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Troppo facile, troppo comodo, troppo umano

La caratteristica essenziale da cui si può riconoscere la falsa chiesa apostatica dalla vera Chiesa di Gesù Cristo è che la prima si muove secondo la direttrice di rendere agli uomini le cose più facili, più comode e più umane, nel senso di più materiali e senza confidare nella grazia soprannaturale, vale a dire senza aver veramente fiducia nella partecipazione dell’uomo alla vita divina, il che è puramente e semplicemente un tradimento nei confronti del cristianesimo. O si crede in Gesù Cristo, nostro Signore e nostro Redentore, o non ci si crede. Se ci si crede, si domanda a Lui tutto ciò che serve per combattere le tentazioni e per innalzarsi al di sopra del fango in cui siano quotidianamente immersi, come conseguenza del Peccato originale e della concupiscenza, la tendenza al male che abbiamo ereditato dai nostri antichissimi progenitori, dopo che ebbero disobbedito e si furono ribellati al Creatore amorevole. Se non ci si crede, allora si dispera di poter vincere le tentazioni e di potersi tirar fuori dal fango della palude; ed è allora che si concepisce l’idea, apparentemente furba, in realtà miserevole e squallida, di poter mutare lo statuto morale del peccato e dichiararlo non più peccato, ma lecita tendenza, spontaneo bisogno della natura umana; e, in nome del diritto della persona alla propria affermazione e alla propria realizzazione, si pretende che chiunque possa arrivare a un accomodamento con le pratiche peccaminose, magari con la benedizione della (falsa) chiesa, in modo da mettere a tacere, o meglio ancora prevenire, eventuali scrupoli di coscienza. Tutto questo è, appunto, molto, troppo umano: sa di scorciatoia vergognosa, d’inconfessabile mistificazione; sa d’ipocrisia alla rovescia, perché, mentre nell’ipocrisia "abituale" si assiste al tentativo di nascondere il peccato dietro l’apparenza della virtù, qui si assiste al tentativo di cancellare la virtù e di rovesciarla nel peccato, dichiarando che il peccato è cosa lecita e buona, se non proprio virtù in se stesso: la virtù — si dice, senza arrossire – della coerenza, dell’onestà, della franchezza. In nome di tale franchezza, lealtà, onestà, un sacerdote americano si è dichiarato omosessuale, e fiero di essere tale, davanti ai suoi fedeli, nel bel mezzo della santa Messa: e ha proclamato che intende restare in parrocchia e seguitare a svolgere le sue funzioni di parroco, perché non c’è niente di più normale che essere sacerdoti e omosessuali. La Chiesa, un tempo, insegnava che l’omosessualità è un disordine, e che la sua pratica è un peccato; per questo padre Gregory Greiten ha fatto la vittima, affermando di aver vissuto con pesanti sensi di colpa; fino a quando ha capito che quei sensi di colpa non avevano ragione di essere, che lui andava bene così, e che l’unico male era tener nascosto, per vergogna, il suo orientamento sessuale ai parrocchiani. Non è chiaro se con tale pubblica dichiarazione egli abbia voluto dichiarare la propria tendenza deviata, o l’indulgenza verso la pratica dell’inversione; nel primo caso, non ce n’era alcuna necessità, perché la Chiesa, appunto, non ha mai considerato la tendenza omosessuale come un peccato, anche se come un disordine oggettivo, in quanto contro natura, e raccomandato una vita di castità ed, eventualmente, dei percorsi terapeutici, assicurando da parte sua il pieno rispetto della persona; nel secondo caso, ha voluto far sapere a tutti di non voler rispettare il voto di castità e, forse, rendere nota la sua disponibilità ad esperienze omosessuali della sua stessa parrocchia. Se così fosse, e speriamo di no, sarebbe semplicemente ripugnante; in ogni caso, quel che padre Greiten ha ottenuto è stato di dare pubblico scandalo, inutilmente e per puro narcisismo, attirando su di sé l’attenzione, laddove sarebbe stato giusto e doveroso che si confidasse con un consigliere spirituale, e non già che sbattesse in faccia alle anime del suo gregge la verità che lo turba, perché, se non lo turbasse, non sarebbe stato nemmeno necessario che facesse quella esibizione. Anche se le persone come lui dicono e ripetono sempre di aver vinto ogni vergogna e ogni "irrazionale" senso di colpa, la loro maniera di ostentare la propria "diversità" (non parliamo, poi, del gay pride) dice tutto il contrario: che non stanno bene con se stesse, che non sono veramente in pace con la propria coscienza; che i conti della loro vita non tornano affatto.

