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Due parole sulla complessità del mondo moderno

Il mondo moderno, si dice, è "complesso". Cosa ciò voglia dire esattamente, non è ben chiaro: tutti lo danno per acquisito e ciascuno lo intende a modo suo. Diciamo che, per la maggior parte delle persone, credere e ripetere che il mondo moderno sia un mondo straordinariamente complesso funziona soprattutto come alibi: se si fallisce — come mariti o come mogli, come studenti o come lavoratori, come genitori o come figli — c’è sempre la giustificazione pronta: eh, cosa volete farci, viviamo in una realtà talmente complessa! Non era così, una volta: il mondo in cui sono vissuti i nostri nonni era talmente semplice, al confronto. Loro sì, che potevano fare i propri progetti con chiarezza, con linearità, senza dover temere d’imbattersi in chissà quante variabili più o meno impreviste e imprevedibili… Così, se troppi alunni finiscono bocciati, il professore può sempre consolarsi, pensando che, per quanto impegno metta nella sua professione, i ragazzi non imparano, non ascoltano, non s’interessano allo studio, perché distratti da troppe cose dovute alla complessità del nostro mondo. E se un figlio si comporta da immaturo, se regala ai genitori una collezione di delusioni, ecco pronta la spiegazione: in una società complessa, come la nostra, i figli adolescenti non ascoltano più gli adulti, ma si lasciano manipolare dalla televisione e da internet. Oppure, se cresce la percentuale delle persone che si ammalano non diminuisce, nonostante la scoperta di sempre nuove cure, il medico può sempre consolarsi pensando che lui è bravo nel formulare le diagnosi, ma le medicine non son più quelle d’un tempo, e anche la qualità dell’aria, dell’acqua, del cibo: per cui, non deve stupire che, pur disponendo di una scienza medica più progredita, la salute della gente è meno buna, nel complesso, di quanto non fosse due o tre generazioni fa. La colpa è sempre del mondo troppo complesso.

Ma è vero, poi? E che vuol dire complesso? Partiamo da qui. Se complesso è sinonimo di complicato, allora bisogna domandarsi da che cosa scaturisca questa maggior complicazione. Una cosa è complicata quando non se ne vede la soluzione, quando non si lascia decifrare facilmente, quando resta un po’ inaccessibile, e quindi fuori controllo. Ma perché il mondo in cui viviamo dovrebbe essere più complesso di quello di ieri? Da decenni, anzi, da un paio di secoli almeno, i corifei del Progresso ci ripetono quanto siamo fortunati, rispetto ai secoli bui del Medioevo, a vivere nella modernità: con una scienza più progredita, una tecnologia immensamente superiore, una maggiore apertura mentale, una consapevolezza assai più alta di noi stessi e del posto che l’uomo occupa nella natura. Ora, se tutto questo è vero, se la scuola è migliore, migliore la coscienza di sé, il senso di responsabilità dei genitori, migliori le vaccinazioni, migliore il lavoro, o meno faticoso, o meno pericoloso; se siamo capaci di fare un sacco di cose che i nostri avi non sapevamo o non potevano fare, se siamo più intelligenti, se sappiamo addestrare persino i delfini, e studiare da vicino gli oranghi, e fare amicizia con gli squali, ebbene, perché tutte queste conoscenze superiori dovrebbero risolversi in una complicazione e in uno scotto da pagare, anziché in una serie formidabile di vantaggi, e, soprattutto, in una semplificazione della vita? Le macchine sono state inventate, e vengono continuamente perfezionate, per semplificarci la vita: per consentirci di fare sempre più cose, con sempre minor fatica e in un tempo sempre più breve. Fantastico, no? E allora, come va che tutta questa tecnologia, destinata ad alleggerirci e a semplificarci la vita, non produce i frutti sperati? Perché sono in continuo aumento le malattie da stress, gli esaurimenti nervosi, le depressioni, i tentativi di suicidio, la bulimia, l’anoressia? Perché aumentano il consumo di stupefacenti e la dipendenza dall’alcol? E perché il numero degli aborti volontari non diminuisce, come ci era stato assicurato? E perché la morte ci spaventa assai più di quanto spaventasse i nostri nonni, al punto che non riusciamo ad accettarla? Com’è che, pur di sfuggirle, molti preferiscono ammazzarsi, battendola sul tempo: eliminandosi da sé, prima di essere eliminati? E come mai non si vede un po’ più di felicità in giro? Come mai sembra che l’umanità moderna viva in una cittadella assediata, dentro case che paiono fortini, con tanto di sistemi d’allarme contro i ladri, e porte blindate, e nessuno osa andarsene a spasso la sera, per timore di fare brutti incontri? Ecco, appunto: si dice che la colpa è della società complessa. Complessa, in questo caso, vorrebbe dire impossibile da gestire. La globalizzazione, per esempio, è un meccanismo immenso, impossibile da gestire: i suoi contraccolpi, i suoi effetti diretti e indiretti sono così ampi, così prolungati, così capillari, a tutti i livelli – sociale, economico, culturale, psicologico, morale — che è letteralmente impossibile capire dove ci porterà. La gente, di conseguenza, si sente insicura; ha la sensazione di pagare il progresso ad un prezzo veramente troppo alto; inoltre, ha la sensazione che tutto si sia fatto liquido, che nulla sia stabile e certo, che non esistano più sicurezze. Un lavoratore, dopo trent’anni che si prodiga per la sua azienda, teme di esser licenziato dall’oggi al domani; un marito (o una moglie), dopo vent’anni o più di matrimonio, teme che il coniuge lo tradisca, lo abbandoni, chieda il divorzio, gli faccia causa tramite l’avvocato e lo mandi sul lastrico; un imprenditore, dopo una vita di lavoro abile, intelligente, onesto, appassionato, teme di fallire, strangolato dalla baca a cui ha dovuto chiedere un prestito, o spazzato via dalla concorrenza, o schiacciato dal peso delle tasse e dal costo del denaro. Insomma, la precarietà eretta a sistema: anche questo è una aspetto della complessità; forse quello più caratterizzante, almeno sul piano psicologico ed esistenziale.

