
Rabbiosi e disperati perché in guerra con la realtà
13 Maggio 2018
Se la Chiesa è per il mondo, non è per la fede
14 Maggio 2018La teologia della liberazione, alla fine, ha vinto. Come il modernismo, condannato a suo tempo da Pio X, così la teologia della liberazione, benché (parzialmente) condannata da Giovani Paolo II, si è presa la rivincita più grande che potesse sognare: è divenuta il lievito di tutta la pastorale dell’attuale pontificato di Francesco; ispira tutta la liturgia e tutta la dottrina; è divenuta l’elemento centrale, senza il quale non si può nemmeno immaginare di parlare a nome della Chiesa, oggi. Ma è una vittoria legittima? E si fonda su un dato reale, oppure su un grande equivoco e su di una colossale mistificazione? La teologia della liberazione afferma l’opzione preferenziale per i poveri; non solo: essa dichiara, risolutamente, che Dio si identifica con i poveri. Benissimo; peccato che non si prenda il disturbo di spiegare e di vedere da vicino chi siano i poveri. Chi siano i poveri del Vangelo, ben s’intende, chi siano i poveri ai quali si rivolge Gesù Cristo, nelle sue azioni e nelle sue parabole e nei suoi insegnamenti; non chi sono i poveri secondo i teologi e i vescovi e i sacerdoti seguaci della teologia della liberazione. Sembrano la stessa cosa, invece sono due cose diverse: ecco il trucco. Perché se si dovesse scoprire che i poveri di cui parla Gesù non sono, o non sono esclusivamente, i poveri in senso materiale ed economico, e se si dovesse scoprire, del pari, che Egli non si è mai sognato di dire, o anche solo di pensare, come essi invece fermamente sostengono, che la povertà deve essere "sradicata" per poter affermare il regno di Dio sulla terra, anche per il non trascurabile dettaglio che Gesù ha detto e ribadito, in tutte la maniere possibili, che il suo Regno non è di questo mondo, allora tutto l’edificio dei teologi della liberazione cadrebbe, come un misero castello di carte, e verrebbe fuori la verità vera: che essi non parlano a nome del Vangelo di Gesù, quale noi lo conosciamo dalle Scritture e dalla Tradizione, bensì a nome di un vangelo (con la minuscola) tutto loro, laicista, immanentista, neomarxista, materialista, economicista e storicista; che il vangelo di cui si riempiono la bocca è una loro invenzione e che il Regno di Dio, di cui parlano incessantemente, è il paradiso dell’uguaglianza, intesa in senso politico e sociale, vale a dire esattamente il contrario di ciò che intendeva il nostro Signore Gesù Cristo, allorché annunciava e predicava il regno del Padre suo celeste e l’uguaglianza morale fra tutti gli uomini, in quanto tutti ugualmente suoi figli.
Ora, è palese il tentativo dei teologi della liberazione, e di tutto il clero che si è messo alla loro sequela, dal signor Bergoglio in giù, di brandire il concetto di Dio che sceglie di stare dalla parte dei "poveri", come una clava da abbattere sulla testa dei "ricchi"; è palese, cioè, il loro tentativo blasfemo di trasformare il Vangelo di Gesù, che è il Vangelo dell’amore rivolto a tutti gli uomini, in un vangelo analogo a quello di Marx, che predica la lotta di classe e quindi l’odio di classe, insomma di strumentalizzare la Parola di Gesù per farne un’arma da agitare contro le classi abbienti e ridurre la Buona Novella alla sola dimensione politico-sociale, snaturandola completamente. Il fatto è che Gesù, quando parla dei poveri, non parla sempre e solo dei poveri in senso economico e materiale, ma anche di quell’altra povertà, non meno terribile, che è la lontananza da Dio (oppure, all’opposto, di quella povertà positiva che consiste nel farsi piccoli e umili davanti a Dio); e che non vuole affatto "sradicare" la povertà, sempre in senso economico, perché al centro del suo messaggio c’è la conversione interiore. Che, poi, la conversione interiore si traduca anche in un cambiamento nello stile di vita; che il vero seguace di Gesù impari a disprezzare le ricchezze, così come tutte le cose che possono allontanare da Dio, questo è un elemento consequenziale, ma non è il fine. Non solo. Se si pone l’accento esclusivamente sulla scelta preferenziale di Gesù per i "poveri", si rischia di mitizzare e di idolatrare i poveri stessi, così come i ricchi mitizzano e idolatrano il denaro. Gesù non pensa che i poveri siano migliori dei ricchi solo perché hanno meno soldi; semmai, possono essere migliori perché non sono schiavi delle ricchezze (che non hanno) e quindi la loro anima è più aperta e disponibile ad accogliere la Lieta Novella.
