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Come uscire dal vicolo cieco?

Molti di noi, anche se non sempre con una chiara consapevolezza, vivono uno stato d’animo fatto di disagio, frustrazione, scoraggiamento, confusione, e hanno l’oscura sensazione di essere andati a finire in un vicolo cieco. Il vicolo cieco consiste in questo: che più si riflette, più si studia, più ci si libera dai condizionamenti mentali, più ci si sottrae alla manipolazione intellettuale cui siano incessantemente e sistematicamente sottoposti, più ci si rende conto di quanto la nostra situazione sia divenuta precaria, non solo in senso pratico ed esistenziale, ma anche in senso spirituale e morale: di quanto ci siamo pericolosamente avvicinati all’orlo dell’abisso, e con quale leggerezza ci tratteniamo proprio lì, come se avessimo ancora tutto lo spazio per consentirci anche eventuali errori, mentre la verità è che un solo passo falso potrebbe segnare la nostra rovina irreparabile. E nello stesso tempo, ci guardiamo intorno per cercare una bussola, un orientamento, una stella polare che ci guidi, e tendiamo l’orecchio per udire una parola amica che ci incoraggi, che ci sostenga, che ci indirizzi: però non vediamo nulla, non udiamo nulla, e ci rendiamo conto che più acquistiamo consapevolezza di quanto grave sia la nostra situazione, più rimaniamo isolati, e quindi ci troviamo ad essere incompresi, emarginati, derisi e, a un certo punto, anche perseguitati. Infatti il sistema di cui facciamo parte non tollera che qualcuno si ridesti dallo stato d’ipnosi e acquisti la lucidità sufficiente per capire quel che sta succedendo; non appena qualcuno si ridesta, automaticamente diventa un pericolo per chi ha tutto l’interesse a conservare gli uomini in uno stato di beata inconsapevolezza, e viene perciò preso di mira e attaccato in ogni modo, direttamente o indirettamente, per screditarlo, punirlo, avvilirlo, e soprattutto per ridurlo al silenzio, o per fare in modo che le sue parole non vengano raccolte né prese sul serio da alcuno.

Alla difficoltà di compiere, in noi stessi, un cammino di purificazione da tutte le menzogne e da tutte le immondizie che la cultura dominante ci rovescia addosso, si aggiunge perciò l’ulteriore difficoltà di trovare poi degli interlocutori, qualcuno con cui condividere la scoperta della ritrovata libertà, e, soprattutto, qualcuno con il quale tentare d’individuare un ulteriore percorso di salvezza, non solo individuale, ma comune; perché rassegnarsi ad essere paghi di una consapevolezza che rimane chiusa in se stessa, e che si deve adattare a vivere in una società che nega ogni giorno, ogni ora e ogni minuto quella verità che si è riusciti a comprendere, o almeno a intravedere, a prezzo di lunghe veglie, fatiche e ricerche, è cosa troppo dura da sopportare, e quasi superiore alle forze umane. Chi, dopo essere vissuto al buio, vede finalmente la luce, rimane turbato e sconvolto, perfino accecato, come racconta anche Platone nel mito della caverna; ma se a questa difficoltà si aggiunge il fatto che gli altri non gli credono, quando dice di vedere le cose nella loro vera luce, e lo aggrediscono, e cercano perfino di metterlo a tacere, allora viene fuori un quadro veramente tragico della nostra situazione. Un quadro che fa quasi rimpiangere il tempo dell’ignoranza e dell’inconsapevolezza, quando ancora si poteva vivere in maniera tale da non doversi scontrare continuamente con cento ostacoli, a cominciare dalla incomprensione e dalla crescente ostilità dei propri amici e degli stessi congiunti. Eppure, quella di rimpiangere le catene di prima è una tentazione che bisogna respingere, una nostalgia dalla quale occorre liberarsi. Sì, in un ceto senso si vive meglio senza sapere come stanno davvero le cose: ma solo restando ad un livello inferiore di esistenza, quello dell’inconsapevolezza, che gli uomini meno evoluti hanno in comune con le bestie. Per l’uomo spiritualmente evoluto e consapevole, sapere di avere un tumore è cosa migliore che non saperlo: per quanto grave sia la malattia, se questa non viene diagnosticata, non vi è alcuna speranza di guarigione, anzi, nessuna speranza di sopravvivenza. Solo prendendo coscienza che si è malati si può sperare di trovare la terapia giusta e, forse, di guarire. Lo schiavo che rimpiange le sue catene non è degno della libertà, così come il malato che rimpiange il tempo in cui non sapeva di essere tale, non merita la guarigione.

