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Ma fin dove vogliono arrivare?

In una società sana, i sofferenti ricevono assistenza e, fin dove possibile, consolazione; in una società malata, tutti devono convertirsi alla religione del senso di colpa, ed espiare il peccato di essere sani ed autonomi. Nelle società sane vi è posto per la bontà, in quelle malate domina il buonismo, che ne è la diabolica contraffazione. Nelle società sane vi è uno sforzo per sostenere e innalzare chi non può stare al passo; nelle società malate, si attua una politica sistematica di abbassamento di tutti, per punirli di star bene. La nostra è una società profondamente malata. Lo si capisce dal fatto che, da noi, la sofferenza non viene sublimata in vista di un bene più alto, e questo perché è venuta meno la fede religiosa, che aiuta ed incoraggia il sofferente a sentirsi non un disgraziato, ma un privilegiato, un amato da Dio, che ha scelto lui per effondere più abbondante la Sua grazia, anche a edificazione delle altre anime. Di conseguenza, nella nostra società la sofferenza è diventata una maledizione, e chi ne è colpito, o, più spesso, i suoi parenti, sono animati da un fortissimo spirito di rivalsa, di solito dissimulato da qualcosa di ben più nobile: per esempio, dalla volontà di "sensibilizzare" gli altri alla questione che li tocca da vicino.

Esistono, per esempio, e si stanno sviluppando, delle associazioni formate da genitori di bambini disabili, le quali si propongono nelle scuole elementari al fine di sensibilizzare gli alunni al tema della disabilità. La sensibilizzazione consiste in questo: nel portare in quelle scuole della carrozzine per disabili e farvi sedere i bambini sani, poi farli giocare a pallacanestro, stando seduti su di esse, affinché si "rendano conto" di che cosa voglia dire non avere le gambe. Un altro esercizio consiste nel far giocare i bambini a pallavolo, stando seduti sul pavimento, quindi senza potersi spostare con le gambe, ma solo protendendo il busto: lo scopo è sempre lo stesso, far "capire" che cosa significhi non avere l’uso delle gambe. Un terzo esercizio consiste nel fare un percorso in palestra, attraverso gli attrezzi predisposti allo scopo, come dei cerchi, ma procedendo con gli occhi bendati, e quindi accompagnati da qualcuno: lo scopo è far "capire" a quei bambini che cosa significhi non avere il bene della vista. Le maestre, entusiaste, accolgono la proposta; dei genitori, nessuno fiata. I bambini eseguono: che altro potrebbero fare? Ma vale la pena di chiedersi a che cosa servano simili esercizi, se non a farli sentire in colpa per il fatto di avere l’uso delle gambe o il senso della vista. Intanto, i genitori dei bambini disabili dirigono il gioco, e i loro figli assistono. Un esempio di "integrazione", oppure una forma di rivalsa?

Questo che abbiamo fatto è solo un esempio; ne potremmo fare parecchi altri, parlando anche di altre categorie di persone. Nella nostra società, dominata dal buonismo, quello a cui si mira non è più affrontare e risolvere dei problemi, bensì mettere in scena una sacra rappresentazione alla rovescia: una sorta di cerimonia permanente, politicamente corretta, nella quale le minoranze più determinate e socialmente riconosciute, fanno in modo che nessuno dimentichi mai quanto hanno sofferto gli ebrei al tempo della Shoah; quanto hanno sofferto gi omosessuali a causa dei pregiudizi omofobi; quanto hanno sofferto le donne a causa della prepotenza incorreggibile del maschio padrone; quanto hanno sofferto, e soffrono, i disabili, a causa dell’insensibilità e dell’egoismo dei sani; e quanto sono stati trattati crudelmente i negri ai tempi della schiavitù e del colonialismo. Per ciascuna di queste abominevoli situazioni passate, i vivi devono scontare le colpe dei padri e purificarsi, offrendo il loro senso di colpa sull’altare della riparazione e del risarcimento morale. I malati di mente, poi, compresi quelli violenti e pericolosi, che prima di san Franco Basaglia languivano nei manicomi-prigioni, devono essere risarciti delle passate sofferenze infliggendo alle loro famiglie la tortura di averli in casa, padroni di fare il bello e il cattivo tempo, di terrorizzare o di picchiare i genitori anziani; mentre i preti modernisti e progressisti, che prima di san Lorenzo Milani erano oppressi e scomunicati da una Chiesa ottusa e retriva, ora ricevono il dovuto omaggio e sono liberi di stravolgere a loro piacere il Vangelo e il Magistero della Chiesa.