Il cristianesimo non è una religione che abbassa il divino al livello dell’umano, ma che vuole innalzare l’umano verso il divino. Il senso dell’eresia modernista è tutto qui: avendo perso la fede, la vera fede, che è fede nel Dio Creatore e Redentore e nella vita eterna, ma avendola persa con cattiva coscienza, cioè senza volerlo ammettere, per orgoglio e per superbia intellettuale, i modernisti si sforzano di abbassare il divino al livello dell’umano, di togliere dal cristianesimo la dimensione del soprannaturale (oh, ma con molta astuzia e con somma abilità: ad esempio, sulla base di una lettura rigorosamente filologica della Bibbia, sfrondando i miracoli, uno dopo l’altro, fino ad arrivare… alla Risurrezione di Cristo, lo vero obiettivo finale) e così trasformarlo in una specie di prontuario pacifista, buonista, umanitario e ambientalista, in una ennesima versione del culto new age dell’uomo stesso, nel quale l’uomo si fabbrica da sé i suoi comandamenti, sulla base della sua coscienza soggettiva, e, quindi, con molta, ma molta larghezza di manica. È comodo: invece di combattere le proprie cattive tendenze, l’uomo le proclama un suo bisogno "naturale" (anche se, in realtà, contrario alla natura: perché anche la natura reca implicita la propria legge morale) e vi si abbandona, pur continuando a dichiararsi cristiano e cattolico. Oh, ma per carità, cattolico "adulto", "moderno", "aperto", "dialogante", "non clericale", insomma cattolico per modo di dire, cattolico all’acqua di rose, cattolico che viene a patti col mondo e con gli istinti, per poter fare il proprio comodo, sguazzare nel proprio fango e mangiare le sue brave ghiande, senza che qualcuno venga a dirgli, villanamente: Non ti è lecito, se sei cattolico, fare così!, come quel bigotto di san Giovanni il Battista che arrivò al punto d’indiscrezione e di villania di rimproverare al tetrarca Erode Antipa il fatto di vivere maritalmente con la moglie di suo fratello. Per un incesto simile, se non anche peggiore, quello di un giovane che viveva pubblicamente con la moglie di suo padre, san Paolo (nella Prima lettera ai Corinzi) ebbe parole di fuoco: disse che la Chiesa aveva il dovere di abbandonarlo nelle mani di satana, sperando che, almeno così, la sua coscienza avrebbe avuto un soprassalto di pudore e di onestà e avrebbe abbandonato il peccato, se non altro per salvarsi l’anima al cospetto dell’eternità. Non disse che bisognava "accompagnare" quell’uomo, e quella donna, né che bisognava compatire quelle anime ferite, che bisognava discernere, includere, gettare ponti, evitare ciò che divide, tener conto della complessità della vita e delle relazioni affettive che possono crearsi; non disse che bisognava aiutarli a liberarsi dai sensi di colpa, che bisognava rispettare il loro percorso (verso che cosa? verso il peccato mortale?), che bisognava astenersi dal giudicarli: non disse, come fa il falso papa Bergoglio: Chi sono io per giudicare? No; ma disse (1 Cor. 5, 4-5): nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati insieme voi e il mio spirito, con il potere del Signore nostro Gesù, questo individuo sia dato in balìa di satana per la rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore. Ecco come parla e come ragiona il vero cristiano, il vero cattolico; tutto il resto è chiacchiera modana e sporcizia, grottesco e sfrontato tentativo di nobilitare la sporcizia, di sdoganare il peccato e, per fare ciò, di rovesciare addirittura la dottrina morale del Vangelo.

Questo è il punto: pur di raggiungere il loro fine soggettivo ed egoistico, liberalizzare il proprio peccato, i modernisti che si spacciano per cattolici non esitano a trarne la conseguenza estrema, e blasfema, che è necessario stravolgere tutto il Vangelo: perché niente di meno è necessario, se si vuole arrivare al punto di scusare il peccato e di non chiamarlo più peccato. Il Vangelo è un tutto coerente, nel quale ogni cosa, ogni precetto si tengono l’uno con l’altro; se si toglie anche un solo mattone, si provoca il crollo dell’intero edificio — e non perché sia fragile, ma, al contrario, perché è straordinariamente compatto, e non soffre né accomodamenti, né compromessi con lo spirito del mondo, cioè con lo spirito del peccato. Ecco allora che i modernisti s’industriano di fare come Seramide, che a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fe’ licito in sua legge, per torre il biasmo in che era condotta (Dante, Inferno, V, 55-57). Una suora scopre di avere tendenze lesbiche, o indulge alla pratica omosessuale? Oppure, meglio ancora (si fa per dire), lo aveva sempre saputo, ed è entrata in convento niente affatto decisa a combattere tale sua tendenza, ma, anzi, spiando l’occasione di potervi indulgere nella maniera più esplicita? Nessun problema: la suora si fa teologa, si fa paladina della causa delle persone LGBT, e si adopera infaticabilmente per sdrammatizzare il peccato, per negare che esso sia tale e per "dimostrarle" che è solo la giusta affermazione dei bisogni umani. E tutto questo rivolgendosi, appunti, alle persone, laiche e soprattutto consacrate, di fede cattolica; perché, come dice padre Greiten, non c’è niente di più bello di una sacerdote o di una persona consacrata che sia anche, contemporaneamente, omosessuale . E così incomincia a fondare organizzazioni per rivendicare la dignità e la libertà di tali persone, se ne va in giro a tener conferenze, attira l’attenzione dei media, i quali prontamente la sostengono e ne amplificano la "popolarità", trasformandola in una specie di star mediatica e in una bandiera ideologica; e, se i suoi superiori bigotti e oscurantisti la ammoniscono, la mandano via da una diocesi o da un ordine religioso, se ne va in un altro, perché , di questi tempi, c’è sempre qualche vescovo o qualche ordine religioso al quale non pare vero di far vedere quanto è aperto, tollerante, moderno e progredito, e quanto è lieto di mettere in pratica la nuova prassi non giudicante e "misericordiosa" del signor Bergoglio.

