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Omaggio alle chiese natie: la sussidiaria di S. Anna

Abbiamo già parlato della nuova chiesa di San’Anna a Paparotti, come tipico esempio di chiesa ultramoderna, brutta e assolutamente non spirituale. Prima che venisse costruita, nel 1994, gli abitanti della zona più meridionale della frazione di Cussignacco, per i quali era malagevole recarsi a Messa alla chiesa parrocchiale di San Martino, potevano contare su una chiesa sussidiaria, sempre dedicata a S. Anna, in via dei Molini, quasi all’incrocio con via dei Boscat (si noti come la toponomastica ci ricordi il tempo, non molto lontano, in cui queste zone erano del tutto rurali: coi vecchi mulini ad acqua lungo le rogge, in questo caso la Roggia di Palma, ora in gran parte coperta, e con la fitta vegetazione che copriva di boschi l’immediata periferia di Udine). Sino agli anni ’90 del secolo scorso, dunque, gli abitanti di questa zona, prossima a Paparotti, se non potevano recarsi a san Martino, avevano a disposizione un piccolo edificio di culto ricavato da una semplice abitazione privata. Il posto è tutt’altro che poetico, tanto meno mistico: di fronte, il nulla, cioè una distesa di campi senza nemmeno una casa, come in piena campagna; a destra, niente meno che un supermercato; a sinistra, un piccolo condominio. La chiesetta, poi, era stata ricavata da una normalissima casa destinata ad uso abitativo, neanche particolarmente bella, anzi decisamente anonima, senza la minima originalità o ricercatezza architettonica: rettangolare, a due piani, una facciata sulla strada con il portone a destra, due finestre grigliate a piano terra e quattro finestre rettangolari al piano superiore. Tutto qui. Il portoncino d’ingresso è rimasto esattamente com’era prima, a liste metalliche verticali e il vetro smerigliato, e la maniglia centrale che è esattamente come quella di una casa privata o magari di un piccolo magazzino. Alla sua sinistra è stata ricavata la scarsella di una bacheca per gli avvisi, sotto la quale fanno bella mostra di sé, si fa per dire, la casetta della posta e la scatola del contatore: il che, se soddisfa in parte le esigenze della simmetria, in compenso svilisce ulteriormente la dignità del portale, ammesso che lo si possa chiamare in questo modo. Fra il portoncino e la bacheca, una superficie intermedia, dipinta in rosa, che fa da raccordo ed è impreziosita da una patera, tipico elemento decorativo a forma circolare dell’arte sacra dell’area veneziana, con un grazioso bassorilievo della Vergine Maria che tiene il braccio il Bambino Gesù. È l’unico elemento che qualifica questo edificio come una chiesa, oltre alla croce posta alla sommità del timpano che sormonta la tripartizione della facciata (portone, bacheca e spazio centrale con la patera) che, peraltro, caratterizza solo la metà destra di essa, perché la metà sinistra è connotata dalle due grandi finestre con griglie di ferro battuto. Le quattro finestre al piano superiore sono rimaste com’erano prima, delle comunissime finestre da appartamento, con saracinesca e vaso di fiori sul davanzale. Sul tetto, un minuscolo campanile a vela, che però si nota a stento perché è posto sul lato destro dell’edificio e quindi, dalla strada, si vede solo di scorcio. Una bruttura, quindi; una chiesa di fortuna che non fa nemmeno pensare a una chiesa, tollerabile solo per ragioni di utilità meramente pratica?

Andiamoci piano. Innanzitutto, pur nella estrema economia del riadattamento, qualche nota gentile c’è. La patera con il busto della Madonna, per prima cosa, che ha una gentilezza e una dolcezza vagamente rinascimentali, vale da sola a posare una nota di devozione e di bellezza sulla facciata, altrimenti quasi squallida. Poi ci sono gli arbusti che incorniciano l’ingresso e quasi nascondono le finestre del piano terra (il che non è male), piantati in due aiuole lungo il marciapiede, lievemente rialzate rispetto al piano stradale: quel poco di verde che si protende sui due lati del portone ha il magico effetto di evocare il tepore domestico di una casa di campagna, di una vera casa di campagna, mentre questa è una banale casa di periferia del XX secolo, più simile a un condominio che a una vera casa colonica. Anche i piccoli camini sul tetto hanno qualcosa di simpaticamente familiare, quasi di virgiliano (et iam summa procul villarum culmina fumant / maioresque cadunt altis de montibus umbrae). Se fosse solamente per l’esterno, comunque, potremmo ben dire che questa è una chiesa per modo di dire: un luogo ove celebrare la Messa, semplicemente, venendo incontro ai bisogni della popolazione e specialmente degli anziani e delle persone che non possono fare tutta la strada fino a San Martino. Peraltro, anche su questa idea ci sarebbe da riflettere. A nostro parere, una chiesa nuova si costruisce, oppure si adatta un edificio preesistente