Così, grazie alla religione buonista e alla politica del "risarcimento" morale (e, non di rado, materiale), la società va perdendo quel poco di coesione, di armonia e di fiducia in sé che ancora, per caso, possedeva. Se i pronipoti degli schiavi negri devono essere risarciti, e se devono essere risarciti gli africani per il fatto che gli aerei di Mussolini gettarono i gas durante la guerra d’Etiopia del 1935, allora va da sé che l’Italia e l’Europa devono accogliere milioni e milioni di africani, senza limiti, senza obiezioni, senza far domande: sono tutti profughi, e più non dimandare. E non importa se, perfino mentre si trovano nei centri di prima accoglienza, in attesa di sapere se la loro domanda di asilo verrà accolta, non si trattengono dal rubare, spacciare, violentare e rapinare: poverini, sono i discendenti di una razza oppressa e sfruttata, e le colpe dei bianchi nei loro confronti sono tali e tante, che nulla potrebbe mai espiarle. Perciò l’unica cosa che gli europei possono fare è accoglierli, sistemarli, favorire sempre nuovi arrivi: mandare le navi della Marina militare sulle coste del’Africa e prenderli a bordo, affinché l’invasione diventi una auto-invasione, e nulla manchi, né la beffa, e neppure il grottesco, per completare la tragicommedia di una civiltà che ha deciso di autodistruggersi.

Un ragazzo omosessuale si è suicidato gettandosi dalla finestra, perché tormentato dai compagni omofobi e sadici? Non c’è bisogno di verificare se le cause di quel gesto siano proprio quelle sbandierate dai media; non serve ricordare che ogni mese, ogni settimana, qualche adolescente, purtroppo, si toglie la vita non per il brutto voto a scuola o per la sgridata dei genitori, ma perché il brutto voto o la sgridata dei genitori (magari meritatissimi, l’uno e l’altra) hanno fatta da detonatore di un malessere ben più profondo, che è difficile, se non impossibile, riconoscere per tempo, e per il quale non ci sono "colpevoli", ma solo il grande mistero della fragilità umana: l’importante è che bisogna fare di quel caso, un caso esemplare; di quel ragazzo sfortunato, un martire e una bandiera; bisogna trascinare tutti quanti — gli eterosessuali, ben s’intende — davanti al tribunale della Giustizia, bisogna farli sentire colpevoli, bisogna far approvare dal parlamento delle leggi draconiane, che puniscano con la massima severità il reato di omofobia, raddoppiando la pena a quei criminali che si permettono di rivolgersi con parole meno che riguardose agl’illustri membri della confraternita LGBT. Ed ecco che quel tragico fatto di cronaca, quel suicidio, diventa, così strumentalizzato, una clava per picchiare sodo sulla cattiveria, sulla crudeltà, sulla insensibilità degli eterosessuali. Che imparino a stare attenti a come parlano, a quel che dicono, perché i rigori della legge incombono su di loro, più di quanto incombono sui rapinatori, sui pluriomicidi, sui mafiosi e i camorristi, e sugli spacciatori di droga.

