri si passarono il suo nome, con non represse voci di compiacimento. E risuonò in tutte le bocche esultanti un mormorio: «Vittorino, Vittorino…». Improvvise furono le voci di gioia al vederlo, ed improvviso il silenzio per ascoltarlo. Egli fece la sua professione di fede sincera con mirabile franchezza, e tutti avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore. Se lo rapivano infatti nell’amore e nella gioia: tali erano le mani di quei rapitori."

Certo, in questo brano famoso vi è un elemento che urta inevitabilmente la nostra sensibilità moderna: l’equiparazione degli dei del paganesimo ai demoni, la demonizzazione della religione della religione pagana morente. Tuttavia bisogna pensare che, se le varie religioni antiche avevano potuto convivere pacificamente nell’Impero Romano, salvo poche eccezioni (come il culto druidico, messo fuori legge dal Senato), il cristianesimo rappresentava un po’ l’eccezione alla regola. Perseguitato a più riprese dal potere statale nell’arco di due secoli e mezzo, ora che era stato legalizzato e si era conquistato una posizione preminente presso le due corti, quella milanese di Valentiniano II e quella costantinopolitana di Teodosio il Grande, era pressoché inevitabile che ripagasse di pari intolleranza i suoi ex persecutori, mettendosi sulla via che avrebbe visto, nel 390, la messa fuori legge di tutti i culti pagani, oltre che delle numerose eresie cristiane (prima fra tutte, l’arianesimo).

Poi Agostino prosegue affermando che più grande è lo stato di peccato dell’anima, tanto maggiore sarà la gioia per la sua conversione (concetto che verrà sviluppato da Alessandro Manzoni ne Il cinque maggio); infatti la conversione di un personaggio famoso funge da esempio per molti, come fu nel caso dello stesso S. Paolo (cap. IV). La narrazione della conversione di Vittorino rafforza in lui il desiderio di imitare quel grande filosofo, ma l’abitudine al piacere dei sensi lo scoraggia e lo mantiene esitante (cap. V).Un altro stimolo potente alla conversione, comunque, viene da un altro amico africano, Ponticiano, personaggio insigne perché funzionario di corte ed anche cristiano fervente. Durante una visita in casa di Agostino, scorge le Epistole di S. Paolo, se ne congratula col padrone di casa e narra un commovente esempio di conversione verificatosi in sua presenza quand’era presso Treviri, in Germania. Due suoi amici, per l’esempio di alcuni santi monaci, di punto in bianco avevano deciso di darsi completamente a Dio; e le loro rispettive fidanzate, saputolo, avevano voluto fare altrettanto. Anche il racconto delle vicende del santo monaco Antonio, ritiratosi in eremitaggio nel deserto, già famoso nella sua terra ma ignoto ad Agostino, colpisce quest’ultimo profondamente (cap. VI).

Tutti questi stimoli e questi esempi provocano in Agostino uno stato di forte turbamento e insoddisfazione di sé, inducendolo a un impietoso bilancio della sua vita spirituale (cap. VII); la sua contraddizione interiore è così forte da indurlo, nel corso di un tempestoso colloquio con Alipio, a mostrare fortissimi segni esteriori di agitazione (cap. VIII). Sente la propria volontà come paralizzata: vorrebbe gettarsi nel grande passo, ma una forza potente lo trattiene: da ciò un’angustia, uno scoraggiamento, una tensione sempre più acuta. Agostino, in questo brano, è stato probabilmente lo scrittore che meglio di tutti, prima di Petrarca, ha messo in luce la scissione dell’anima davanti all’angoscia della scelta; oseremmo dire che la sua modernità risiede in un clima di tipo "esistenzialista" ante litteram, nel senso – a noi familiare dopo Kierkegaard – che ben descrive lo stato di angoscia dovuto alla possibilità della scelta e al dilemma lacerante posto dalla libertà (cap. IX).

"L’anima comanda al corpo ed è immediatamente obbedita: l’anima comanda a se stessa e trova resistenza. L’anima comanda alla mano di muoversi, e tanta è la docilità che ordine ed esecuzione sono quasi simultanei: eppure l’anima è anima e la mano è corpo. L’anima comanda che l’anima voglia. Non si tratta di due cose diverse: e non ubbidisce. Donde codesta stranezza, e perché? Comanda, ripeto, che voglia quella facoltà che, se non volesse, non comanderebbe: e il suo comando non è eseguito.

