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24 Aprile 2018Che il Concilio Vaticano II sia stato, niente di meno, una nuova Pentecoste, è un concetto che si sente esprimere qualche vola, ma che è comunque implicito nella mente dei suoi più strenui sostenitori. Ed essi ci hanno ornai abituati – cioè, hanno talmente abituato tutti gli altri, a cominciare dagli altri cattolici – a considerare come perfettamente lecito e normale questo punto di vista, che è il loro punto di vista, da aver oscurato il piccolo dettaglio che si tratta di un concetto assolutamente improponibile, e specialmente per un credente: diciamo pure, senza paura delle parole, anzi, armati della verità delle parole, che è un concetto eretico. E tanto peggio se a formularlo per primo è stato proprio il papa del Concilio, Giovanni XXIII (il che fa chiarezza, per chi ha occhi per vedere, sulla inanità degli sforzi di quanti vorrebbero separare le responsabilità di lui da quelle di certi "esagerati" fautori del Concilio, i quali si sarebbero spinti al di là delle sue intenzioni). I fatti sono fatti e con essi non si litiga: si può solo cercare di capirli; e poi, eventualmente, tentare di modificarli: ma negarli, no, non è cosa onesta, né saggia. Perché diciamo che il concetto di una nuova, ovvero di una seconda Pentecoste, è eretico, anche se viene formulato dalla bocca di un papa? Perché la Rivelazione cristiana, così come la Chiesa cattolica l’ha fedelmente custodita per millenovecento anni (e se non credessimo a questo, non potremmo dirci cattolici) insegna che essa è definitiva e immodificabile. Esistono, certo, le cosiddette rivelazioni private, ma esse non impegnano più la fede del credente, bensì solamente le sue opinioni. E anche in quei casi nei quali la Chiesa riconosce la soprannaturalità degli eventi in questione (come nei casi di Lourdes, o di Fatima), tale riconoscimento non implica che le rivelazioni fatte a delle singole persone, ad esempio a Bernadette Soubirous o ai tre pastorelli portoghesi, diventino articoli, e tanto meno, dogmi di fede, per tutti i credenti; i quali, al contrario, sono liberi di credervi, a titolo personale, oppure no, ma senza che ciò impegni la loro fede cattolica, né quella di altri. Resta pertanto vero e incontrovertibile che, per il Deposito della fede, così come il Magistero lo tramanda, lo espone e lo precisa, esiste una ed una sola Pentecoste, esattamente come esiste una ed una sola Incarnazione, una ed una sola Resurrezione, una ed una sola Ascensione di Gesù Cristo. Non possono essercene due, o tre, o quattro: il solo pensarlo equivale a una eresia.
Ma, obietterà prontamente qualcuno, lo Spirito non cessa di scendere sulle anime e di agire in esse, per mezzo della grazia: le stesse Scritture lo insegnano, tanto nei Vangeli, quanto nelle epistole paoline e in altri testi, compresa l’Apocalisse. Vero: ma questo concetto non equivale a quello di una seconda o terza Pentecoste: nossignori. La Pentecoste è la Pentecoste, ed è una sola: è un evento, storico e soprannaturale al tempo stesso, che ha coinvolto gli Apostoli e la Madre di Gesù, cinquanta giorni dopo la Pasqua, e li ha riempiti di Spirito Santo. Si è trattato di un evento non solo interiore e spirituale; non solo di un’esperienza mistica; ma anche di un fatto caratterizzato da manifestazioni fisiche: il vento impetuoso dentro la stanza a porte chiuse, le fiammelle che si sono posate sulla testa dei presenti, simili a delle lingue di fuoco. Insomma, un evento assolutamente unico e irripetibile. E tuttavia, insisteranno i nostri critici (ben venga la critica, quando è costruttiva e in buona fede) nessuno può negare che lo Spirito Santo fosse presente anche nell’assembla conciliare, quando i Padri si riunirono per far udire al mondo la loro voce. Senza dubbio: ma ciò vale per tutti i Concili; vale anche per tutte le sante Messe che si celebrano nel mondo; vale per tutte le occasioni in cui due o tre cristiani si riuniscono nel nome di Gesù, come Lui stesso ha promesso; e vale anche per il singolo credente, il quale, riconciliato con Dio mediante i Sacramenti, prega sinceramente e fervidamente che Egli lo illumini, lo assista, lo sostenga. Ciò non vuol dire che si tratta di altrettante Pentecosti, a meno di voler usare il termine "pentecoste" come un nome comune e non come il nome che indica un fatto, storico e soprannaturale, ben preciso e ben definito nello spazio e nel tempo. Oppure è proprio questo che vogliono fare, coloro i quali lo adoperano con tana facilità e disinvoltura, specialmente quando essi parlano del Concilio Vaticano II? Ecco, forse qui siamo arrivati al nodo della questione. Chiamare il Concilio una seconda Pentecoste ha l’effetto di trasformare il Concilio in una astrazione metafisica, in una realtà auto-evidente in tutti i suoi aspetti; sottrarlo alla contingenza storica e proiettarlo nell’assoluto. Ma questa è una operazione scorretta. Di assoluto, nella fede cattolica, c’è solo la Rivelazione di Dio attraverso