Ecco cosa scrive, ad esempio, monsignor Giacomo Canobbio, presidente dell’Associazione teologi italiani dal 1995 al 2003 e professore di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, nel suo saggio Ermeneutiche latino-americane della liberazione (in: Hermeneutica, annuario di filosofia e teologia fondata da Italo Mancini, Nuova Serie, Brescia, Morcelliana Editrice, 2000, pp. 222-225):
Il ‘fondamento teo-logico’ della assunzione della prassi di liberazione come luogo del comprendere sta nella identificazione tra Dio e i poveri, che sono il ‘sacramento di Dio’. […]
Si è già detto che la Teologia della liberazione nasce da un’esperienza spirituale vissuta all’interno del conflitto sociale e in solidarietà con gli assenti dalla storia. Tale esperienza ha come due poli: l’esperienza della povertà e l’esperienza della fede. La seconda conduce a scoprire nella condizione di povertà il volto di Cristo inteso come il servo sofferente, e ad accettarne la sfida. In tal senso si può dire che "la Tdl ha trovato la sua sorgente nella fede che vuole misurarsi con l’ingiustizia fatta ai poveri" (L. e C. Boff, "Come fare teologia della liberazione"; Cittadella, Assisi, 1986, p. 12s). D’altra parte, come richiamano ad ogni pie’ sospinto i teologi della liberazione, è stata l’esperienza della povertà che ha reso possibile leggere in modo nuovo la parola di Dio e la tradizione credente.
"In questa esperienza e a partire da qui è emersa la parola decisiva del Dio di Mosè e di Gesù: questa situazione non è la sua volontà" (R. Oliveros, "Storia della teologia della liberazione", in "Mysterium Liberationis", – Cittadella, Roma-Assisi, 1992, p. 42).
Da una parte si pone, quindi, una situazione; dall’altra si esprime su di essa un giudizio a partire dal volto e dal messaggio del Dio di Mosè e di Gesù. La situazione di povertà diventa luogo nel quale si legge e, finalmente, si comprende come sia Dio e si comprende cosa significhi amare Dio e il prossimo. "Amare Dio e il prossimo significa uscire dalla mia strada ed entrare nella strada degli oppressi, dei colpiti dall’ingiustizia, per impegnarsi nella loro causa" (ivi, p. 45).
È qui che si incontra Dio, perché Egli ha mostrato di identificarsi con i poveri. Sono essi infatti il luogo privilegiato della manifestazione di Dio e insieme i portatori fondamentali della buona novella della liberazione. Chiunque voglia, pertanto, fare teologia della liberazione in modo adeguato deve "superare l’esame preliminare" dell’unione con i poveri (C. Boff, "Epistemologia", in "Mysterium lib.", cit., p. 108).