"Il fatto è che non vuole in modo assoluto; quindi non comanda in modo assoluto. Comanda per quel tanto che vuole, e non è obbedita per quel tanto che non vuole; poiché la volontà comanda un atto volitivo, ma non uno qualunque, bensì quello corrispondente ad essa stessa; cioè, non comanda, in tutta la sua pienezza, perciò l’esecuzione manca. Se comandasse in pieno, non darebbe in realtà un ordine, perché già sarebbe in atto. Non c’è dunque stranezza in questo volere o non volere parzialmente; ma è debolezza dell’anima che non sa sollevarsi del tutto, spinta in alto dalla verità, gravata in basso dall’abitudine. Due sono perciò le volontà, entrambe incomplete: l’una ha ciò che manca all’altra."

Si tratta, però – ribadisce con forza Agostino – di due volontà, non di due anime, come vorrebbero i manichei; l’anima, infatti, è una sola, e liberamente sceglie il male o il bene (cap. X). Segue un altro capitolo di profondo e "modernissimo" scavo psicologico, nel quale l’Autore rievoca lo stato perennemente conflittuale in cui si trovava in quell’epoca della sua vita (cap. XI), merita di riportarne almeno un passo.

"Così, sempre ammalato e tormentato, accusavo me stesso più acerbamente del solito, ravvoltolandomi ancora nella mia fune, finché non si spezzasse completamente: era ormai ben assottigliata, ma pure mi teneva legato. E tu, o Signore, segretamente mi facevi pressione nella tua severità e misericordia, e mi battevi con doppia sferza, la paura e il timore, affinché non mi si lasciasse andare di nuovo e perché quel legame che ancora mi avvinceva, , ormai sottile e liso, invece di spezzarsi del tutto, non riprendesse consistenza per avvilupparmi più strettamente.

"Mi ripetevo nel mio interno: «Subito, subito; bisogna farlo subito»; e già le parole mi avviavano alla decisione, quasi ci arrivavo; e non ci arrivavo; non ripiombavo nelle condizioni precedenti, ma dopo un piccolo sforzo mi fermavo come per riprendere respiro. Nuovi tentativi; la meta si faceva sempre meno, sempre meno distante; già la toccavo, la tenevo in pugno: e non vi ero giunto, e non l’avevo toccata, non la tenevo ancora, irresoluto a morire alla morte, a risorgere alla vita. E più poteva il peggio diventato abitudine del meglio a cui non ero avvezzo; e quell’istante decisivo che avrebbe fatto di me un altro uomo mi incuteva un senso di spavento tanto più profondo quanto più si avvicinava. Però, almeno, non mi respingeva indietro, , non mi faceva deviare; ero come in bilico."

Ed ecco, finalmente – siamo nel386 – la crisi interiore giunge al culmine e all’inevitabile scioglimento: è la famosa scena del tolle et lege, che migliaia di studenti hanno letto e meditato, e che conserva ancor oggi, a millesettecento anni di distanza, un suo fascino particolare e assolutamente inconfondibile (cap. XII).

"Quando infine dalle misteriose profondità del cuore una severa meditazione ebbe spurgata ed ammucchiata davanti alla mia visione interiore tutta quanta la mia miseria, scoppiò una fiera procella apportatrice di un profluvio di pianto. E, per dare libero sfogo ad esso e ai singhiozzi che lo accompagnavano, mi alzai e, poiché la perfetta solitudine mi pareva più adatta al bisogno di piangere, mi allontanai da Alipio quel tanto che mi rendesse non grave la sua presenza.

"Così ero. Ed egli ne ebbe l’intuizione: credo anche di aver detto qualche cosa che tradiva nel suono della voce il nodo del pianto; e così mi ero alzato. Egli rimase là dove eravamo stati seduti, profondamente stupito. Io mi gettai a terra, non so come, sotto un albero di fico, lasciai libero corso al pianto, che proruppe a guisa di torrente dagli occhi, accetto tuo sacrificio. E parlai, parlai a lungo, non proprio con queste parole, ma certo con questi sentimenti: «E Tu,, Signore, fino a quando? Quando, o Signore, avrà fine la tua collera? Oh, dimentica i miei peccati antichi!». Sentivo di essere ancora legato. Mandavo gemiti imploranti pietà: «Fino a quando, fino a quando: domani, domani? Perché non subito? Perché in questo stesso istante non finirla con la mia vergogna?».

"Parlavo e piangevo, gonfio il cuore di amarissima contrizione. Ed ecco dalla casa vicina mi giunge canterellata una voce – di bambino o di bambina, non so – che ripeteva a guisa di ritornello: «Prendi, leggi; prendi, leggi». Di colpo, il volto si muta; e il mio pensiero va ricercando attentamente se quella sia una delle cantilene che i fanciulli sogliono ripetere in qualche loro giuoco; ma non rammento affatto di averla già udita. Frenai il corso delle lagrime, mi alzai, sicuro che quella voce non era altro che un ordine del cielo di aprire il libro e di leggere il primo capitolo che mi capitasse sotto gli occhi. Avevo poco prima sentito raccontare di Antonio che da una lettura del vangelo a cui per caso assisteva, come se fosse stata indirizzata a lui personalmente, aveva ricevuto l’invito: «Va’, vendi tutto quello che hai, distribuisci ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi», che era stato istantaneamente convertito a Te da quella parola divina.