E dunque, come si esce dal vicolo chiuso nel quale ci siamo cacciati? La risposta, apparentemente difficilissima, per non dire impossibile, è, in realtà, molto più semplice di quanto si possa immaginare, addirittura elementare: se ne esce per la stessa via da cui ci siamo entrati: con le nostre gambe, riconoscendo l’errore che abbiamo commesso e rimettendoci sulla strada maestra, dalla quale ci eravamo allontanati. Finché seguiteremo a dire e ripetere che la modernità è un universo troppo complesso per poterne uscire e che da certi meccanismi non si torna indietro, non faremo che convincerci sempre di più del fatto che tanto vale rimanere dove siamo ora, tanto non ci sono speranze di mutare le cose e quindi, bene o male, questa minestra bisogna mangiarla: il che è appunto ciò che la nostra pigrizia e la nostra viltà desiderano sentirsi dire. Ma non è vero. Se siamo arrivati fin qui da noi stessi, possiamo anche tornare indietro. Qualcuno obietterà che no, non ci siamo arrivati con le nostre gambe; ci siamo stati portati; facciamo parte di un mondo che ha fatto una serie di scelte che ci hanno condotti alla situazione attuale: non si può scendere da un treno in corsa, lanciato a tutta velocità. Tutte chiacchiere vittimistiche e auto-assolutorie: discorsi per vecchie beghine inacidite e per pusillanimi senza un briciolo di coraggio. Voi che dite di essere stati trascinati da un meccanismo potentissimo, incontrollabile; voi che sostenere di essere le vittime inconsapevoli e recalcitranti di forze oscure che vi manovrano senza alcun assenso da parte vostra, dite un po’: sareste capaci i vivere, anche solo per una settimana, senza il vostro telefonino multifunzionale, dal quale non vi staccate neanche a tavola, né in automobile, né quando andate a letto? Sareste capaci di fare a meno dei vestiti firmati, dello shopping del sabato sera (o della domenica mattina: orrore degli orrori), o della televisione, o del computer, anche solo per un paio di giorni? Sareste capaci di mostrarvi agli altri per ciò che siete, senza trucchi, senza inganni, senza cercar di apparire migliori, senza mentire per fare una bella impressione; sareste capaci di avvicinarvi a un uomo, o a una donna, mostrandovi come in realtà siete, lealmente, con sincerità, con semplicità, e non facendo i salti mortali per sembrare quel che non siete, delle persone più belle, più interessanti, più giovani, più gentili? Siete capaci di lasciare l’automobile in garage per una volta, e andare al lavoro a piedi, a fare la spesa a piedi, anche con la pioggia, muniti di un impermeabile e di un ombrello, il che non farà di voi degli eroi e tanto meno dei martiri, senza farvi un alibi del brutto tempo, o della distanza, magari irrisoria, per scusare la vostra dipendenza dalle comodità tecnologiche? Perché è questa ricerca della comodità, la principale responsabile del nostro abbrutimento: la ricerca di una comodità sempre più grande, insieme alla vanità di fare colpo sugli altri, di essere desiderabili non per ciò che siamo, ma per ciò che sembriamo, anche con l’aiuto di mezzi artificiali, con il seno di plastica, con le rughe cancellate dalla chirurgia estetica, con i capelli bianchi nascosti dalla tintura o con la calvizie coperta da un parrucchino. Sono queste le cose che ci hanno portati nel vicolo cieco: l’insieme di tutte queste cose, unito al conformismo e alla pigrizia: un miscuglio infernale. Il diavolo ci ha presi all’amo come poveri pesci, usando come esca la lussuria, la superbia e la cupidigia che in noi si manifestano nella vanità, nell’invidia, nella gelosia, nella maldicenza, nella curiosità smodata, nel piacere del pettegolezzo, nella mancanza di freni, del senso del limite, del senso del pudore. Conosciamo donne rimaste vedove da poco, di settant’anni e anche di ottanta, che si mettono a caccia di compagnia maschile, fanno avances imbarazzanti, si offrono, civettano come se fossero delle ragazzine: mancanza di temperanza, di continenza, di senso del limite. Certo, è naturale desiderare la felicità: ma bisogna partire dal rispetto di se stessi, dalla consapevolezza di ciò che è legittimo, opportuno, accettabile, decente; e dalla ovvia constatazione che c’è un tempo per ogni cosa, e che la vecchiaia è fatta per riflettere sull’eternità, non per contendere la scena ai quindicenni. Conosciamo uomini i quali, pur di fare colpo su una donna, non indietreggerebbero davanti ad alcuna bassezza: mentono sulla loro età, sul loro stato di famiglia, sulla loro professione, sul loro patrimonio, praticamente su tutto; mentono perfino sulle qualità interiori, si dicono pazienti e rispettosi, ma non pensano che a manipolare gli altri, a ottenere da essi ciò che vogliono, con qualsiasi mezzo. Di tutte queste cose è fatta la strada che ci ha condotti nel presente vicolo cieco. La modernità, nel senso più ampio, è fatta di tutte queste cose: è una immensa discarica ove si raccolgono tutti i liquami, ove fermentano tutte le immondizie, ove ribolliscono tutte le cose in putrefazione.