"Per usare l’immagine dell’albero, possiamo dire che la radice della teologia della liberazione è l’esperienza della presenza e della rivelazione di Dio nel mondo dei poveri" (P. Richard, in "Myst. lib." p. 190). E se fare teologia vuol dire comprendere la rivelazione di Dio, non si potrà non passare dai poveri, per il fatto che tra rivelazione e poveri esiste un legame strutturale (J. Sobrino, "El principio misericordia", Sal Terrae, Santyander, 1992, p. 55). La Teologia della liberazione è la teologia che ha colto questo legame, prestando attenzione al "fatto maggiore" ("el hecho mayor") della irruzione dei poveri; si presenta quindi come la teologia maggiormente adeguata per un mondo sofferente. In verità, di fronte a questo fatto si deve dare una risposta, che non può che essere questa: si deve sradicare la sofferenza dei poveri. In questo sta la misericordia, esercitando la quale si scopre che essa è centrale nella rivelazione.
"La misericordia è la relazione corretta di fronte al mondo sofferente ed è una reazione necessaria e ultima; senza accettare questo non ci può essere comprensione di Dio, né di Gesù Cristo, né della verità dell’essere umano, né ci può essere realizzazione della volontà di Dio né dell’essenza umana" (Sobrino, cit., p. 67).
Ora, se la misericordia è centrale nella rivelazione, dovrà esserlo anche nella teologia, sia come contenuto che questa deve chiarire e favorire, sia nello stesso teologare, di modo che questo sia "pure espressione della misericordia di fronte al mondo sofferente". In tal senso la teologia deve essere "intellectus misericordiae" (ibid). Con l’espressione si vuole ribadire che la teologia della liberazione è riflessione critica ("intellectus") sulla prassi di una misericordia primordiale adeguata alla sofferenza del mondo. Si può notare che a ragione della scelta dei poveri come luogo del comprendere e, prima che politica, "mistica" (e cioè l’identificazione di Dio con i poveri è "un’opzione teocentrica e profetica, che affonda le proprie radici nella gratuità dell’amore di Dio e da essa viene richiesta" (D. Gutierrez, "Una teologia della liberazione ecc.", in "Teologie al plurale. Il caso dell’America Latina", EDB, Bologna, 1999, p. 79).
Dio ascolta il grido del suo popolo e prende partito per gli schiavi; di più Gesù, rivelazione di Dio, è rifiutato, emarginato e assassinato.
"L’identificazione con i poveri indica l’atto con il quale Dio lega il suo destino storico con quello delle masse spogliate e umiliate, e non per un romanticismo della miseria, bensì per liberarle da essa." (C. Duquoc, "Liberacion y progresismo, Sal Terrae, Santander, 1989, p. 34).
In effetti , la ragione per cui la Teologia della liberazione assume il principio dell’opzione per i poveri non viene dall’esperienza sociologica della miseria del terzo mondo, bensì dalla Bibbia e questa letta sen alcun idealismo ontologico.
Purtroppo, e lo diciamo con profondo rammarico, non c’è una frase, non c’è una rigo di questo discorso che non susciti in noi l’impressione penosa di un radicale, irreparabile fraintendimento della parola di Dio e di un totale stravolgimento della retta prospettiva teologica. In compenso, questa lettura ci aiuta a comprendere meglio certe storture pastorali e, ultimamente, anche dottrinali, che si manifestano ai nostri giorni, specie da quando è stato eletto al soglio di san Pietro un argentino — il quale, peraltro, quand’era arcivescovo di Buenos Aires, non era affatto un sostenitore della teologia della liberazione -, così come certi concetti ricorrenti, come "misericordia", i quali, nella specifica accezione che hanno nel contesto latino-americano, non coincidono affatto con ciò che s’intende nella tradizione teologica europea. E questo deve metterci in guardia dal pensare di poter tradurre un concetto, familiare ai teologi di un continente, pensando che corrisponda senz’altro a ciò che con esso si designa in un altro. Finché la teologia princeps del cattolicesimo era il tomismo, questo pericolo non esisteva, o era molto limitato, così come era limitato il pericolo di equivoci lessicali finché la lingua universale della liturgia era il latino, da un capo all’altro dell’orbe terracqueo. Ma col prevalere delle scuole teologiche locali, in cui si è frammentato il quadro dopo la messa in mora del tomismo e col prevalere degli indirizzi autonomistici dopo il Concilio, il rischio di piombare nel caos, anche in senso puramente linguistico, si è fatto quanto mai concreto.