"Pertanto, tutto eccitato, ritornai là dove Alipio stava seduto, e dove avevo posto il volume dell’Apostolo nell’atto di alzarmi. Lo afferrai, lo apersi, e, in silenzio, lessi il primo versetto che mi cadde sotto gli occhi: «Non nella crapula e nell’ubriachezza, non nelle impudicizie del letto, non nella discordia e nell’invidia. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo, e non prendetevi cura della carne nelle concupiscenze» (Rom., XIII, 13-14). Non volli leggere altro, né altro occorreva. Subito, appena finito il versetto, come per una luce rassicurante infusa nel mio spirito, tutte le tenebre dell’incertezza scomparvero. Chiusi allora il libro, tenendovi il dito o non so quale altra cosa come segno, e con volto ritornato sereno ormai del tutto, misi al corrente Alipio. Questi alla sua volta mise me al corrente di quello che si stava svolgendo in lui, del che io non mi ero accorto, in questo modo: volle vedere il brano che avevo letto, ed io glielo mostrai: ma egli pose mente anche più in là di quello che io avevo letto e che ancora ignoravo. Seguivano queste parole. «Se poi qualcuno è debole nella fede, porgetegli la mano». Queste egli applicò a se stesso, e me lo disse. Ma un tale ammonimento servì a confermarlo in quella santa risoluzione che, del resto, era pienamente conforme ai suoi costumi nei quali era tanto e da tanto tempo migliore di me: mi si unì, così, senza alcuna esitazione e senza lotte interne.

"Rientriamo in casa, alla madre: gliene do l’annuncio; ella ne gioisce. Al racconto particolareggiato, esulta come di un trionfo ed innalza benedizioni a Te, «che nel tuo operato vai tanto oltre le nostre richieste e la nostra visuale»; vedeva bene che Tu le avevi concesso nei miei riguardi assai più di quanto soleva chiederti tra gemiti e pianto. Mi avevi infatti così convertito a Te, che io non pensavo più a cercarmi una moglie, né ad altre speranze mondane, saldo in quella regola di fede in cui le ero stato mostrato da Te tanti anni prima. Tramutasti il suo dolore in una gioia ben più intensa di quella che aveva desiderato ,più dolce e più casta di quella che si sarebbe potuta aspettare da nipoti nati dalla mia carne."

LIBRO NONO

Il libro nono si apre con un ringraziamento a Dio che ha atteso pazientemente Agostino fino a che questi è stato in grado di scorgerne la luce; tutta l’opera, del resto, è pervasa da questo profondo sentimento della vicinanza di Dio e della sua provvidenza infinitamente misericordiosa, che si rivolge personalmente a ciascun essere umano e che, pur rispettandone la libertà morale, lo indirizza in ogni maniera possibile verso la pace del ritorno a Lui (cap. I).

La conversione definitiva segna un radicale mutamento nella vita del Nostro. Tutti i suoi precedenti progetti gli appaiono ormai superati dalla nuova, gioiosa realtà della fede, cui vuole dedicarsi interamente, con quello slancio e con quell’ansia di assoluto che sempre aveva caratterizzato ilsuo temperamento. Per prima cosa, decide perciò di rinunciare all’insegnamento: vuota gli appare la retorica di cui si è finora nutrito, che chiama sdegnosamente "mercato di chiacchiere" e non confacente alle sue nuove scelte di vita la professione d’insegnante (cap. II). In un certo senso, a guidarlo non è solo la volontà di rompere con le cose profane per dedicarsi anima e corpo all’ideale di vita cristiano, ma anche la decisione di rompere senza alcun margine di ambiguità con tutta la cultura tradizionale di cui è imbevuto, e che riflette non solo la matrice pagana delle sue concezioni (dalla mitologia alla letteratura, dall’arte alla scienza), ma anche l’esteriorità e la vanità di un progetto di vita tutto incentrato sul successo mondano, sul cursus honorum, sull’ammirazione altrui. Si tratta di far morire l’uomo vecchio e di far nascere l’uomo nuovo, per usare un linguaggio paolino; e, per rendere ciò possibile, nessun compromesso con il precedente stile di vita può essere tollerato. In un certo senso, quello che Agostino ha scoperto e deciso di vivere in prima persona è il radicalismo evangelico: cioè l’ideale cristiano visto non già come una concezione che si aggiunge alle altre, sia pure per sostituirle, ma come una globalità di indirizzi e di scelte, che rifiutano la mediazione con il quietismo di una fede puramente esteriore, per incidere nella carne viva di un rigoroso esercizio di coerenza.