a fungere da chiesa, solo quando si manifesti una forte richiesta e una evidente necessità da parte dei parrocchiani, e non prima. Questo, come regola generale: le chiese esistono principalmente per celebrare la santa Messa, e la santa Messa non è un servizio, ma un dono divino, e quindi un privilegio. Pertanto, se è giusto, nei limiti del possibile, che l’amministrazione pubblica provveda affinché ogni paesino e ogni frazione abbiano il loro asilo, la loro scuola elementare e anche il loro ufficio postale, la stessa filosofia non può essere adottata dalla Chiesa cattolica. Non si tratta di rendere accessibile la santa Messa come se fosse un bene di consumo: è giusto che i fedeli la desiderino, che la cerchino e anche, se occorre, che facciano qualche piccolo sacrificio per arrivare a parteciparvi. I cristiani devono ricordarsi che il Sacrificio eucaristico non è un diritto: è una grazia del Signore. Perciò, fare qualche centinaio di metri in più, anche sotto la pioggia, per giungere alla chiesa più vicina, o meno lontana, non è la fine del mondo. Per le persone che hanno seri problemi fisici, c’è sempre la Messa alla televisione; e sono in gran parte persone che non si recherebbero in chiesa, nemmeno se ce l’avessero sotto la porta di casa, perché non possono uscire o non hanno qualcuno che le accompagni. Per tutti gli altri vale la regola: fare un po’ di sacrificio, ma non pretendere la chiesa sotto casa, perché sarebbe come pretendere la Messa: e la Messa, ripetiamo, non è un diritto sindacale. Non c’è scritto da nessuna parte che i fedeli abbiano diritto alla Messa; al contrario, se la devono guadagnare. Certo, tutto questo discende da un filosofia ben diversa da quella che si è fatta strada, negli ultimi anni, fra il neoclero buonista e progressista: la stessa filosofia che non vorrebbe negare la Comunione neanche ai pubblici peccatori, neanche ai divorziati risposati, neanche alle coppie omofile. Certo: se si adotta un tale punto di vista, tutto il resto diventa logico: la Chiesa diventa un servizio pubblico, e la gente ha diritto di aspettarsi dei servizi pubblici sempre più comodi ed efficienti. Ma è un punto di vista radicalmente sbagliato, e infatti sta dando dei pessimi frutti.

Sia come sia, poniamo che un sacerdote, d’accordo con i suoi parrocchiani, e d’accordo col suo vescovo, a un certo punto giunga alla conclusione che, effettivamente, c’è bisogno di un nuovo luogo di culto, oltre alla chiesa parrocchiale, per venire incontro alle necessità di una parte dei fedeli, quelli che abitano più fuori mano. In tal caso, se non ci sono che pochi soldi a disposizione, una soluzione come quella adattata per la vecchia chiesa di S. Anna, in via dei Molini, ci sembra senz’altro dignitosa, e tutt’altro che disprezzabile. L’esterno non è certo un capolavoro di bellezza, ma l’esterno, dopotutto, non è che l’involucro di una chiesa: il cuore è all’interno. Lasciamo che gli architetti vanitosi, secondo la moda degli ultimi anni, concentrino ogni loro attenzione sull’esterno, per fare bella figura o comunque per attirare l’attenzione della gente, in modo che si parli molto di loro. È una maniera di concepire l’architettura sacra, tipicamente moderna: il massimo risalto per l’architetto, attraverso il massimo colpo d’occhio all’esterno della chiesa; il che comporta il rischio di un vero e proprio snaturamento spirituale dell’edificio sacro, che non dovrebbe essere eretto per piacere alla gente, per piacere a tutti, anche ai non credenti, perché, in tal caso, se ne perderebbe di vista lo scopo: creare un ambiente idoneo alla sacra liturgia dei fedeli, e per i fedeli, in modo che essi possano incontrarvi Dio. Per secoli e secoli è così che si sono costruite le chiese cristiane. Per secoli e secoli, chiese, basiliche, santuari e cattedrali sono stati costruiti badando soprattutto alla spiritualità: delle più belle e famose cattedrali non conosciamo neppure il nome degli architetti che le progettarono, perché essi non se ne vantavano, e consideravano l’opera finita come il prodotto degli sforzi e della fede dell’intera comunità. Quel che conta davvero, per il credente, non è l’esterno, ma l’interno; e l’interno della vecchia chiesa sussidiaria di S. Anna è superiore ad ogni elogio. È difficile immaginare un risultato più felice con mezzi tanto modesti: ma come avviene quando si opera con il cuore, quel che conta non è disporre di molto denaro, ma lasciarsi guidare da una forza spirituale, e il cristiano sa bene da dove essa venga e chi egli debba ringraziare per essa. E allora diciamo che entrare nella vecchia chiesetta di Sant’Anna riserva una grossa sorpresa, rispetto a quel che ci si potrebbe immaginare giudicando in base all’esterno. È uno spazio raccolto, misurato, nitido, pulito e accogliente; ed è anche architettonicamente originale, pur nella sua semplicità. L’interno, formato ovviamente