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16 Ottobre 2017Ateismo e nichilismo sono le due tendenze filosofiche oggi più largamente diffuse, pur se variamente mescolate con altri "ingredienti", in modo che il pubblico non percepisca il fetore di dissoluzione che da esse promana: un po’ come la cucina dei secoli passati — prima dell’introduzione dei conservanti e delle celle frigorifere – faceva largo uso di spezie per nascondere all’olfatto gli spiacevoli effetti della carne in via di putrefazione.
La rivista Micromega diretta da Paolo Flores d’Arcais ci offre, nell’Almanacco di Filosofia dedicato a Dio, nichilismo, democrazia, del 2008, un perfetto spaccato della cultura progressista che si auto-presenta in questi termini: l’organo di una sinistra dichiaratamente eretica e radicalmente libera da appartenenze di partito, nonché uno strumento per pensare e per cambiare, contro i conformismi dominanti. Naturalmente, ciascuno è libero di coltivare le proprie illusioni: tuttavia, se esiste una sintesi pressoché perfetta del pensiero dominante, espressione, a sua volta (è quasi una tautologia), dei poteri dominanti, questa è proprio la filosofia portata avanti dai collaboratori di Micromega, a cominciare dal suo direttore. Il supplemento sopra citato, per esempio, intavola un confronto sul tema di Dio, della morte di Dio e dell’etica che l’umanità deve adottare in conseguenza di essa: partecipano alla discussione, oltre a Flores d’Arcais che firma il primo pezzo (per diritto di precedenza), monsignor Rino Fisichella, Vito Mancuso, Roberto Esposito, Carlo Augusto Viano, Emanuele Severino, Gianni Vattimo, e di nuovo Flores d’Arcais, in chiusura (forse per diritto di prelazione). Ci sono anche altri nomi, ma questi bastano a rendere l’idea: sono i soliti, intramontabili, immarcescibili, specialmente i rappresentanti del pensiero neoilluminista, neopositivista, pragmatico, scettico, agnostico, postmoderno, del pensiero debole, dell’ateismo "necessario"; da decenni se la cantano e se la suonano da soli. Ricordano un paesaggio con rovine; sul piano del pensiero sono un po’ l’equivalente della classe politica raffazzonata dalla Repubblica di Pulcinella nel secondo dopoguerra, un’armata Brancaleone di vecchi arnesi d’anteguerra e di giovani leoni scalpitanti, ma con pochi denti e pochissimi artigli, gli uni e gli altri viziati da un comune malanno d’origine: essere soprattutto gente contro, che per vent’anni aveva fatto la fronda, non di rado accampandosi comodamente nei gangli del potere, oppure emigrando in qualche ben retribuita cattedra universitaria americana, per dire tutto il male possibile del loro Paese e garantirsi il biglietto di ritorno e una posizione di rendita fissa e inalienabile, ovviamente per meriti patriottici, ma quasi tutti senza uno straccio d’idea costruttiva, a parte i vaneggiamenti criminali delle sinistre, le cui mani erano ancora lorde del sangue fraterno versato nella guerra civile, al seguito dei gloriosi "liberatori" d’Oltreoceano.
I signori di Micromega non hanno, ovviamente, le mani sporche di sangue o d’altro, ma sono accomunato, ancora e sempre, dall’antico vizio di essere essenzialmente "uomini contro", in questo caso contro la destra, contro la cultura di destra, e sempre pronti a firmare petizioni, con i vari Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame, Barbara Spinelli, per l’ineleggibilità di Silvio Berlusconi: perché questa è la loro idea di democrazia (e lo dice uno che è sempre stato antiberlusconiano, fin dal primo giorno in cui il Silvio nazionale scese in politica, anzi, fin da prima, cioè da quando cominciò a intossicare e rincitrullire milioni d’italiani con le sue tivù commerciali): eliminare l’avversario a colpi di magistratura, non batterlo politicamente sul terreno delle idee, della credibilità, della propositività. Il fatto è che, di proposte, costoro ne hanno poche da fare, per il semplice fatto che hanno poche idee, e quelle poche sono vecchie e stravecchie, anche se loro, nel minuscolo spicchio di mondo al centro del quale si sono messi, o meglio distesi, non lo sanno, e sono anzi convinti d’essere all’avanguardia del progresso. Paradigmatici anche in questo: una classe intellettuale che si crede degna e meritevole di guidare il Paese verso il domani, e non si accorge di aver accumulato un ritardo culturale di oltre mezzo secolo.