Insieme alla madre e agli amici più cari Agostino si ritira in una villa appartenente a Verecondo nell’agro di Cassiciaco (forse presso Varese, forse in Brianza), per trascorrervi un periodo isolato dal mondo, in raccoglimento e in preghiera (cap. III). Si tratta di un ritiro estremamente fecondo dal punto di vista dei progressi spirituali, durante il quale il Nostro si dedica intensamente alla lettura delle Scritture, alla meditazione, al colloquio costante con Dio: l’anima tutta rapita nella nuova, inebriante felicità, come l’innamorato che finalmente si è ricongiunto alla sua amata. È uno dei capitoli più lunghi di tutte le Confessioni, e l’autore, come sempre, dimostra una magistrale capacità di descrivere la mescolanza dei sentimenti e degli stati d’animo, come un cielo tempestoso subito dopo la pioggia, quando si squarcia per lasciar filtrare la luce del sole (cap. IV).

Dopo aver rassegnato formalmente le dimissioni dalla scuola milanese in cui esercitava la professione di docente (cap. V), Agostino abbandona il ritiro campestre e rientra in città, accompagnato dall’inseparabile Alipio e dal figlio Adeodato, orami ragazzo quindicenne. Insieme al figlio, riceve il battesimo dalle mani di S. Ambrogio, nella notte di pasqua (fra il24 e il25 aprile) del 387 (cap. VI). A Milano, è un momento difficile per i cattolici, poiché l’imperatrice Giustina, madre di Valentiniano II e protettrice degli ariani, ha ingaggiato un duello serrato con il vescovo Ambrogio. Tuttavia la massa dei milanesi rimane fedele all’ortodossia, e la sua fede è rinvigorita dalla scoperta, compiuto da Ambrogio, delle reliquie dei due famosi santi martiri Gervasio e Protasio (cap. VII).

Agostino ha deciso di ritornare in Africa, per ritirarsi a vita monastica; parte da Milano e orna a Roma: ma ad Ostia, in attesa dell’imbarco, muore la madre Monica. Pagine affettuosissime sono dedicate alla rievocazione dell’infanzia di lei, preludio a una delle parti più belle delle Confessioni. (cap. VIII). Il figlio, infatti, tesse per lei uno dei più alti elogi che siano mai stati fatti alle virtù della propria madre, a cominciare da quelle di sposa fedele, paziente, capace di portare alla conversione anche il focoso e forse rozzo marito (cap. IX). Poco prima ella morte di lei, madre e figlio hanno conosciuto, insieme, un momento di vera e propria estasi religiosa, rievocato con mano sicura in un celebre passo dell’opera.

"Quando già era vicino il giorno della sua dipartita – Tu lo conoscevi quel giorno, a noi rimaneva ignoto -, avvenne, credo per occulta disposizione delle tue vie, che ci trovassimo soli, ella ed io, affacciati ad una finestra aperta sul giardino interno della casa dove abitavamo presso Ostia, alle foci del Tevere, e dove, lontani dal chiasso, dopo le fatiche del lungo viaggio, ci si rimetteva in forze per la navigazione. Parlavamo tra noi soavissimamente, e, dimentichi del passato e volti all’avvenire, ci domandavamo, sempre al cospetto della Verità, ossia di Te, quale sarà mai quella vita eterna dei Beati, che «nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla mente umana». La bocca del nostro cuore si apriva avida al fluire celeste della tua fonte, della fonte di vita che è in Te, per esserne un poco, quanto era possibile alla nostra intelligenza, irrorati, sì da riuscire a formarci un’idea di tanta sublimità.

"Giunti a una prima conclusione che qualsiasi piacere dei sensi del corpo, anche nel maggior splendore fisico, non solo non deve essere paragonato alla felicità di quella vita, ma nemmeno nominato, ci rivolgemmo con maggiore intensità d’affetto verso l’Ente in sé, ripercorrendo a poco a poco tutte le creature materiali, fin su al cielo da cui il sole, la luna e le stelle piovono la loro luce sulla terra. E la nostra vista interiore si spinse più in alto, nella contemplazione, nella enumerazione, nell’ammirazione delle tue opere; e giungemmo al pensiero umano, e passammo oltre, per raggiungere gli spazi della inesauribile ubertà ove Tu pasci eternamente Israele con il cibo della verità, dove vita è la sapienza che dà l’essere a tutte le cose, alle passate e alle future ed essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi, meglio, non esiste in lei un «fu», un «sarà», ma solo l’«è», perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all’eternità. Parliamo, aneliamo ad essa, ed ecco, la sfiorammo un poco in uno slancio del cuore; e con un sospiro vi lasciammo avvinte le «primizie dello spirito» (Rom., VIII, 23) per ridiscendere al suono delle nostre voci, dove la parola ha inizio e dove si esaurisce. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto? (…)

