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Imperialismo e vexata quaestio delle razze inferiori

L’idea che noi abbiamo, oggi, dell’età dell’imperialismo, fra il 1870 e il 1914, o, se si vuole, fra il 1870 e il 1945, risente di una serie di pregiudizi di matrice liberale, democratica, progressista e, appunto, anti-imperialista, che ci rende quasi impossibile farci un’idea obiettiva di quella fase della storia d’Europa e del mondo. Fra le altre cose, siamo portati a immaginare che l’imperialismo sia stato una specie di blocco unico e compatto, che vide impegnati tutti i governi delle grandi potenze e tutte le forze dell’economia, della finanza, della politica e della cultura, in una specie di patto internazionale avente come scopo un’azione coordinata, o comunque coerente, per sottomettere e ridurre in condizioni dio totale dipendenza i popoli africani, asiatici e delle isole del Pacifico, al fine di poterli impunemente sfruttare. Sì, è vero che vi furono notevoli conflitti, a un certo punto, fra le potenze europee, cui si unirono Stati Uniti e Giappone, per la conquista delle materie prime e il controllo dei mercati; ma questo, pur essendo un effetto, dome asseriva Lenin, della fase suprema del capitalismo, era pur sempre un fenomeno interno alla competizione imperialista, nella quale le singole società in lotta si gettavano con tutto il loro peso e con una certa sincronizzazione delle forze sociali e produttive ad essa interessate. E se qualche nazione, come l’Italia, non si gettò effettivamente con tutto il suo peso e non sincronizzò i propri sforzi, ciò accadde perché alcune nazioni, come l’Italia, non erano ancora entrate nella fase del capitalismo avanzato e quindi non erano ancora mature per svolgere una politica imperialista a pieno titolo, perciò si sforzavano semplicemente di tenere il passo con le altre, per non restare troppo distanziate e doversi così accontentare delle briciole del ricco bottino.

Ebbene, questa visione è semplicistica, superficiale e dettata da un pregiudizio ideologico di tipo democratico. La verità è che anche all’interno delle grandi potenze vi era una notevole dialettica tra le forze interessate a promuovere la competizione imperialista e quelle che non ne vedevamo alcuna necessità, e avrebbero preferito concentrare gli sforzi della nazione in altre direzioni. La Germania, per esempio,  indubbiamente era emersa, nel 1871, come una grande potenza, anzi, come la potenza egemone sul continente europeo; eppure fu solo nel 1884-85, all’epoca del Congresso di Berlino, che il cancelliere Bismarck, che ne guidava la politica, si convertì bruscamente all’imperialismo e, in particolare, all’adozione di una politica di espansione coloniale; e perfino dopo che la Germania ebbe costruito, sia pure in maniera alquanto affrettata, un impero coloniale di tutto rispetto, gran parte delle sue forze produttive e dello stesso establishment culturale seguitarono a snobbare e trascurare l’espansione coloniale, non vedendo, in essa, alcuna necessità vitale della nazione in generale, e dei loro interessi specifici, in particolare. Basti dire che nel 1914 appena 25.000 cittadini tedeschi si erano stabiliti nelle colonie della madrepatria, compresi i membri delle forze armate e di polizia; e che uno storico dell’imperialismo del calibro di David K. Fieldhouse ha concluso che la perdita del suo impero coloniale, nel 1919, non arrecò alcun danno all’economia tedesca, anzi rappresentò un vantaggio, perché la sbarazzò di un fardello che le era costato assai più risorse di quante ne avesse ricavate. Inoltre, aldilà della pura contabilità dei profitti e delle perdite, nelle potenze europee si accese un dibattito interno sul significato dell’imperialismo e anche sull’aspetto etico da esso coinvolto; ci furono, cioè, tanto i fautori della politica imperialista, come Houston Stewart Chamberlain, e i cantori letterari di essa, come il poeta e scrittore Rudyard Kipling (sua è la famosa poesia sul white man’s burden, il fardello dell’uomo bianco), sia i critici e i detrattori di essa. Oltre ai socialisti, che consideravano l’imperialismo una manifestazione del dominio di classe della borghesia sul proletariato, e a una parte dei cattolici, i quali ponevano particolare attenzione sui risvolti morali e, adottando il punto di vista dei missionari più che quello dei commercianti o degli industriali, in qualche caso fecero pressioni sui rispettivi governi affinché venissero addolcite le politiche verso gli indigeni, ad avanzare perplessità e riserve erano anche gli esponenti del mondo accademico e della cultura liberale e pragmatista, che muoveva dalla stessa base intellettuale da cui partivano gli imperialisti, ma giungevano a conclusioni differenti.