Dunque, partiamo dal principio. Sorvoliamo sul gioco di parole fra teologia e logica del comprendere (teo-logico), come se solo la teologia della liberazione fosse un vero comprendere, e subito c’imbattiamo in un grosso sproposito, per non dir peggio: è possibile identificare tra Dio e i poveri, e dire che questi ultimi sono il ‘sacramento di Dio’? Assolutamente no. A meno che facciamo di Dio un sinonimo di umanità, come Mazzini e tanti altri pensatori (massoni), e a meno di divinizzare gli uomini, facendone il sacramento di Dio, ossia capovolgendo la retta prospettiva, secondo la quale i Sacramenti di Dio sono l’aiuto soprannaturale che Egli dà agli uomini per conoscerlo, amarlo e servirlo, e non certo un qualcosa di umano, di immanente. Ciò vuol dire umanizzare Dio e cadere nel panteismo, aprendo la strada all’ateismo. Dio non è venuto sulla terra per divinizzare gli uomini, poveri o meno, ma per chiamarli a sé, innalzandoli sopra il mondo.
La Teologia della liberazione nasce da un’esperienza spirituale vissuta all’interno del conflitto sociale. Certo: e proprio qui sta il male. La teologia non deve partire da un’esperienza vissuta all’interno della storia, perché, se così fosse, non troveremmo mai Dio, ma sempre e solo l’uomo, o, al massimo, l’idea che l’uomo si è fatta di Dio. Certo, i teologi della liberazione sono in buona compagnia. Gran parte della teologia del XX secolo, specialmente protestante, parte dall’assunzione di un punto di vista umano, tutto interno alla storia; e Karl Rahner con la sua svolta antropologica non ha fatto che ufficializzarlo, portando il modernismo, già scomunicato da Pio X, ai fasti del Concilio Vaticano II. Ma Rahner non è un teologo cattolico, è un teologo immanentista, modernista e irreligioso. Si dirà che il teologo, come uomo, non può che porsi all’interni della storia; vero: ma, come uomo di fede, può e deve chiedere a Dio di poter comprendere il senso soprannaturale della Rivelazione. Altrimenti, si riduce la Rivelazione a una cosa tutta umana: se ne fa, appunto, una delle tante ideologie di questo mondo, una versione vagamente religiosa della lotta di classe. E se un teologo cattolico non è capace di schiudere, a se stesso e agli altri, la soglia del soprannaturale, con l’aiuto di Dio, allora è meglio che cambi mestiere e che si metta a fare il sociologo, o il sindacalista, o il politico, a scelta. Perché di Gesù Cristo non ha capito nulla.
È stata l’esperienza della povertà che ha reso possibile leggere in modo nuovo la parola di Dio e la tradizione credente? Sì: ed per questo che la teologia della liberazione è fuori dal cattolicesimo. La teologia cattolica non dovrebbe neanche sognarsi di leggere in modo "nuovo" la parola di Dio. Che cosa significa una simile espressione, se non che essa tiene a battesimo una nuova versione del Vangelo? Il che è eretico, e non c’è bisogno di spiegare perché. È come se questi signori dicessero che, per millenovecento anni, la Chiesa cattolica non ha capito il vero senso della Rivelazione; ma, per fortuna, ora sono arrivati loro, e ogni cosa va finalmente al suo posto. Bravi, complimenti. Ma che cosa credono, che non ci fossero i poveri al tempo di Gesù? E che san Pietro, san Paolo, sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino, i Padri della Chiesa, i teologi, i vescovi, i sacerdoti, i papi che si sono succeduti fino al Vaticano II, fino a Pio XII, non avessero occhi per vedere i poveri, non avessero orecchi per udire il loro lamento? Certo che li avevano; ma avevano capito quello che i signori della teologia della liberazione non hanno capito, né mai capiranno: che Gesù non è venuto affatto a sradicare la povertà, anzi, ha detto chiaramente che avremo sempre i poveri fra noi, mentre Lui lo abbiamo avuto per una volta sola. Quanto alla tradizione credente, non sappiamo cosa sia. Sappiamo cos’è la Tradizione (con la maiuscola), e sappiamo che essa viene da Dio; ma cosa sia codesta tradizione credente, che pare una cosa tutta umana, non lo sappiamo, né c’interessa saperlo. La sola cosa certa è che la Tradizione non muta con il mutar dei tempi e con quello delle mode teologiche: se ne facciano una ragione, gli esegeti della "discontinuità" postconciliare.