"Questo dicevamo, anche se non in tal modo e non con tali parole; ma Tu, o Signore, sai pure che in quel giorno, dopo quei discorsi, quando già questo mondo con tutti i suoi allettamenti era diventato spregevole, ella disse: «Figlio, per conto mio nulla più mi attrae in questa vita. Che cosa io mi faccia qui, perché ancora vi rimanga, non lo so : ogni mia speranza in questo mondo è compiuta. Una cosa sola mi faceva desiderare si vivere ancora un poco: vederti cristiano cattolico prima di morire. Iddio mi ha dato anche più del mio desiderio, perché ti vedo diventato suo servitore, nel disprezzo della felicità terrena. Che faccio, qui?».

Scrive Augusto Serafini (nella sua Storia della letteratura latina, Torino, S.E.I., 1966, p. 445): «È una pagina sublime, tra le più alte che occorrano nell’universa letteratura. Forse solo Dante nel Paradiso è riuscito ad esprimere in modo così alto questo interiore innalzamento della creatura verso il Creatore: questo riverbero della patria celeste».

Subito dopo, Monica si mette a letto con la febbre e, nel corso della malattia, chiede di essere seppellita lì ad Ostia, e dopo otto giorni chiude gli occhi per sempre, assistita da Agostino e dall’altro suo figlio, Navigio (cap. XI). Una immensa angoscia piomba sul cuore del Nostro, resa più acuta dalla consapevolezza della commovente dedizione con cui sua madre lo aveva seguito, anche se in parte mitigata dalla consolazione di saperla rasserenata dalla conversione di lui (cap. XII).

Nell’ultimo capitolo Agostino innalza per sua madre una bellissima preghiera, che è, anch’essa, una delle pagine più notevoli della letteratura religiosa di tutti i tempi, della quale vogliamo riportare almeno una parte (cap. XIII).

"So che ella su sempre misericordiosa, rimettendo di tutto cuore i debiti ai suoi debitori: anche Tu rimetti a lei i suoi, se ne contrasse qualcuno in tanti anni dopo l’acqua salutare. Condona, Signore, condona, Te ne supplico: non venire a giudizio con lei: la misericordia prevalga sulla giustizia, perché la Tua parola non inganna e Tu hai promesso misericordia ai misericordiosi. Fu dono tuo se lo furono, e Tu usi pietà con chi ti piacque aver pietà, e misericordia con chi ti piacque esser misericordioso.

"Io credo che Tu abbia già esaudito la mia preghiera: accetta ad ogni modo l’omaggio volontario delle mie labbra, o Signore.

"Riposi dunque in pace con il marito: né prima né dopo di lui ebbe altro sposo, e a lui fu sottomessa con pazienza, offrendone a Te il frutto per guadagnare a Te lui pure e Tu o mio Signore e mio Dio, inspira ai tuoi servi, miei fratelli, ai tuoi figli, miei padroni a cui io servo con il cuore, con la voce, con gli scritti, a tutti quelli che leggeranno queste pagine, inspira di ricordarsi davanti al tuo altare della tua serva Monica e di Patrizio che fu suo sposo, per la carne dei quali Tu mi facesti entrare in questa vita, come, non lo so. Ricordino con pio affetto coloro che furono miei genitori in questa vita transeunte, che sono ora miei fratelli per la tua paternità comune nella madre cattolica, e saranno concittadini miei nella Gerusalemme eterna a cui sospira il tuo popolo pellegrinante dal momento della partenza a quello del ritorno; così che quanto ella per ultima cosa richiese da me, le sia offerto con maggiore abbondanza, attraverso queste Confessioni, dalle preghiere di molti che non dalle mie sole."

LIBRO DECIMO

Gli ultimi quattro libri delle Confessioni sono, praticamente, in parte di filosofia pura (il decimo e l’undicesimo), in parte di esegesi biblica (il dodicesimo e il tredicesimo); il racconto autobiografico è praticamente terminato. Sono anche molto più lunghi dei precedenti (il decimo, ad esempio, comprende quarantatré capitoli), pertanto da qui in poi abbandoneremo il metodo seguito finora, di analizzare ogni singolo capitolo, per trattare di questi quattro libri in generale.