Ecco: abbiamo tratteggiato il ritratto di una suora in carne e ossa, Jeannine Gramick, nata a Filadelfia nel 1942, attualmente in forza alle suore di Loreto ai piedi della Croce (dopo essere stata cacciata dalle Suore scolastiche di Nostra Signora), la quale è diventata un simbolo, un punto di riferimento, anzi perfino un mito presso tute le lesbiche e i gay cattolici americani e anche degli altri continenti, grazie alla sua instancabile attività di "promozione" a favore delle persone che si trovano in tale situazione: omosessuali e cattoliche. Anche se, specie ai tempo in cui il cardinale Ratzinger era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, suor Gramick è stata ripetutamente diffidata dal continuare ad insegnare la dottrina cattolica circa l’omosessualità in maniera difforme dal vero, lei ha continuato imperterrita, infischiandosene di ogni richiamo e aspettando pazientemente il momento buono, che, alla fine, è ben arrivato: quello dell’elezione del (falso) papa Bergoglio, in seguito alla quale ha potuto proseguire la sua battaglia con una libertà sempre maggiore e, semmai, circonfusa dall’aureola di un quasi martirio subito, ma anche con l’aria trionfante di chi è stato premiato dal girare della ruota della storia, e ha visto infine riconosciuti i suoi grandi meriti. Poteva mancare, a questo punto, il bravo produttore cinematografico, progressista e gay-friendly, che incarica il solito regista liberal di trasformare la storia di suor Jeannine in una bella e intrepida favola moderna, la favola della suora lesbica che si sveglia un mattino e scopre, proprio in virtù della sua inversione sessuale, di non essere più un brutto ed emarginato anatroccolo, ma un meraviglioso cigno, dall’aria radiosa e dal sorriso smagliante, come si addice alle favole di Hollywood? E così, difatti, è stato: la regista Barbara Rick ha girato il documentario In Good Conscience: Sister Jeannine Gramick’s Jouney of Faith, presentato con successo al Festival internazionale del Film con tematiche omosessuali, nel 2004; e, da quel trampolino, nel 2015 è venuta anche a Roma, a dissertare nel corso della conferenza Ways of Love, tenutasi negli stessi giorni del Sinodo della Famiglia, con il chiaro intento d’influenzarlo e metterlo sotto pressione (la stessa cosa che venne fatta dall’ingenuo e sprovveduto Charamsa, il quale, non avendo alle spalle l’establishment pro-gay di una grande industria cinematografica e una bella fetta di opinione pubblica, restò isolato e dovette subire lo smacco della sospensione a divinis). Quasi inutile aggiungere che la baldanzosa suor Jeannine, con la sua aria trionfante e compiaciuta da io-sì-che-sono-una-vera-sorella-al-passo-con-la-nuova-chiesa, ha dichiarato di confidare molto sul pope Francis effect per sdoganare definitivamente l’omosessualità nella Chiesa cattolica: e come dubitare che sarà presto accontentata, visto che il gesuita suo connazionale, James Martin, spopola sui social e nelle librerie, con le sue clamorose uscite che vanno nella stessa direzione, affermando, fra le altre cose, che, senza dubbio, un gran numero di santi del Calendario liturgico erano gay? Per intanto, la "coraggiosa" suora americana incassa gli elogi di personaggi come Nichi Vendola, e, per non occuparsi esclusivamente delle persone omosessuali, si attiva a firmare petizioni al Presidente degli Stati Uniti (Obama, s’intende) miranti a facilitare e rendere più ampio spettro delle cause di legittima interruzione volontaria della gravidanza. Poteva, una libertaria come lei, trascurare il fronte abortista e rinchiudersi nel "ghetto" della lotta per la liberazione omosessuale?

Tutto ciò mostra con chiarezza quali siano i veri obiettivi della neochiesa: facendo leva sul vizio, cancellare la nozione del peccato ed instaurare l’impero dei sensi, incassando il caldo sostegno dei media e della cultura progressista, e riscuotendo l’entusiastica adesione dei peccatori impenitenti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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