Ma torniamo al succitato Almanacco di Filosofia. I due interventi più caratteristici sono quelli di Paolo Flores d’Arcais, intitolato Etica dell’ateismo, sottotitolo: Che Dio esista o non esista, tutto è permesso. All’incombere del nichilismo non possiamo sottrarci: questa è la condizione umana, perché l’uomo è il Dio della norma. Ma l’ateismo (metodologico, ovviamente) è la condizione di possibilità della morale e della politica, perché solo escludendo Dio dalla argomentazione e dalla decisione pubblica (etsi Deus non daretur), la creazione della norma comune può avvenire in forma democratica; e quello di Gianni Vattimo, che gli risponde a stretto giro di posta, intitolato Solo il nichilismo ci può salvare, sottotitolo: L’universalismo — sia pure "logico" e "razionale" — ha bisogno di assoluto, e quel Dio cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Che Dio esista o non esista è una discussione che appassiona gli universalisti, cioè gli autoritari, che hanno sostituito a Dio il diritto universalmente valido, fondato sulla "verità" dei fatti e sulla logica. Ma "se c’è la verità dei fatti, e della logica annessa, non ci sarà mai vera autonomia".
Si tratta di un dibattito solo apparentemente duale: in teoria, si tratta di due posizioni diverse, inconciliabili, che si confrontano; in pratica, esiste fra esse una stretta consonanza di fondo, un terreno comune, un comune sentire psicologico, prima ancora che filosofico: i "compagni" si riconoscono al fiuto e si azzuffano, ma senza troppa cattiveria, perché sanno che, in fondo, han bisogno l’uno dell’altro, e che i loro discorsi sono così complementari, che l’uno non starebbe in piedi senza il volonteroso contributo dell’altro. Non per proporre qualcosa di nuovo, ma semplicemente per occupare gli spazi della cultura e del pensiero, per fare numero chiuso rispetto a qualcuno che, per caso e per monstrum, avesse davvero delle idee nuove da avanzare, cosa di per sé improbabile nell’asfittico panorama filosofico nostrano di questi anni. Difficile appassionarsi a simili "dibattiti", dove tutto è già detto ancor prima che i partecipanti aprano bocca; ed è ben questa la ragione per cui, personalmente, compriamo così raramente libri o riviste di filosofia (infatti, questa di cui parliamo è vecchia di alcuni anni), accontentandoci di meditare i classici: ma è ceto che vi è più sostanza in una pagina di san Tommaso d’Aquino o di Kierkegaard, che in dieci volumi di Flores d’Arcais o di Vattimo, i quali, oltretutto, ripetono incessantemente sempre lo stesso mantra, non si sa se per convincere qualcuno o soltanto per estasiarsi al suono della propria voce ed evitare che un terzo incomodo s’introduca nel loro melodioso duetto.
Dice Flores d’Arcais (parodiando Ivan Karamazov di Dostoevskij) : Dio è morto e tutto è permesso; e tutto sarebbe permesso anche se Dio fosse vivo e vegeto, perché tanto la cosa non ci riguarda. Quindi, il nichilismo ci pende sul capo come una spada di Damocle, ed è inevitabile che sia così, dato che la condizione umana è questa: che l’uomo si dia da se stesso la propria Norma, e quindi che egli sia il Dio di se medesimo. Tutto questo egli lo dà per scontato e non si prende la briga di provare a dimostrarlo: come fanno tutti i cattivi filosofi, prende per buono ciò che dice la filosofia del suo tempo (alla faccia della lotta contro i conformismi dominanti!), e ritiene uno spreco di energia andare a verificare se le cose stiano proprio così, come dicono tutti. Non solo: lui e quelli come lui ergono alla dignità di metodo universale quella che è solo una discutibile acquiescenza nei confronti dell’esistente: se tutti dicono che Desdemona è infedele, non vale la pena di prendersi la briga di andare a verificare se sia proprio così: ciò che conta è che le cose stanno a quel modo per la società, e la filosofia è riflettere su quel che pensa il mondo, non sulla verità in se stessa. In effetti, non sono dei veri filosofi, perché chi non cerca l’essenza della verità non è un filosofo, ma, semmai, un sociologo, uno psicologo, un antropologo, e così via: il filosofo pensa l’essere, costoro pensano gli enti e le loro manifestazioni. E si noti con quanto candore egli osserva: Che Dio esista o non esista… Infatti: che esista o non esista, è cosa secondaria, o meglio, irrilevante; quel che interessa, è sapere quali effetti ha, sugli uomini, il pensiero che essi, in ultima analisi, devono far da sé: etsi Deus non daretur, e darsi il proprio Nomos e il proprio Ethos da se stessi, salvo poi confezionarli in veste religiosa e attribuirli a un qualche dio. Tutto il ragionamento non sta in piedi, né sul piano logico, né su quello storico: sul piano logico, perché, se Dio esiste, col cavolo che la sua esistenza è irrilevante per gli uomini; sul piano storico, perché non è vero affatto che questa è la condizione umana; al contrario: è la condizione dell’uomo moderno, una situazione nuova, creatasi circa tre secoli fa: prima, per migliaia di anni, da Platone in poi, gli uomini la pensavano in tutt’altro modo.