Nel decimo libro, Agostino espone il cammino dell’anima per giungere fino a Dio; quindi analizza le facoltà umane a partire dalla memoria, su cui scrive delle pagine memorabili; infine tratta delle concupiscenze della carne (voluttà, intemperanza, odorato, udito, vista) e dello spirito (vana curiosità, superbia, compiacimento della lode, orgoglio) e conclude sostenendo che è indispensabile un mediatore tra l’infinità di Dio e la piccolezza umana, e che tale, unico mediatore è Gesù Cristo, ossia il Verbo incarnato. Di particolare interesse, dal punto di vista psicologico e autobiografico, sono i capitoli III e IV, nei quali Agostino spiega quali ragioni lo abbiano spinto a confessarsi agli uomini: fornire un esempio di speranza nella infinita misericordia di Dio e mostrarsi con radicale sincerità quale egli è veramente, senza nulla omettere, per soddisfare alla curiosità dei buoni e confortarli con la testimonianza della bontà divina. Nel capitolo V egli si mostra consapevole dell’estrema difficoltà dell’impresa, per il fatto che è cosa assai difficile perfino conoscere sé stessi; concetto esposto con molta acutezza nel cap. V.

"Tu, invece, o Signore, porti giudizio su di me; se «nessun uomo sa ciò che riguarda l’uomo tranne lo spirito che è dentro lui», e tuttavia vi è qualcosa dell’uomo che rimane ignorato anche dallo spirito che è dentro lui, Tu, o Signore, suo fattore, ne conosci ogni particolare. Io, poi, pur disprezzandomi davanti a Te e considerandomi terra e cenere, conosco però qualcosa di Te che ignoro di me. Certo, la nostra visione di Te, ora, è «come in uno specchio e per enigmi, non ancora a faccia a faccia» (Cor., XIII, 12); perciò fino a che me ne vo pellegrinando lontano da Te sono presente più a me che a Te: so però che niente ti può contaminare, mentre non so proprio a quali tentazioni io sia in grado di resistere e a quali no. Ma Tu sei di parola, e quindi nutro speranza che non permetterai tentazioni che siano al di sopra delle nostre forze, ma ci manderai con la tentazione la via d’uscirne, sì che ci sia possibile sostenerla.

"Confesserò dunque quello che so di me: confesserò anche quello che non so: poiché quello che so di me lo so dalla tua luce, quello di me che non conosco debbo ignorarlo sino a che le mie tenebre, nella visione del Tuo volto, diventeranno «come luce di mezzogiorno».

Una sintetica ma chiara ed efficace valutazione complessiva del libro decimo è contenuta nel Dizionario delle opere filosofiche (a cura di Franco Volpi, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2000, pp. 7-9), e si deve alla penna di C. Mohrmann:

"Di particolare interesse è il libro X, in cui è analizzata la memoria, che viene concepita come un ricettacolo in cui si trovano celati «i tesori delle innumerevoli immagini portate dalla percezione». Per la precisione, la memoria contiene sia le immagini delle cose impresse nello spirito (ovvero le immagini degli oggetti percepiti dai sensi, ma anche il ricordo di sé e i risultati delle operazioni di composizione e di scomposizione delle immagini medesime), sia le cose stesse, irriducibili alle immagini. La coscienza di sé si realizza nell’uomo in virtù della memoria, che unisce il passato al presente e consente altresì, partendo dal presente, di progettare le azioni future: dunque, la memoria colloca nella dimensione del presente tanto l’esperienza del passato quanto l’attesa dell’avvenire. È la sua permanenza a rappresentare la condizione di ogni azione umana. Il suo compito peculiare consiste, in ogni caso, nell’acquisizione del sapere intellettuale, nel quale Agostino distingue l’elemento sensibile (per esempio un suono di cui la memoria conserva l’immagine) e l’oggetto stesso del sapere, che non si apprende mediante i sensi e che, di conseguenza, non può venire dall’esterno. I contenuti conoscitivi sono originariamente presenti nel cuore e nella parte più oscura e remota della memoria: qui, si trovano in una condizione di dispersione e di disordine. Attraverso la riflessione, la memoria li scopre, li ordina e li mette a propria disposizione: è precisamente questo il sapere. L’analisi agostiniana della memoria si colloca in una prospettiva teocentrica, in quanto costituisce una tappa della ricerca di Dio, che è anche ricerca della vita felice. Il santo di Tagaste si domanda, infatti, se «se la vita felice si trovi nella memoria, e risponde affermativamente, in quanto la vita felice per l’uomo consiste nel godimento di Dio, e Dio si trova nella memoria."