Uno di questi critici fu l’economista John A. Hobson (1858-1940), voce molto autorevole della cultura ufficiale britannica e considerato un precursore delle tesi di Keynes, il quale dedicò all’argomento uno studio specifico, L’imperialismo, nel quale tra le altre cose affermava (titolo originale: Imperialism. A Study, London, George Allen & Unwin, 1902; traduzione dall’inglese di Luca Meldolesi e Nicoletta Stame, Torino, Einaudi, 1974, e Milano, ISEDI, 1974, pp. 197-200):

Fin qui, abbiamo stabilito due principi sperimentali. Primo, che qualsiasi ingerenza da parte delle nazioni civili bianche nelle questioni delle "razze inferiori" non  è ‘prima facie’ illegittima. Secondo, che non ci si può fidare a lasciare questa ingerenza alle imprese private di singoli bianchi. Se questi principi sono accettati, ne segue che i governi civili POSSONO intraprendere il controllo politico ed economico delle razze inferiori — in una parola, che la forma caratteristica dell’imperialismo moderno non è illegittima sotto tutti gli aspetti.

Quali sono dunque le condizioni che la rendono legittima? Provvisoriamente possiamo stabilire che: in primo luogo, queste ingerenze nel governo di una razza inferiore devono essere dirette principalmente a garantire la sicurezza e il progresso della civiltà del mondo, e non l’interesse particolare della nazione che interferisce; in secondo luogo, devono essere accompagnate da un miglioramento e da una elevazione del carattere del popolo che viene portato sotto questo controllo; in terzo luogo, la determinazione delle due precedenti condizioni non deve essere lasciata al volere arbitrario o al giudizio della nazione che interferisce, ma deve venire da qualche rappresentanza organizzata dell’umanità civile.

La prima condizione è dedotta direttamente dal principio di utilità sociale allargato il più possibile, in modo da diventare sinonimo di "bene dell’umanità". Se consideriamo la condotta che una nazione tiene verso u’altra,  non ci può essere altra unità di misura. Per quanto incerta o in altro modo imperfetta  sia questa unità di misura, se vista come regola di politica internazionale, qualsiasi altra misura è, necessariamente, più incerta e più imperfetta. (…) 

Certo, in Inghilterra la dichiarazione di Lord Rosebery secondo cui l’impero britannico è "il più grande benefattore terreno che mai sia esistito al mondo" sarebbe adottata ovunque come giustificazione fondamentale dell’impero.

Lord Salisbury appoggiò apertamente il principio, asserendo che "il corso degli eventi, che preferirei chiamare gli atti della Provvidenza, ha chiamato questo paese a esercitare un’influenza sul carattere e il progresso del mondo quale non è mai stata esercitata in precedenza da alcun impero"; mentre l’arcivescovo di Canterbury proponeva una dottrina del "cristianesimo imperiale" basata sugli stessi presupposti. Si può allora capire bene che ogni atto di "imperialismo" che consiste in una intromissione forzata negli affari di un altro popolo può essere giustificato solo mostrando che esso contribuisce alla "civiltà del mondo".

Egualmente, si ammette che qualche vantaggio speciale deve essere attribuito ai popoli che sono i soggetti di questa ingerenza. Su un piano di alta teoria, se noi accettassimo senza modificarla la lotta biologica per l’esistenza come il solo o il principale strumento di progresso, la repressione, e perfino l’estinzione, di qualche nazione che non progredisce o che regredisce, per fare luogo a un’altra, socialmente più efficiente, e più capace di utilizzare per il bene comune le risorse naturali della terra, potrebbe sembrare ammissibile. Ma, se noi ammettiamo che negli stadi superiori del progresso umano la tendenza costante è quella di sostituire sempre di più la lotta nei riguardi dell’ambiente morale e naturale alla lotta intestina degli individui e delle specie, e che per una condotta efficiente di questa lotta è necessario sospendere la lotta inferiore  e accrescere la solidarietà dei sentimenti e della simpatia in tutta l’umanità, allora capiremo due importanti verità. In primo luogo, affinché le razze più "progressive" occupino una porzione sempre più larga della terra, l’"espansione" non è la "necessità"  che appariva una volta, perché il progresso avrà luogo sempre più sul piano qualitativo, con una più intensa coltivazione al tempo stesso di risorse naturali e di vita umana. La supposta necessità naturale di lasciar fuori le razze inferiori è basata su un’analisi del progresso umano ristretta, limitata e puramente quantitativa.