Ma ecco dove appare l’impostazione non filosofica di Flores d’Arcais: là dove afferma che solo escludendo Dio dalla argomentazione e dalla decisione pubblica, la creazione della norma comune può avvenire in forma democratica. Dunque, per lui in principio era la Democrazia; poi sono sorte le varie forme di pensiero, e anche le religioni; ma nulla può essere detto e pensato che vada contro il dio democratico, perché sarebbe un delitto di lesa maestà. E siccome, per lui, la democrazia è irrinunciabile ed è il fondamento di tutto il resto, noi siamo obbligati a pensare la Norma comune escludendo Dio: ed ecco la necessità dell’ateismo, e di un’etica dell’ateismo, come recita il titolo del suo intervento. Interessante: a suo parere, Dio non è democratico, ed è questa la ragione per cui bisogna escluderlo (e magari assassinarlo, come suggeriva Zarathustra). In altre parole: o si crede in Dio, o si è democratici: complimenti, un ragionamento assai rigoroso. Peccato che siamo fermi a Voltaire, o, al massimo, a Croce: in ritardo di oltre mezzo secolo, appunto, e nella migliore delle ipotesi. Forse siamo in ritardo di trecento anni. Nel resto d’Europa, un simile modo di far filosofia susciterebbe qualche sorriso di compassione; in Italia viene preso estremamente sul serio, semplicemente perché il convento non passa altro, e chi parla, parla in regime di scarsa concorrenza, per non dire di monopolio.
Vediamo, infatti, cosa dice Vattimo per ribattere alla necessità di un ateismo anti-nichilista. Flores d’Arcais sostiene che solo l’etica dell’ateismo ci può salvare dall’incombere del nichilismo; Vattimo risponde che solo il nichilismo ci può salvare. Ma dicono davvero due cose opposte, che si escludono a vicenda? Vattimo taccia Flores d’Arcais di "universalismo", che deve essere una cosa molto brutta e molto politicamente scorretta, visto che si affretta a concedergli le attenuanti della logica e della razionalità, per distinguerlo dell’universalismo fideista dei preti e delle vecchiette; ma che sia una cosa brutta, lo si capisce dal fatto che esso ha bisogno di assoluto, e che, per mezzo suo, novello cavallo di Troia, il Dio cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. E anche questo è un atteggiamento non filosofico: prima di stabilisce che l’assoluto è una cosa da evitarsi come la peste, poi ci si mette a pensare; ma proibito pensare qualche cosa che conduca verso l’assoluto. Con buona pace di duemila anni di filosofia occidentale, che ha sempre pensato l’assoluto come attributo necessario dell’essere e che, anzi, si è sempre definita in quanto ricerca dell’assoluto e si è sempre distinta da quelle forme di ricerca che non cercano la Verità dell’assoluto, ma quella del relativo (come la storia, per esempio), e sono quindi delle "verità" con la minuscola. Ed ecco l’accusa, esplicita, tranchant: gli universalisti sono degli "autoritari", e un pensatore libertario, come lui si considera, non vuole aver niente a che fare con quella mala razza. Dal suo punto di vista, fa poca differenza se si è autoritari in senso religioso, col Dio del cristianesimo, o se si è autoritari con la Ragione illuminista, perché questi ultimi hanno sostituito a Dio il diritto universalmente valido, fondato sulla "verità" dei fatti e sulla logica; ma "se c’è la verità dei fatti, e della logica annessa, non ci sarà mai vera autonomia". Ora, l’Autonomia è, per Vattimo, ciò che è la Democrazia per Flores d’Arcais: un dogma e un surrogato di Dio; non si può bestemmiar contro di essa. Strano che Vattimo non veda come l’argomento da lui adoperato contro Flores d’Arcais si attagli perfettamente anche a ciò che dice lui stesso: se l’universalismo della ragione reintroduce dalla finestra il Dio cacciato dalla porta, l’autonomia di Vattimo svolge lo stesso ruolo. E quando egli afferma che solo il nichilismo ci può salvare, fa il verso alla frase (di Martin Heidegger) solo un dio ci può salvare, che esprime, evidentemente, un concetto teologico.
Concludendo. Questi filosofi possono anche pensare di essere alternativi, ma sono perfettamente complementari: universalisti (laici e razionali) o "autonomisti", sostenitori del pensiero forte (adelante, Pedro, ma con juicio, con molto juicio) o del pensiero debole, rimescolano sempre la stessa zuppa, variano al massimo un poco le verdure. E hanno in comune anche un’altra cosa: la brama soteriologica. Entrambi vogliono salvare l’umanità: i Flores d’Arcais la vogliono salvare dal nichilismo, i Vattimo, dall’autoritarismo. Ma l’anti-nichilismo di Flores d’Arcais è un fideismo illuminista irrancidito da tre secoli; e il libertarismo di Vattimo è il cascame di un anarchismo morto e sepolto dopo i disastri e le delusioni del ’68. Entrambi rimestano fra le ceneri, ma si credono gli araldi del mondo nuovo. Per favore, cari filosofi post-moderni, forti o "deboli" che siate: rinunciate a salvare il mondo. Senza il vostro contributo, il mondo potrebbe anche salvarsi davvero, dopotutto.
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