Vi è dunque una progressione, nel movimento che l’anima compie per avvicinarsi a Dio, che parte dalla percezione delle cose sensibili, le oltrepassa per giungere alla memoria e alle idee astratte (compresi gli enti della matematica, ad esempio i numeri) e poi deve procedere ancora oltre: la memoria, infatti – avverte Agostino – non è sufficiente per giungere alla contemplazione di Dio. Pagine illuminanti ha scritto il Nostro a proposito di questo senso del limite delle facoltà intellettuali nella ricerca del divino, e sulla necessità di ricordare quello che coi sensi abbiamo smarrito, ma conservato nel ricordo; pagine nelle quali è evidente anche l’influsso del pensiero neoplatonico (capp. XVII e XVIII). Ma la facoltà della memoria si collega direttamente con l’umana aspirazione alla felicità; ma solo Dio è felicità, ed è anche verità; dunque, la felicità coincide col raggiungimento della verità (capp. XX-XXIII). Iddio è nella memoria, ed è lì che lo possiamo ritrovare in ogni momento, dopo averne avuto la rivelazione (cap. XXIV).

"Ecco quanto sono andato spaziando nella mia memoria, per cercarti, o Signore; e fuori di essa non ti ho trovato, ché anzi non vi ho trovato nulla di Te che io non ricordassi dal momento in cui imparai a riconoscerti. Da quel momento in cui cominciai a conoscerti, non ti ho mai dimenticato. Dove ho trovato la verità, ho trovato anche il mio Dio, la verità stessa, e da quando la conobbi non la dimenticai. Perciò Tu sei fisso nella mia memoria dal momento in cui ti ho conosciuto: ivi ti trovo, quando mi ricordo di Te, quando cerco la mia gioia in Te.

"Queste sono le mie sante delizie, e tu me le hai donate quando, nella tua misericordia, riguardasti la mia povertà."

LIBRO UNDICESIMO

Gli ultimi tre libri delle Confessioni, dall’undicesimo al tredicesimo, svolgono una meditazione sul primo libro del Genesi.

Nel libro undicesimo, dopo aver rivolto una preghiera a Dio perché ci conceda l’intelligenza delle Sacre Scritture, svolge una riflessione approfondita sul primo versetto del Genesi, sulla parola creatrice (cap. V) e sulla parola creata (cap. VI). La parola creatrice è il Verbo, e il Verbo è maestro di verità e parla agli uomini (capp. VII-IX). Poi Agostino si chiede se la reazione implichi mutamento, e risponde alla domanda in modo negativo, poiché essa si colloca al di fuori del tempo (capp. X-XI). E alla domanda che cosa facesse Dio prima della creazione, con una buona dose di coraggio intellettuale Agostino risponde che non faceva nulla: infatti, «se avesse fatto qualche cosa, che cosa poteva essere se non una creatura?» (cap. XII). Viene quindi sviluppata la riflessione filosofica sulla natura del tempo, che è una dimensione propria delle cose create (capp. XIII-XIV): non si può dire, pertanto, che vi sia stato un tempo in cui Dio era inoperoso (prima della creazione), perché Dio è fuori del tempo.

"Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so; eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro; se nulla esistesse, non vi sarebbe un presente.

"Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste, se sua condizione all’esistenza è quella di cessare dall’esistere, se cioè non possiamo dire che in tanto il tempo esiste in quanto tende a non esistere?"

Passato e futuro esistono (cap. XVII), ma si può misurare solo il presente (capp. XVI e XXI), benché esso non abbia alcuna estensione, come del resto il punto geometrico

"Come si può però misurare il tempo presente che non ha estensione? Lo misuriamo appunto quando passa: quando poi è passato, non si misura più, non essendovi una entità da misurare. Ma quando lo misuriamo, donde viene, per dove passa, donde va? Donde? Ma dal futuro; per dove? Ma nel presente; dove? Nel passato! Ossia: da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha spazio, in ciò che non esiste più."

Ricorriamo ancora all’aiuto di C. Mohrmann per delineare i tratti essenziali di questo undicesimo libro delle Confessioni, nel quale Agostino ha svolto alcune delle più originali riflessioni che siano mai state fatte sulla natura del tempo, unendo alla profondità e alla originalità una straordinaria chiarezza espositiva e, non ultimo pregio, un profondo senso di umiltà di fronte al mistero della realtà in cui siamo immersi, mistero di fronte al quale dobbiamo riconoscerci profondamente ignoranti e ricorrere all’aiuto di Dio perché illumini la nostra intelligenza delle cose.

