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Sanno quel che fanno, perciò sono inescusabili

Abbiamo già parlato di quel sacerdote di Milwaukee che professa la sua omosessualità in chiesa, all’assemblea dei fedeli, e di quell’altro, di Torino, che sostituisce una leziosa canzoncina "francescana" alla recita del Credo, affermando testualmente che lui, a quella formula, che poi è il compendio della fede cattolica, non ci crede: il tutto nel bel mezzo della santa Messa, la notte di Natale (cfr. l’articolo Due preti, una maestra e buon Natale, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/2017). Vorremmo ritornare su quei due episodi, da un punto di vista psicologico e morale, perché sono perfettamente rappresentativi della particolare perversione che sta stravolgendo, di questi tempi, il modo di sentire, di pensare e di agire di molti, troppi sacerdoti, ormai talmente impregnati di spirito modernista, laicista e progressista, da non aver più neanche la percezione, non diciamo del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del vero e del falso, ma neppure di ciò che è opportuno dire e fare, sulla base del semplice buon senso e di una normale sensibilità umana, quando si trovano in presenza delle anime che sono state affidate alle loro cure e si aspettano da loro ben altre parole ed altri gesti.

Ci sono due modi di sbagliare, quindi anche due modi di peccare: in piena consapevolezza, oppure senza rendersi conto della reale portata e di tutte le logiche conseguenze del proprio agire. Non si può dire: in buona e in male fede, perché nessuno sbaglia, e tanto meno pecca, del tutto in buona fede: esiste sempre un barlume di ragione, magari anche solo di ragione naturale, che fa suonare dentro di noi un campanello d’allarme, allorché ci accingiamo a fare una cosa sbagliata, e sia pure, ammettiamolo, per delle ragioni fondamentalmente giuste, o che a noi, in quel particolare momento e in quelle speciali circostanze, sembrano giuste. In buona fede, dunque, nessuno sbaglia e nessuno pecca: perché se c’è davvero la buona fede, allora non vi sono né errore, né peccato. Prendiamo il caso di una sentinella, la quale ha la consegna di non lasciare avvicinare alcuno alla polveriera cui sta facendo la guardia, ma di esigere da chiunque una parola di riconoscimento, senza la quale ha l’ordine di sparare. Ora, un tenente, nel suo giro d’ispezione notturno, gli si avvicina, nel buio, senza farsi riconoscere: la sentinella non l’ha mai visto, gli intima di fermarsi, ma quello non si ferma, forse per incoscienza, forse perché è inebriato del proprio potere. A quel punto la sentinella imbraccia il fucile e gli spara. Ha commesso un errore? No: ha eseguito fedelmente gli ordini. Ha commesso un peccato? Neppure, perché la legge di Dio non vieta di obbedire alle leggi umane, laddove esse siamo, di per sé, fondamentalmente etiche. E non vi è nulla d’immorale nel fatto che una sentinella riceva la consegna di non lasciar avvicinare alcuno, a nessun costo, a un deposito di munizioni; diversamente, con la sua trascuratezza, metterebbe in pericolo molte altre persone. Dunque, quella sentinella può, anzi deve, rammaricarsi di aver dovuto sparare, ma non di aver eseguito gli ordini precisi che aveva ricevuto: non deve scusarsi davanti agli uomini e non deve chiedere perdono a Dio, perché nulla, nella sua azione, si configura come una mancanza di rispetto della vita umana; non più di un incidente involontario, nel quale si investe una persona che ha attraversato la strada in maniera incauta, beninteso se si era perfettamente lucidi al volante, e non si aveva fatto uso né di alcolici, né di stupefacenti.