Però, a ben guardare, che confusione. Siamo sicuri che le cose stiano così come sembrano? Siamo sicuri che la nostra insicurezza, la nostra precarietà, il nostro senso di stare seduti sulla bocca di un vulcano, dipendano dal fatto di vivere in un mondo terribilmente complesso? Non potrebbe essere, invece, il contrario: che la complessità sia la conseguenza, e non la causa, della nostra insicurezza, della nostra precarietà, della nostra frenetica smania d’innovare, di cambiare, di sostituire, di ricominciare sempre daccapo quel che pareva finito? In ogni caso, davanti a un fenomeno degenerativo, davanti a un problema che non riusciamo a comprendere, né a gestire, è sempre buona norma partire dalla domanda: che cosa è accaduto, qual è stato il salto quantitativo che ha indotto una situazione nuova (se migliore o peggiore, questo si vedrà in un passaggio successivo)? Nel nostro caso, abbiamo un’idea abbastanza chiara di quel che è accaduto: l’uomo moderno si è allontanato da se stesso, ha smarrito il proprio baricentro, si è sbilanciato tutto in una sola direzione: quella della quantità, a scapito della qualità. E ciò è accaduto per una ragione precisa: l’uomo moderno ha voltato le spalle a Dio, ha preteso di fare a meno di Lui, anzi, di sostituirsi a Lui. Di conseguenza, all’uomo teocentrico è succeduto l’uomo antropocentrico; e l’uomo antropocentrico è un uomo auto-centrato. Ora, la domanda è se l’uomo, per la sua stessa struttura ontologica, sia fatto in maniera tale da poter sopportare un simile peso, una tale pressione, una così forte aspettativa. Aspettativa di che? Di essere come Dio, di essere meglio di Lui: sicché, se Lui lascia che tante cose, nel mondo, vadano come possono, l’uomo razionale, invece, pretende di porre un rimedio a tutto; di far partorire la sterile, di far camminare lo storpio, di far ringiovanire il vecchio, di far rivivere il morto. Infatti, se l’uomo non fosse capace di sostenere una tale pressione e una tale aspettativa, allora è chiaro che precipiterebbe in uno stato di ansia e depressione, che ben possiamo rendere con la parola complessità. L’uomo moderno vive in un mondo complesso perché è, egli stesso, un essere complesso: ma questo che significa? Che i suoi antenati erano semplici? Oppure significa solo che l’uomo moderno è ammalato di nevrosi, e che di tale nevrosi è la causa egli stesso, con la sua assurda pretesa di sostituirsi a Dio quale padrone dell’universo, e di migliorare la sua creazione? Si dice, ad esempio — e lo si dice, di solito, con accento fortemente ammirativo — che Leonardo da Vinci è il simbolo della "magnifica" complessità dell’uomo rinascimentale: ossia, del diretto precursore dell’uomo moderno Ma Leonardo da Vinci è un uomo ansioso, tormentato, nevrotico, afflitto da una razionalità fredda e disumana, che gi fa vedere solo il lato tecnico delle cose; perfino quando è poeta, quando è pittore, quando è artista, non smette ai di guardare alla cose da una prospettiva essenzialmente tecnica. Ora, per il tecnico non esistono misteri, ma soltanto – come osservava Gabriel Marcel — problemi; e i problemi sono degli ostacoli che si ha fiducia di eliminare, se non oggi, domani o dopodomani. Il mondo ridotto a una serie di problemi matematici è un mondo che finisce per diventare sempre più complesso perché l’uomo lo sa vedere quasi solo dal lato matematico, ossia come, appunto, un insieme di problemi, tutti rigorosamente analizzabili razionalmente, e tutti, prima o poi, risolvibili. Non esistono problemi impossibili, per il Logos strumentale e calcolante, ma solo problemi che, allo stato attuale, devono essere messi da parte, in attesa di una soluzione futura. Se tutto questo è vero, o anche solo probabile, allora siamo giunti a una conclusione forse inattesa, ma chiarissima: non è il mondo moderno ad essere complesso, ma l’uomo moderno ad essere squilibrato, disarmonico, nevrotico, per cui ogni cosa gli appare terribilmente complessa. Per quanto egli abbia l’orgogliosa certezza di poter risolvere tutti i problemi, uno dopo l’altro, resta il fatto che, per uno che ne risolve, altri dieci si affacciano all’orizzonte: letteralmente richiamati dalla sua tecnica, dal suo approccio puramente scientifico e matematico. Problema chiama problema, complessità chiama complessità. Le cose non sono mai semplici, perché il cuore e la mente dell’uomo modero sono offuscati da un velo di angoscia, sono appannate da una presunzione che pare sempre sull’orlo d’implodere e trasformarsi in sconforto e disperazione. L’uomo moderno è una creatura isterica, femminile, inquieta, sempre sospesa fra i due eccessi della troppa sicurezza e del facile scoraggiamento. Non ha più una vera padronanza di se stesso, perché ha dimenticato, letteralmente, chi egli sia: una creatura che si realizza nel rapporto col suo Creatore; e che, senza di Lui, tende a scivolare nell’impotenza e nella disperazione, nella mancanza di senso e di scopo.