da un’unica aula rettangolare, ha il decoro e la solennità di una vera chiesa, pensata e realizzata con tutte le regole del buon tempo antico. Il merito è delle pareti impreziosite dalle specchiature marmorizzate grigie, che dilatano il volume e danno l’impressione di un ingrandimento prospettico, e delle lesene bianche che si stagliano sul grigio delle superfici e spartiscono in due le pareti. Il soffitto, invece, è piano e privo di qualunque decorazione, per giunta attraversato da una travatura centrale lungo tutta la sua lunghezza; però, lungo gli angoli superiori, una cornice di legno perimetrale abbraccia lo spazio e gli conferisce una particolare atmosfera di raccoglimento e di dolcezza domestica; di nuovo: come basta poco, a una mente sensibile, per movimentare e riscaldare un ambiente spoglio e disadorno. La navata è separata dall’area del presbiterio, che si trova alla sua stessa altezza ed è delimitata solo da balaustre lignee, per mezzo di un’arcata a tutto sesto, con due nicchie laterali adorne di due statue; sul piccolo e semplice altare, sormontato da un’ancora, piove la luce di due finestre laterali arcuate, creando un effetto mistico, accentuato dalle pareti intonacate a marmorino, come in certi sacelli paleocristiani dell’area adriatica e ravennate. Il pavimento, infine è coperto da un rivestimento plastico, che, se non è abituale nelle chiese, ma semmai nei corridoi degli ospedali o delle scuole, qui non stona affatto, perché sottolinea il senso di pulizia e di lucentezza che emana da tutto l’insieme. Che dire? Complimenti a chi ha pensato e realizzato un interno del genere, con mezzi finanziari chiaramente limitatissimi, ma, in compenso, con buon gusto e un briciolo di fantasia. Qui si entra volentieri per inginocchiarsi e pregare: a differenza di altre chiese della periferia udinese, come san Domenico o l’Assunzione della Beata Vergine Maria, ci sono i banchi e ci sono gli inginocchiatoi. Qui, evidentemente, l’ideologia modernista non è ancora penetrata ad imporre i suoi dettami, a pretendere che i fedeli restino in piedi, o che si siedano su delle sedie da locale pubblico, magari accavallando le gambe, come si fa all’osteria. Qui si sente la possibilità di un incontro silenzioso con il divino. Chi lo avrebbe detto, giudicando dalla strada e considerando la povertà, e quasi la trasandatezza, della facciata?

Crediamo si possa ricavare una morale dal confronto fra la povera, semplice, provvisoria chiesetta vecchia di S. Anna e quella modernissima, costosa, vistosa, magniloquente, realizzata nel 1994, con un interno che ci fa pensare a uno scenario da film di fantascienza, con risvolti decisamente horror, come se fosse un’astronave inglobata nella struttura interna di una gigantesca creatura aliena, un ragno gigantesco o un mostruoso insetto. La funzione di una chiesa è di creare uno spazio sacro attorno ai sacri Misteri e alla celebrazione dei Sacramenti: Battesimo, Confessione, Eucarestia, Cresima, Matrimonio e Ordine sacro: tutti, tranne l’Estrema Unzione, che avviene generalmente nelle case private o in ospedale. Non è un luogo dove si fa assemblea: per quello, ci sono l’oratorio e le sale parrocchiali. E non è un luogo che deve stupire o strappare l’ammirazione dei passanti, visto dall’esterno: per quello, ci sono le architetture profane, e ce n’è davvero per tutti i gusti. Lo stile della Chiesa, anche dal punto di vista dell’arte sacra, deve essere ben altro. La chiesa è anche un fatto artistico, ma è principalmente un fatto di fede: e siccome la fede è fede in Dio, e Dio è perfezione, quindi è anche bellezza, allora ecco che la bellezza del luogo e la bellezza della liturgia, dei canti, dei paramenti, di tutto l’insieme, sono funzionali allo scopo precipuo, che è quello di favorire l’incontro dell’uomo con Dio. Questo si attua nella trascendenza, non nell’immanenza: se così non fosse, il Pane eucaristico sarebbe solo pane, e il Vino eucaristico sarebbe solo vino. Per incontrare il Corpo e il Sangue di Cristo bisogna sollevarsi dalla dimensione dell’immanenza a quella della trascendenza. L’errore macroscopico di una certa liturgia, conciliare e postconciliare, è stato quello di avvicinare Dio facendo perno sull’uomo, quasi che si potesse abbassare il divino per render la fede più facile e comoda, quasi un prodotto di consumo. Invece la fede è impegnativa, ardua, ascetica e richiede lo slancio dell’anima verso l’alto: cioè verso il superamento delle passioni carnali. Oggi la neochiesa celebra delle messe che non sono tali, perché vi si giustifica il peccato e vi si ammettono i peccatori impenitenti, che quasi si gloriano di esserlo. E, a proposito di arte sacra degenerata, valga per tutti l’osceno affresco del duomo di Terni, voluto dall’allora vescovo Paglia…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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