"nel libro XI, Agostino svolge una fondamentale analisi del tempo. Egli dimostra la necessità di far ritorno dal tempo ‘esterno’, che costituisce l’orizzonte delle realtà sensibili, all’esperienza temporale ‘interna’. Il tempo si riduce, in sostanza, all’istante, che è insieme reale e irreale. Il singolo istante può essere fissato e collegato con tutti gli altri soltanto se la coscienza, come ricordo del , contemplazione del presente e attesa del futuro, si distende e contemporaneamente si raccoglie in unità Il tempo è dunque fondamentalmente tempo interno, vale a dire ‘distensione dell’animo’ («distensio animi»). Ora, il dispiegarsi nella molteplicità («distensio») presuppone la raccolta nell’unità («intentio»), e quest’ultima è possibile soltanto attraverso la relazione con l’eternità («aeternitas»), mediata dalle idee."

LIBRO DODICESIMO

"Il tema del rapporto tra tempo ed eternità – prosegue C. Mohrmann – è il ponte per affrontare quello della creazione, che viene trattato in forma esegetica nei due libri conclusivi, il XII e il XIII. In particolare, Agostino cerca di chiarire i presupposti ontologici della creazione dal nulla («creatio ex nihilo»). Soltanto a Dio, nonché alla Sua parola, spetta il carattere dell’essere («esse»). A esso si contrappone il nulla («nihil»). Come va concepita, allora, la creazione? A giudizio di Agostino, la si deve immaginare secondo una certa scansione: innanzitutto Dio ha creato le forme ideali («formae») e in pari tempo la materia ,che è invece assenza di forma («informitas»). Le idee vanno considerate come qualcosa di vero e dunque di esistente, mentre la materia,in quanto pura potenza, è un ‘quasi niente’ («paene nihil»). L’incorporarsi delle idee nella materia genera quella realtà empirica , strutturalmente caratterizzata dalla contingenza e dalla mutevolezza, che possiede uno statuto ontologico ambiguo. Tale realtà, infatti, può essere caratterizzata come un «qualcosa-nulla»,o come ciò che «è-non è» ".

Ad ogni modo, per poter interpretare correttamente la Sacra Scrittura è necessario, secondo Agostino, armarsi dello spirito di carità: «carità che nasce da un cuore puro, da una coscienza retta, da sincerità di fede»(cap. XVIII). Non con orgoglio umano e con spirito di malizia, per cogliere eventuali contraddizioni in chi cerca d’interpretarla, ma con umiltà e fiducia in Dio occorre accostarsi alle Scritture: che, essendo il libro della Verità, parlano all’uomo a dispetto della inadeguatezza del suo intelletto. In definitiva, la Bibbia parla solo a coloro che la leggono con purezza di cuore e con giusta disposi<zione di spirito; altrimenti il significato profondo delle sue parole rimane inaccessibile alla presunzione degli uomini.

LIBRO TREDICESIMO

Nell’ultimo libro delle Confessioni l’Autore commenta le varie fasi della creazione, sempre seguendo il racconto del Genesi (attribuito a Mosé): la creazione della luce, lo Spirito sulle acque, il firmamento, la separazione delle acque e della terra asciutta, gli astri del cielo, i frutti viventi della erra e delle acque, l’anima vivente, l’uomo e l’ordine ricevuto da Dio di moltiplicarsi .Infine svolge una riflessione sulla bontà che ha presieduto al mistero della creazione e sul riposo di Dio, a creazione terminata.

In particolare, Agostino sottolinea il fatto che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, dunque come uomo spirituale (cap. (cap. XXII); che ogni cosa creata è intimamente buona, perché pervasa dallo spirito di Dio (cap. XXXI); che l’intero Universo è retto da una profonda, meravigliosa armonia (cap. XXXII).

L’ultimo capitolo, il XXXVIII, chiude le Confessioni con una toccante riflessione sul grande mistero della vita eterna.

"Noi per ora vediamo le cose che Tu hai atte perché esistono; ma esse esistono perché Tu le vedi; noi vediamo con i sensi che esistono, con la riflessione che sono buone. Tu invece le vedesti atte là dove vedesti che erano da fare.

"Ed io in un tempo posteriore fui spinto al en fare, quando il mio core concepì dal tuo Spirito; ma in un tempo precedente fui portato al male e ad abbandonar Te. Tu, però ,o Dio tutta bontà, non cessasti mai di bene operare. Anch’io ho compiuto alcune opere buone, per dono della tua grazia, ma non sono eterne: dopo, io spero di trovare riposo nella tua grande virtù santificante. Tu, invece, Bene a cui non occorre altro bene, sei in perenne quiete, perché Tu stesso sei la tua quiete. "Qual uomo farà intendere ciò ad un altro uomo? Quale angelo ad un angelo? Quale angelo ad un uomo? A Te si chieda, in Te si cerchi, si batta alla tua porta: così, così ci sarà dato, così troveremo, così ci verrà aperto."

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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