Il nostro vero punto debole è l’incoerenza. Ci lamentiamo degli altri, ci lamentiamo della storia, ci lamentiamo di tutto, ma siamo ben lungi dall’essere irreprensibili, o anche solo passabilmente onesti. Ci lamentiamo, per esempio, di vedere la nostra terra ridotta in condizioni tali da essere irriconoscibile: ci lamentiamo perché la nostra classe dirigente l’ha tradita, l’ha messa in vendita, l’ha data in premio a chi voleva pigliarsela. Vero. Ma noi, cosa abbiamo fatto per la nostra terra? L’abbiano amata? L’abbiamo difesa? Le siamo stati fedeli? Saremmo pronti a sacrificarci, o anche solo a sacrificare qualcosa, per lei? Oppure: ci lamentiamo, sempre con ragione, del fatto che i mezzi d’informazione mentono, c’ingannano; che i libri scolastici manipolano la verità, che tendono a indottrinare i nostri giovani, più che a farli crescere; ci lamentiamo che il cinema, la televisione, la radio, sono controllati da poteri il cui scopo è il nostro asservimento, da ottenersi mediante un graduale processo di resa e di intorpidimento. Ma noi, siamo stati coerenti nelle nostre scelte di vita? Saremmo disposti a pagare un pezzo per difendere la verità? Saremmo capaci di sfidare l’opinione degli altri, per dire a voce alta quel che pensiamo, anche quando ci accorgiamo che un simile atteggiamento non sarà bene accolto? Diciamo di deprecare la decadenza della famiglia e accusiamo i governi che si sono succeduti in questi settant’anni di non aver fatto nulla per lei, per consolidare i matrimoni, per aiutare le coppie ad allevare i figli, per sostenere la ragazze madri, invece di accompagnarle semplicemente ad abortire. Benissimo. Ma noi, che cosa abbiamo fatto per la famiglia? Quanti separati, quanti divorziati si impancano a difensori della famiglia? Quanti sostenitori della legge sull’aborto, poi si lamentano che in Italia si fanno troppi aborti? E che cosa abbiamo mai fatto per la nostra patria, per coltivare le nostre radici, per proteggere la nostra identità? Ci lamentiamo che la Chiesa si è arresa al mondo, che non tiene più alta la sua bandiera nel mare del relativismo e del permissivismo; che si è svenduta pur di piacere agli uomini moderni, scusando e tollerando i loro vizi (a cominciare da quelli del clero, compresi più ignobili, come la sodomia e la pederastia). Ora ci sono perfino dei teologi e dei sacerdoti che ne proclamano la liceità, addirittura a bellezza. D’accordo, tutto ciò è inaccettabile. Ma noi, che abbiamo mai fatto per difendere la nostra religione, per sostenere i credenti, per aiutare i sacerdoti a far bene la loro missione? E ai nostri figli, abbiamo mai parlato di Dio, abbiamo mai parlato di Gesù Cristo? Abbiamo dati loro il buon esempio della frequenza alla santa Messa, della preghiera, del rispetto sostanziale, e non solo formale ed esteriore, dei valori cattolici? A difendere i valori della famiglia si è messo un giocatore di poker di professione, oltretutto divorziato. Cosa c’è che non va nel gioco del poker? Nulla; ma forse non c’entra per niente con la difesa della vita. E il divorzio, certo è un fatto privato: ma può un divorziato capeggiare un movimento che tutela i valori della famiglia? E via di questo passo. Tutti hanno voglia di fare bei discorsi, ma pochissimi son capaci di praticare un minimo di coerenza tra le parole e i fatti. E il malcostume è talmente diffuso, che tutti lo tollerano e anzi fanno finta che non ci sia nel loro ambito immediato: nessuno lo rifaccia all’altro, perché sa che potrebbe essere ripagato con la stessa moneta. C’è un tacito accordo: si può criticare un nemico lontano e indefinito, ma si deve fingere di non vedere la rogna di colui che si ha di fronte, altrimenti anche lui potrebbe farci notare la nostra. Tutti sanno di esser peccatori, ma nessuno si astiene dallo scagliare le pietre: tanto, le pietre sono chiacchiere e non fatti. Poiché ciascuno sa di aver la coscienza poco trasparente, preferisce abbaiare e sbraitare, ma lasciar perdere le azioni concrete. Una fitta coltre di nebbia è calata sulla nostra società, e l’abbiamo favorita noi stessi. Nella nebbia, umida e vischiosa, tutto sfuma, ogni cosa perde i suoi contorni. Si può indossare qualsiasi maschera, ci si può spacciare per qualcun altro. Abbiamo paura di essere noi stessi, perché intuiamo la nostra miseria, la nostra piccolezza. Siamo diventati piccoli e meschini e in fondo ci vergogniamo; e per coprire la nostra vergogna e il nostro senso di colpa, che a sua volta provoca l’angoscia, fingiamo di piacerci, e cogliamo ogni occasione per esibirci, per metterci in mostra: ma siamo diventati brutti, impresentabili. Sono belli, sono dignitosi, i vecchie le vecchie che vogliono sembrar giovani e disinibiti? Sono belli gl’invertiti che sfilano e si abbrancano in pubblico? Sono belli i fannulloni narcisisti che popolano i reality, ma che sono seguiti da milioni di telespettatori? Eppure, diciamo che sono belli, perché sappiamo di essere brutti a nostra volta: abbiamo bisogno di questa ipocrita complicità perché qualcuno non ci strappi i veli. Nudi, non sopporteremmo la nostra stessa vista…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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