Ci sarebbe poi molto da dire del Dio di Mosè e di Gesù: ci limitiamo a osservar che, se si è cristiani, si pensa che il Nuovo Testamento non solo completi, ma oltrepassi l’Antico in maniera decisiva. Se così non fosse, basterebbe farsi circoncidere e divenir giudei (e infatti qui siamo arrivati, dopo il Concilio, grazie agli spropositi teologici di Giovanni Paolo II e di Francesco); ma non è vero. Il Dio di Gesù, fino a prova contraria, è Gesù stesso (chi ha visto me, ha visto il Padre); il Dio di Mosè, invece, è un Dio che non si è ancora del tutto rivelato. Dunque non sono la stessa cosa.
La situazione di povertà diventa luogo nel quale si legge e, finalmente, si comprende come sia Dio e si comprende cosa significhi amare Dio e il prossimo? Niente affatto. Oltre all’assurdità di quel "finalmente", come se nessuno avesse capito chi è Dio prima della teologia della liberazione, resta l’equivoco sul concetto di povertà: sì, per capire chi è Dio, bisogna essere poveri; ma non in senso economico, bensì in senso spirituale. Altrimenti, si cadrebbe in una doppia bestemmia: che nessun ricco capirà mai chi è Dio, e che tutti i poveri, per il solo fatto di essere poveri, lo capiscono senz’altro. Ma se è così, come mai lo capiscono solo ora? Anzi, come mai lo capiscono, per conto loro, i teologi della liberazione? Forse perché quei signori, in America Latina, si vergognano del fatto che il clero, ai tempi del colonialismo, sia stato dalla parte dei conquistatori, e adesso devono esorcizzare i loro sensi di colpa, facendo vedere che stanno incondizionatamente dalla parte degli sfruttati? Ma se il clero, in passato, ha sbagliato, stando dalla parte dei dominatori, ora sbaglierebbe a stare dalla parte dei poveri solo perché poveri. Sarebbe un clero politicizzato, esattamente come lo era (se pure lo era) quello di un tempo, solo in una direzione opposta. Ma questo non è un capire meglio la Rivelazione: è rispondere a un errore con una altro errore, uguale e contrario. Inoltre, una domanda: che c’entrano i cattolici europei con i rimorsi e i sensi di colpa del clero latinoamericano?
E veniamo a el hecho mayor, al fatto maggiore: è vero che la teologia della liberazione è la teologia maggiormente adeguata per un mondo sofferente? A questa domanda vorremmo rispondere con un’altra: cosa intendono i vari Boff, Sobrino, Gutierrez, ecc., con mondo sofferente? Se intendono l’America Latina, allora non sono cattolici, perché cattolico significa universale; dunque la teologia cattolica si rivolge a tutti gli uomini in tutti e cinque i continenti, a tutte le classi e gli strati sociali. Oppure intende che il mondo soffre, in quanto mondo? Se è così, svanisce la "novità" di codesta teologia; svanisce la ragion d’essere di tutti i suoi "finalmente". E non è affatto provato che Gesù è venuto a prendere partito per i poveri e a sradicare la loro oppressione. Niente affatto. È venuto a combattere contro il peccato e la morte, e non a guidare rivoluzioni sociali: perché la sola rivoluzione predicata da Gesù è quella dell’uomo che accetta di lasciarsi trasformare dal Vangelo…
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