Limitiamoci, perciò, a considerare l’azione erronea e peccaminosa. È un errore ciò che si è fatto, ma non si doveva fare, in base alla logica delle cose; ed è un peccato ciò che si è fatto venendo meno al rispetto dovuto a Dio. La mancanza di timor di Dio implica la mancanza di amore per il prossimo e anche verso se stessi: l’omicidio e il suicidio, per esempio, sono azioni malvagie verso il prossimo e verso se stessi, perché sono un’offesa fatta a Dio. In casi estremi di forza maggiore, uccidere il prossimo (legittima difesa verso un pericolo grave e immediato) o andare volontariamente incontro alla morte (martirio cristiano davanti alla richiesta violenta di apostasia) non sono azioni malvagie, quindi non sono peccaminose. E non sempre ciò che è buono davanti a Dio lo è anche davanti agli uomini: rifiutarsi di collaborare alla pratica dell’aborto o a quella dell’eutanasia può essere considerato illegittimo dalle leggi umane, ma è legittimo davanti alla legge divina. Inoltre, non sempre ciò che appare umanamente come un errore, è anche un peccato: lo è solo se implica l’offesa a Dio; ma se, per restare fedeli a Dio, si agisce in maniera da andare contro il proprio interesse, ciò non è un errore, anzi, spiritualmente parlando è una cosa buona e giusta. A questo punto, le strade dell’errore e del peccato si divaricano: seguono due percorsi diversi e due logiche diverse. Non seguiremo il percorso dell’errore: ci limitiamo a prendere nota che la neochiesa odierna tende sempre più a sostituire il concetto laico di errore a quello religioso di peccato; il che è un gravissimo tradimento nei confronti della Verità e della fede cattolica. E adesso concentriamoci sul peccato, che sia fatto in piena coscienza oppure no, stante che nessun peccato viene fatto in buona fede, perché, se così fosse, l’uomo o sarebbe privo del libero arbitrio e allora avrebbe ragione Lutero (e con lui avrebbe ragione Bergoglio), quindi, coerentemente, non dovremmo pensare esistenti né l’inferno, né, a rigore, il paradiso, e neppure ammettere la necessità del Giudizio. Come potrebbe Dio giudicare le anime, o come potrebbero giudicarsi le anime da se stesse (ma sempre ispirate dalla divina Giustizia), se esistesse la possibilità di fare il male — e, a questo punto, anche il bene – senza saperlo e senza realmente volerlo? Ma in tal caso, gli uomini sarebbero sprovvisti anche della semplice legge morale naturale, data a tutti anteriormente alla morale divina; il che vediamo essere contraddetto dai fatti, perché gli uomini mostrano di avere la coscienza di quando agiscono bene, e così pure di quando agiscono male.

Prendiamo il caso del prete di Milwaukee, quello che ha trasformato l’assemblea dei fedeli in un pubblico involontario delle sue esternazioni relative alla propria sessualità. Se lo ha fatto durante la sanata Messa, come pare, ha commesso un sacrilegio in piena regola, perché ha scandalizzato i fedeli che erano venuti nella casa del Signore per partecipare al Sacrificio eucaristico. Ma anche se lo ha fatto subito prima o subito dopo, ha commesso ugualmente un’azione sconsiderata, perversa e peccaminosa: lo scandalo è appena meno grave, ma è sempre uno scandalo gravissimo e un pessimo segnale lanciato a quelle povere anime. Perché parliamo di un’azione sconsiderata, perversa peccaminosa? In primo luogo perché si è rivolto a tutti, bambini compresi, nel luogo sbagliato e nel momento sbagliato, per dichiarare la propria omosessualità, cosa che era perfettamente inutile se si tratta di una semplice inclinazione omosessuale, e perfettamente sbagliata se si tratta d’indulgere alla pratica omosessuale. Se padre Gregory Greiten, cinquantadue anni, ha un’inclinazione omosessuale, non vi era alcun motivo di dichiararlo a tutti i fedeli, dall’alto dell’altare. La dottrina cattolica non condanna alcuna inclinazione innata, semmai, come in questo caso, ricorda che essa è intrinsecamente disordinata, perché contraddice alle leggi della natura e a quelle di Dio. Egli aveva diverse altre strade davanti a sé: poteva rivolgersi a uno psicanalista, come fa Bergoglio (cosa che sconsigliamo di tutto cuore), il quale, sicuramente, non gli avrebbe prospettato l’intrinseco disordine della sua inclinazione, ma lo avrebbe guidato ad accettarsi così com’è; avrebbe potuto sottoporsi a una terapia, per esempio alla terapia ripartiva del professor Joseph Nicolosi, per individuare il passaggio negativo della sua vita psichica che lo ha portato "fuori centro", cioè a provare un’attrazione innaturale per le persone del proprio sesso; avrebbe potuto, meglio di tutto, affidarsi a un buon direttore spirituale, farsi guidare da un sacerdote esperto (sperando, di questi tempi, di trovarne uno di quelli veri e non fasulli) e soprattutto pregare, pregare, pregare. Avrebbe potuto e dovuto chiede aiuto e consiglio a Dio; e avrebbe dovuto interrogare la propria coscienza per verificare se si sentiva in grado di continuare a fare il sacerdote, senza venir meno ai voti, compreso quello di castità. Il cristiano è colui che confida in Gesù Cristo; rivolgersi a Lui nelle angustie e nei passaggi difficili della vita è ciò che lo distingue da chi cristiano non è. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò riposo: sono le parole di Gesù. Perché non ha seguito questa strada, padre Greiten, la più logica, la più naturale, la più giusta? Se l’avesse seguita, è impossibile che sarebbe giunto alla decisione di fare coming out davanti ai suoi parrocchiani, riuniti in chiesa per ben altre ragioni che ascoltare controvoglia la sua impudica "confessione". Che una confessione, poi, non era, perché le mancava la cosa essenziale, oltre al ministro appropriato per concedere l’assoluzione: il sincero pentimento e il proposito di non più peccare, ossia la metanoia, la conversione a Dio. Non quello che voglio io, Padre, ma quello che vuoi Tu: sono ancora le parole di Gesù Cristo, solo, di notte, nell’orto degli olivi, pochi istanti prima di essere arrestato come un malfattore; e se le ha pronunciate Gesù Cristo, le possono ben pronunciare, anzi, le devono pronunciare, i semplici uomini, i fedeli cristiani. Essere cristiani è fare la volontà del Padre. E qual è la volontà del Padre? Che noi viviamo nel disordine e negli appetiti dell’io, che li anteponiamo alla serenità e alla pace del prossimo, che noi li adoperiamo come un’arma per scandalizzare, turbare, confondere le anime del nostro prossimo? Davvero il Padre celeste, se quel sacerdote si fosse rivolto a Lui, gli avrebbe suggerito di agire come ha agito: di andare in chiesa e di abusare della sua veste di prete, della sua autorità di prete e del pulpito della santa Messa, per dichiarare ai quattro venti la sua omosessualità?