In secondo luogo, nel progresso dell’umanità, si riconoscerà che i servizi resi dalla nazionalità, come mezzo di educazione e di autosviluppo, sono di tale suprema importanza che niente, salvo la diretta necessità fisica di autodifesa, potrà giustificare l’estinzione di una nazione. In una parola, si riconoscerà che "le grand crime international est de détruire une nationalité" (Brunetiére, cit. in "Edimburgh Review" aprile 1900). (…)

La difesa morale dell’imperialismo è basata generalmente sull’affermazione che in realtà queste due condizioni sono soddisfatte, cioè che il controllo politico ed economico assunto con la forza dalle "razze superiori" su quelle "inferiori" promuove al tempo stesso la civiltà del mondo e il bene particolare delle razze sottomesse. La risposta che danno gli imperialisti britannici quando difendono l’espansione, è quella di puntare sui servizi resi all’India, all’Egitto, all’Uganda ecc. e di affermare che le altre dipendenze in cui il governo britannico ha avuto meno successo sarebbero state peggio se fossero state lasciate a se stesse o a un’altra nazione europea. 

Prima di considerare la validità pratica di questa posizione e i fatti specifici che determinano e qualificano il lavoro di "civilizzazione" delle altre razze, è giusto chiarire l’errore fondamentale della terza condizione elencata prima. Possiamo noi con sicurezza affidare all’onore, allo spirito pubblico e all’intuito di alcuna delle razze imperiali in concorrenza tra loro il fatto che essa subordini i propri fini e interessi privati ai più vasti interessi dell’umanità o al bene particolare di ciascuna razza sottomessa portata sotto il suo dominio?

Nessuno, crediamo, afferma che esiste un’armonia naturale così perfetta che ogni nazione, seguendo coscientemente il proprio interesse principale, è "condotta" come da "una mano invisibile" lungo una strada che porta necessariamente all’interesse comune, e in particolare a quello della razza sottomessa. Quale sicurezza può dunque esistere che la pratica dell’imperialismo soddisfi le condizioni che abbiamo elencato? 

Come si vede, quello di Hobson è un tentativo, molto compito e ragionevole, molto vittoriano, di mettere insieme le ragioni di una sana economia politica e un principio etico universale, peraltro sempre considerato nei sui riflessi sulla pubblica utilità più che in senso prettamente teorico. Egli non contesta, in linea di principio, il "diritto" delle potenze di condurre una politica imperialista e, più specificamente, di mettere sotto la propria sovranità popolazioni che si trovano ad un livello di civiltà decisamente più basso (anzi, lui dice di "razza inferiore", perché, per quanto liberale e progressista, ma meno ipocrita degli studiosi odierni, non si sogna di contestare che delle grosse differenze culturali esistano fra i diversi popoli, né si perita di porre un "alto" e un "basso" in questo senso), ma pone alcune condizioni: che ne derivi una utilità generale; che ne derivi un qualche bene per le razze inferiori poste sotto la sovranità della potenza colonizzatrice; e infine che vi sia un ente giuridico e morale preposto a sorvegliare affinché il dominio coloniale si svolga nel rispetto dei primi due principi. Se mancasse la terza condizione, ciascuna potenza si arrogherebbe il diritto di stabilire da sé i criteri del proprio imperialismo, e non vi sarebbe alcuna garanzia che esso si traduca in un vantaggio per l’umanità in generale, e per i popoli sottomessi in particolare. Mentre Hobson formulava queste tesi, e criticava apertamente l’idea di Adam Smith di una "mano invisibile" che compone i conflitti scatenati dagli appetiti individuali in una superiore utilità generale, cominciavano a filtrare le inquietanti notizie su come il re Leopoldo del Belgio faceva amministrare il cosiddetto Stato Libero del Congo, e poco prima, nel 1899, lo scrittore Joseph Conrad, un polacco naturalizzato britannico, aveva scritto Cuore di tenebra, che suonava come uno schiaffo alla coscienza morale delle "razze superiori"; ma il dibattito risaliva a molto prima, perlomeno da quando, nel 1860, l’olandese Multatuli (pseudonimo di Eduard Douwes Dekker), con la pubblicazione del romanzo Max Havelaar, sottoponeva all’opinione pubblica mondiale l’imbarazzante questione degli abusi perpetrati dagli europei nelle loro colonie a danno delle popolazioni indigene. Un altro motivo d’imbarazzo veniva dal fatto che gli Stati Uniti, che erano nati da una guerra d’indipendenza contro una potenza coloniale e che avevano fatto della libertà e della democrazia la loro ideologia ufficiale, nel 1898 avevano condotto una guerra tipicamente imperialista contro la Spagna, sia pur mascherata alla bell’e meglio dietro motivazioni filantropiche, e che, dopo aver cacciato gli spagnoli dalle Filippine, si erano guardati bene dal concedere l’indipendenza a quel popolo, benché, sbarcandovi, avessero trovato una guerriglia molto attiva e già quasi sul punto di vincere la lotta con la vecchia potenza coloniale; sicché si erano visti costretti a reprimere i filippini che reclamavano la propria libertà, logorandosi in una guerriglia che sarebbe costata perdite assai maggiori di quelle subite nella campagna antispagnola. E che dire, per quanto riguarda la Gran Bretagna, della guerra contro le due repubbliche boere del Transvaal e dell’Orange, cioè contro una libera popolazione europea, che non dava alcun fastidio al suo potente vicino britannico, se non precludergli lo sfruttamento delle vene aurifere e delle miniere di pietre preziose? E contro questa indomita popolazione di origine olandese, i generali britannici non avevano esitato a ricorrere alla politica dei campi di concentramento, che aveva causato la morte, per le malattie e gli stenti, di migliaia di civili inermi, specie donne e bambini.