Gesù Cristo, il suo Figlio Unigenito: e nella Rivelazione esiste una sola Pentecoste, come esiste una sola Resurrezione. Il Concilio Vaticano II, come ha osservato lo storico Roberto De Mattei, è un fatto storico, è uno dei ventuno concili che si sono succeduti nella storia della Chiesa; e, fra parentesi, il solo sul quale esistano delle perplessità riguardo ad alcune sue formulazioni dottrinali (benché la sua volontà dichiarata fosse quella di essere un concilio meramente pastorale: cosa, peraltro, di per sé contraddittoria e impossibile, tanto è vero che nessun concilio, dei venti che lo hanno preceduto, è stato voluto e convocato per ragioni puramente pastorali e con obiettivi puramente pastorali). E in quanto fatto storico, può e deve essere valutato, discusso ed, eventualmente, criticato. Ma era presente in esso lo Spirito Santo?, si potrebbe chiedere. Sì, era presente, ma questo non significa che tutti gli atti del Concilio, che tutte le persone che vi hanno preso parte, che tutti i documenti, fino all’ultima virgola, e tutte le sue decisioni, siano state assistite o ispirate dallo Spirito. E questa è appunto la differenza con la Pentecoste, quella vera, la sola Pentecoste che un cattolico conosce e riconosce come tale: che nella pentecoste degli Apostoli e di Maria, lo Spirito è disceso abbonante e incontrastato; nelle condizioni storiche ordinarie, invece, esso agisce, ma fino a un certo punto, perché gli uomini non sono interamente pronti ad accoglierlo, e non già perché la sua potenza soprannaturale sia diminuita. C’è forse qualcuno che se la sente di "garantire" che in tutti gli oltre 2.500 padri presenti all’apertura del Concilio, esistevano le condizioni perché lo Spirito agisse pienamente e santamente? Anche nel suo massimo ispiratore, il teologo gesuita Karl Rahner, che ragguagliava sull’andamento dei lavori la sua amante tedesca, con la quale si scambiava affettuosi nomignoli e allusioni erotiche? Anche in lui era presente lo Spirito, e la sua azione poteva dispiegarsi efficacemente? Qualcuno dirà che la carne è debole, ma la fede rimedia a tutto. Certo: per i luterani. Un cattolico non la pensa così. Per un cattolico, il peccato è peccato; e fino a quando l’anima non si è riconciliata con Dio, il Soffio divino non può agire in essa, perché non trova le condizioni sufficienti per entrarvi.
E non sono stati solo i peccati della carne a rendere improbabile il concetto stesso di una seconda Pentecoste, applicato al Concilio: ma lo è stato, ancor più, il peccato della superbia. Molti padri conciliari hanno confidato orgogliosamente in se stessi, nelle loro idee, nella loro cultura, nella loro volontà di cambiamento, ma, a quanto è poi emerso, non abbastanza in Dio, che solo sa e fa bene ogni cosa. Oggi sappiamo che esisteva una vera e propria congiura, preparata da tempo da alcuni vescovi progressisti e neo-modernisti; e che essi si presentarono al Concilio con un piano preciso, molto determinati a impadronirsi dei lavori conciliari, dettando la linea fin dalla loro apertura: il che puntualmente accadde, quando gli schemi preparatori, già predisposti e approvati dal papa fin dal luglio 1962, vennero rifiutati, e il Concilio assunse l’aspetto di una rivoluzione. Di nuovo, non ci si spaventi per le parole: le parole non fanno male, se sono veritiere; fanno male quando nascondono una menzogna. Dire che il Concilio si trasformò in un evento rivoluzionario non è tradire la verità, ma è dire la verità, che finora i cattolici progressisti non hanno mai detta. Essi presentano come normali le cose più anormali: prima fra tutte, quella di chiamare il Concilio con l’espressione di seconda Pentecoste. Non è solo una falsità, è anche un’eresia, per le ragioni che abbiamo spiegato. Un’eresia detta allo scopo di sottrarre la discussione sul Concilio all’ambito degli eventi storici e trasformarla in un evento soprannaturale, dunque indiscutibile. Ma questo è un vero e proprio capovolgimento del procedimento che si richiede a chiunque voglia fare un ragionamento corretto: dallo studio dei fatti si risale a formulare un giudizio su di essi; non potrà mai essere un fatto a fissare il criterio per stabilire la giustizia e la verità dei fatti. A meno che si tratti, appunto, dei fatti della Rivelazione: l’Incarnazione, la Passione e Morte, la Resurrezione, l’Ascensione, la Pentecoste. Questi sono fatti, ma sono i fatti che Dio ha realizzato per amore degli uomini. Nei fatti storici, anche in quelli da Lui ispirati, può essere presente lo Spirito Santo, senza che ciò renda quei fatti assoluti e indiscutibili, cioè equiparabili ai fatti della Rivelazione. Ora, proprio a ciò mirano i corifei dello "spirito" (con la minuscola) del Concilio: a negare a chiunque la libertà di giudicare il Concilio come un fatto storico, come tutti gli altri succedutisi nella vita della Chiesa, e a trasformarlo nel paradigma di ciò che la Chiesa deve essere (magari ignorando le decisioni e le verità formulate dai venti concili precedenti).