Se, poi, quel che egli voleva comunicare ai parrocchiani non era una sua tendenza, ma una sua pratica omosessuale, peggio ancora: quel che ha fatto è stata l’apologia del peccato mortale, di uno dei quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio: il peccato impuro contro natura. In pratica, ha voluto far sapere — ci dispiace dover scendere a un linguaggio così esplicito, ma è bene non usare troppi riguardi con quegli svergognati che riguardi non ne hanno — che gode a farsi sodomizzare: cosa che può interessare solo ai pervertiti come lui. Si noti, però, con quanta "sapienza", vorremmo dire con quanta maestria, costui è riuscito a indossare i panni della vittima, della persona ingiustamente emarginata, che riguadagna la stima e il rispetto di sé tramite la propria accettazione: ha accusato la Chiesa e la cultura cattolica di averlo fatto vergognare, per anni, di essere come era, così da non osar parlarne con alcuno. Ora che è giunto ad accettarsi e a volersi bene, è arrivato alla conclusione che era bene condividere con gli altri la sua pacificazione interiore. Tutto giusto, no? Un momento. La pace cristiana non è questa: il cristiano non giunge alla pace accettando la propria natura più bassa, ma innalzandola; non accettando i propri peccati, ma odiandoli; non vantandosi della propria immoralità, ma gettandosi ai piedi del Cristo e domandando a Lui la forza per sostenere la battaglia contro le tentazioni. Questo fa il vero cristiano e questo è quanto è giusto e normale aspettarsi da un qualsiasi sacerdote cattolico. Un sacerdote cattolico il quale ci venga a dire che ora si sente bene perché ha scoperto che non c’è niente che non va nel suo essere omosessuale e che non trova nulla di anomalo nel fatto di voler restare sacerdote, è un personaggio grottesco, che desterebbe pietà e compassione, se non facesse rabbia. Infatti, fa rabbia il peccatore che proclama non esservi peccato, per poter continuare a peccare, magari nel nome di Dio: fa rabbia che egli sfrutti il suo pulpito per dire simili cose, trascinando sui sentieri dell’errore e della perdizione quanti lo ascoltano e gli danno retta. È un lupo travestito da agnello: impossibile credere che agisca in "buona fede"; impossibile che non veda quali sono le aberrazioni cui conduce il suo modo di fare, quale immenso danno sta recando al suo gregge e a tutto il gregge cristiano; tanto più che il giorno dopo, non pago di aver dato scandalo a qualche centinaio di persone, ha ripetuto i medesimi concetti, nero su bianco, su un giornale "cattolico" che va in mano a centinaia di migliaia di lettori. Questa non è opera da sacerdote cattolico, ma opera del diavolo: il diavolo si serve di questi preti traviati, indegni e sciagurati, facendo leva sulla loro vanità e sulla loro bramosia di mettersi a posto la coscienza dichiarando abolito il peccato e accusando di oscurantismo e mancanza di compassione la Chiesa di un tempo, che non avrebbe mai ammesso simili cose. E che dire di quel coniglio del suo vescovo, il quale ha saputo solo belare che quel sacerdote va capito, accompagnato, sostenuto? Sostenuto in che, nel peccato? E neanche mezza parola sullo scandalo dato alle anime; anzi, la riconferma della stima e della piena fiducia in lui.

Un discorso analogo si può fare per don Fredo Olivero, torinese, che, nel bel mezzo della santa Messa di Natale, si rifiuta di recitare e far recitare il Credo, dicendo che lui non ci crede; e stesso discorso per il suo arcivescovo. Un prete così, andava cacciato a pedate nel sedere, sull’istante: altro che misericordia, accompagnamento e tante altre belle chiacchiere buoniste e moderniste. Pare che i fedeli siano diventati il materasso su cui si distendono i neopreti in crisi di fede, la discarica ove gettano i liquami della loro miscredenza e dei loro peccati. Ma se sono in crisi di fede, preghino Iddio e si affidino a un buon confessore: non vengano a vomitare sui fedeli tutte le loro sozzure; non abbiamo l’ardire di proclamare che il peccato non è più peccato, per poter continuare a rotolarcisi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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