Hobson, dunque, non solleva obiezioni di principio all’imperialismo e alla sottomissione delle razze inferiori; chiede, però, che siano fissati dei limiti, delle regole, dei criteri di umanità; nega, ad esempio, che sia giustificato procedere allo sterminio delle razze inferiori semplicemente per fare spazio ai colonizzatori delle razze superiori, con la motivazione che i primi non sanno sfruttare adeguatamente le risorse della terra, mentre i secondi ne sono perfettamente capaci. Confuta anche la tesi, allora assai in voga, che l’espansione coloniale sia una necessità vitale per le potenze europee, sempre in nome di argomenti pratici più che morali, facendo notare che i progressi della scienza e della tecnica indirizzeranno lo sviluppo dell’economia sempre più sul terreno qualitativo più che su quello quantitativo: per cui non sarà necessario disporre di tantissima terra per alimentare l’economia in crescita, ma disporre delle tecniche per ottenerne uno sfruttamento sempre più razionale. Infine, egli contesta l’assioma del darwinismo sociale, negando che il modello della lotta per la vita possa essere applicato alle società umane nei loro rapporti reciproci e in quelli interni, suggerendo che, anzi, adottare la filosofia della strenght for life condurrebbe a una situazione fuori controllo, perché i rapporti umani non sono governati da un’armonia innata, tale da poter guardare con ottimismo al libero dispiegarsi degli appetiti di ciascuno. In effetti, non c’è alcuna garanzia che il dominio sulle razze inferiori venga esercitato nell’interesse superiore dell’umanità, né in quello specifico delle razze sottomesse. E si noti con quanto acume e con quale profetica precisione Hobson delinei la suprema ipocrisia della politica dei "mandati", che la Società delle Nazioni adotterà dopo la Prima guerra mondiale per trasferire legalmente le ex colonie tedesche e gli ex territori ottomani alla Gran Bretagna e alla Francia: in teoria per avviare quelle popolazioni verso l’autogoverno, ma in realtà solo per ampliare i loro già vastissimi imperi coloniali e per sfruttare ulteriori risorse a proprio esclusivo vantaggio. Resta da tirare una conclusione sull’imperialismo in se stesso. L’imperialismo classico non esiste più, si è profondamente trasformato ed è divenuto imperialismo finanziario. Oggi non occorre più conquistar materialmente un territorio per sfruttarne le risorse: basta mettergli il cappio al collo del debito e costringerlo a lavorare quasi solo per pagare i prestiti. Ciò non significa che l’opzione militare non sia sempre all’ordine del giorno: quando è la via più semplice per giungere al risultato, va bene oggi come andava bene ieri, basta solo riverniciarla e spacciarla in veste democratica. Il discorso sulla razze inferiori e superiori, invece, oggi si pone in termini radicalmente differenti. Oltre al fatto che un tale vocabolario è stato bandito, come pure l’universo mentale ad esso sotteso (ma come si fa a controllare il pensiero della gente?; evidentemente siamo in presenza di un totalitarismo democratico), oggi il pericolo non è che le razze superiori, o, per usare il vocabolario ora in uso, le nazioni del Nord della Terra, distruggano quelle del Sud, semmai sono queste ultime che si stanno prendendo la rivincita, invadendo silenziosamente e sostituendo le popolazioni del Nord. Organismi come l’ONU, fondati sul principio di maggioranza, sono nelle mani delle nazioni povere, la cui vedetta consiste nel far passare una serie di deliberazioni che mettono un’ipoteca sulla futura sovranità e indipendenza delle nazioni del Nord. Pare che in pochissimi si siano accorti che la vera partita non è fra i popoli del Nord e quelli del Sud, ma fra una minoranza che si sente popolo eletto e tutto il resto dell’umanità…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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