E adesso torniamo a Giovanni XXIII e alla sua formula del Concilio come novella Pentecoste.
Diceva, dunque, in un importante convegno di studi sul Concilio tenutosi ad Assisi dal 27 al 31 dicembre 1985, monsignor Loris Francesco Capovilla (Pontelongo, Padova, 14 ottobre 1915-Bergamo, 26 maggio 2016), già arcivescovo-prelato di Loreto e segretario particolare di papa Giovanni XXIII, nonché cardinale nel 2014, a 98 anni di età, nella sua relazione intitolata: Giovanni XXIII, profeta della novella Pentecoste (in: A.A. V.V., Il Vaticano II nella chiesa italiana: memoria e profezia, Assisi, Cittadella Editrice, 1985, pp. 160-161):
Abitato dallo Spirito, nutrito con la Parola, papa Giovanni ha ripetutamente annunciato una "novella Pentecoste". L’ha proclamato l’8 dicembre 1962, nel discorso di chiusura della prima sessione del Concilio, con puntuale riferimento alle voci sino allora raccolte e dell’obbligante slancio apostolico dei chiamati all’assise ecumenica (cfr. DMC, V, pp. 24-31)"Sarà veramente una nuova Pentecoste che farà fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza e nel suo estendersi maternamente in tutti i campi dell’umana attività: sarà un nuovo balzo in avanti del regno di Cristo nel mondo". Preparare la novella Pentecoste è stato per lui il vero scopo del Concilio. ma come sarà questa novella Pentecoste? Dipende da ciascun battezzato che essa si riveli, secondo la previsione roncalliana, "un riaffermare in modo sempre più alto e suadente la lieta novella della redenzione, l’annuncio luminoso della sovranità di Dio, della fratellanza umana nella carità, della pace promessa in terra agli uomini di buona volontà, in rispondenza al divino beneplacito". Se si verificherà la novella Pentecoste, tutti coloro che "invocheranno il nome del Signore" (At 2, 2) "saranno assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (At 2,42) In tutte le comunità cristiane, insieme all’impulso incoercibile verso l’unità è sorta, per l’appunto, una volontà di rinnovamento spirituale, che contrasta la sfiducia di taluni nel profetico annuncio. E se forze contrarie frenassero il rinnovamento in atto? Se i cuori si chiudessero all’azione dello Spirito? Allora certamente la novella Pentecoste non potrebbe realizzarsi perché "se non crederete, non avrete stabilità" (Is 7,9). Il richiamo di queste gravi parole e della situazione in cui furono pronunciate da papa Giovanni, allorché lo si accusava di irenismo(cfr. DMCV, pp. 161-166), ammonisce a scuotersi dal letargo. Stabilità! È come dire: "Non si torna indietro. Non ci si ripiega su se stessi. Si va avanti". In proposito, uno sprazzo chiarificatore emana dall’unico messaggio di Giovanni Paolo I. Esso fa meditare chi dubitasse della irreversibilità del cammino intrapreso, della validità delle decisioni conciliari. [segue il radiomessaggio, del quale ci riserviamo di parlare in un’altra occasione].
Tutto ciò è abbastanza chiaro? Non solo Capovilla rivendica con orgoglio il concetto della novella Pentecoste (quando i concetti zoppicano, si ricorre agli svolazzi poetici: novella suona meglio di nuova), ma ricorre alle tipiche parole d’ordine dei progressisti d’ogni tempo: Non si torna indietro; si va avanti; nessuno pensi di poter frenare le riforme. È il linguaggio di una fazione ideologica contro un’altra: molto umano, moralmente discutibile e politicamente rivoluzionario. È come dire: Non faremo prigionieri; chi non è con noi sarà trattato da nemico. Ecco perché bisogna trasformare il Concilio in un’altra Pentecoste: perché ciò equivale a far passare i suoi critici per dei cuori chiusi che si oppongono all’azione dello Spirito Santo. Infine, egli ribadisce l’irreversibilità del cammino intrapreso, della validità delle decisioni conciliari. Lo farebbe, se non sapesse che una parte dei cattolici, e forse non la peggiore, non è affatto persuasa che il cammino intrapreso dal Concilio sia irreversibile, né che le sue decisioni siano tutte valide? Con sottile malizia, crea un ricatto morale basato sul fait accompli del colpo di mano conciliare. Due piccioni con una fava: auto-glorificare i riformisti e screditare i duri di cuore. Questo linguaggio vi ricorda, per caso, qualcosa o qualcuno?
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