Adesso, due parole sulla religione cattolica e sulla Chiesa. Grazie a una tradizione due volte millenaria, l’una e’altra avevano le carte in regola per porsi con un faro nella notte della modernità, indicando ai naviganti smarriti la giusta rotta da tenere. Invece, gettati alle ortiche i suoi tesori inestimabili di sapienza, non solo umana, ma divina, la Chiesa ha voluto, a un certo puto — diciamo dal Concilio Vaticano II in poi — rincorrere mondo, le sue logiche, le sue mode, le sue vanità, il suo culto sfrenato dell’ego. Si è secolarizzata e si è protestantizzata: perché il protestantesimo nasce dal contraccolpo del Rinascimento davanti allo scoglio del limite ontologico: accortosi di non poter essere Dio, l’uomo piomba nella depressione e dichiara di non poter fare nulla, assolutamente nulla, di essere solo un miserabile, meritevole dell’Infermo. Per riequilibrare, poi, un tale scompenso, Lutero dice che, con la fede, si può tutto: si può trovare la pace, la confidenza con Dio, la salvezza. E così, l’uomo vien sdoppiato. C’è un uomo interiore e un uomo esteriore: è la codificazione della schizofrenia. Pecca, ma credi ancora più fortemente: ecco lo slogan di Lutero; che è, per metà, il ritorno a un cupo pessimismo di matrice antico-testamentaria, e, dall’atro un riflesso del titanismo rinascimentale. Il cattolicesimo, che aveva mantenuto, grazie al Concilio di Trento, la sua identità e la sua fierezza, e, soprattutto, il suo rapporto equilibrato fra creatura e Creatore, nella seconda metà del Novecento ha voluto andare a scuola dai luterani, credendoli più bravi in fatto di esegesi biblica: il che può anche essere, ma ciò non implica che siano anche migliori cristiani e abbiano compreso meglio il Vangelo; e neppure che abbiano capito meglio chi sia l’uomo e quali siano le sue necessità vitali. E adesso, cosa ci tocca di vedere nella santa Messa? La celebrazione dei "doni spirituali" che Lutero ha elargito a noi cattolici, oltre che ai suoi seguaci, Sono le parole testuali di papa Francesco, pronunciate a Lund, nella celebrazione congiunta dei 500 anni dello scisma luterano, d’improvviso promosso al rango di evento quanto mai benefico, anzi provvidenziale, nella vita della Chiesa. Ma che strano. I fedeli, prendendo in mano il foglietto della Messa, possono vedere una immagine "ufficiale" di Lutero, leggere queste parole del papa, e godersi anche un commento della giornalista di Famiglia Cristiana, Vittoria Prisciandaro. Fra parentesi: da quando in qua si pone il nome di un giornalista sul foglietto della Messa? La Messa è il Sacrificio di Cristo: qualunque altro nome, all’infuori del suo, è di troppo. Può darsi che l’ego della giornalista in questione gongoli ed esulti per il fatto che migliaia e migliaia di fedeli, durante la Messa, leggono il suo nome: ma non è un buon segno per la fede cattolica. Siamo in pieno antropocentrismo, in pieno culto dell’io: proprio quello da cui è partita la malattia della modernità. Per guarire da questa malattia, bisogna gettare fuori bordo la zavorra dell’io: altro che gloriarsi del proprio nome durante la cena del Signore! Ribadiamo il concetto: il mondo moderno non è complesso, è malato; e l’uomo moderno non è complesso, è impazzito di superbia: tutto qui. E da qui bisognerebbe ripartire, se davvero si desidera trovare una via d’uscita e di espiazione. Il primo passo? Ricominciare a dire tu, anzi, Tu: gettarsi ai piedi della Croce e invocare i nomi di Gesù e della Vergine Maria: e pregare, pregare, pregare tanto.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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