A questo punto, la domanda è: fin dove vogliono arrivare, questi signori? Fino a che punto vogliono capovolgere la morale, fino a che punto vogliono spingersi per punire le persone di non soffrire abbastanza, di non soffrire come soffrono loro? Sin dove arriveranno? Vi sarà un momento in cui, appagati, si fermeranno, oppure spingeranno la loro azione sempre più a fondo, sempre più innanzi sena sosta, senza limiti, fino alla completa dissoluzione sociale? E che cosa li rende così audaci, così sicuri di sé? Il senso di colpa, da loro stessi alimentato e continuamente attizzato, affinché non si spenga mai, e neppure diminuisca un poco. Le persone devono stare sempre sulla graticola: devono accettare il ricatto permanente del buonismo e del finto solidarismo, della finta compassione, della sensibilizzazione aberrante. Contano di questo: che nessuno osi rompere l’incantesimo, denunciare la perversa follia di tutto questo. Con quale animo una maestra, o una direttrice didattica, potrebbero dire: Non, non voglio aderire a questa iniziativa; non mi sembra che sia utile per trattare la questione della disabilità, non mi pare che conduca a qualcosa di positivo? E con quale animo un genitore, un genitore di un bambino sano, potrebbe chiedere: Ma perché far compiere ai nostri bambini quel tipo di esercizi? A che cosa serve? È questo il modo per avvicinarli al tema della disabilità e al sentimento della solidarietà verso i meno fortunati? Non serve solo a farli sentire in colpa, senza offrire alcuna soluzione costruttiva?

Allo stesso modo, come immaginare un sindaco, un assessore, un cittadino, per non parlare di un ministro della Repubblica, i quali dicessero: Il nostro Paese è disposto a fare la sua parte in un programma di sostegno ai Paesi poveri, ma non può e non deve accogliere masse infinite di falsi profughi, sia perché non possiede le risorse, sia perché ciò non è giusto ed equivale a un gravissimo torto verso i nostri cittadini, verso la nostra identità, verso la nostra civiltà? O come immaginare un sacerdote, in questi tempi di neochiesa modernista e gnostico-massonica, capace di dire, dall’alto del suo pulpito: L’amore del prossimo non consiste nel favorire in ogni modo l’islamizzazione del’Europa, e il vero cristianesimo non consiste nell’invitare i musulmani a Messa; e neppure nel dire – come afferma il papa Francesco – che il terrorismo islamico non esiste, e ciò mentre milioni di cristiani sono perseguitati nei Paesi islamici, quegli stessi Paesi dai quali arrivano i cosiddetti profughi che esigono, pretendono, di essere accolti tutti quanti (ma perché non li accoglie l’Arabia Saudita, Paese islamico ricchissimo?), e non cessano di maltrattare i loro compagni di viaggio cristiani, né durante la traversata del Mediterraneo, e neppure durante il soggiorno nei centri di accoglienza?

È quasi impossibile, ormai, immaginare delle persone franche, rette, oneste, le quali dicano simili cose. Qualcuno c’è, ma sempre meno; la loro voce viene subito coperta, il loro "cattivo" esempio viene prontamente punito. Se si tratta di un sacerdote, viene rimproverato dal suo vescovo, allontanato dalla sua parrocchia, forse sospeso a divinis; se si tratta di un pubblico amministratore, viene linciato dai mass-media, denigrato dagli altri consiglieri e assessori, dato in pasto alla folla bramosa di vendetta. Non pochi ricevono delle querele e vengono così ridotti al silenzio dalle spese processuali o, peggio, da una condanna a termini di codice penale. Altro che libertà e democrazia: stiamo andando a passo di corsa verso una democrazia totalitaria, la cui maschera ufficiale sarà il buonismo a tutto campo, e la cui sostanza saranno il rancore sociale, il desiderio di rivalsa, l’odio — più o meno ben dissimulato – di certe minoranze nei confronti della maggioranza. Perfino nella "misericordiosa" chiesa di papa Francesco non vige alcuna tolleranza,m on c’è la minima comprensione per le voci di dissenso. Chi non capisce, chi ha dei dubbi, chi fa delle domande scomode, non è degno neppure di ricevere una risposta, com’è accaduto ai quattro cardinali che avevano chiesto chiarimenti sulla Amoris laetitia: Burke, Caffarra, Brandmüller e Meisner; chi è troppo "cattolico" viene commissariato, come i francescani dell’Immacolata, o, se è parroco, gli viene tolta la parrocchia, come è accaduto a don Alessandro Minutella. Non c’è più posto se non per i buonisti, i progressisti e i modernisti: per i Paglia, i Galantino, i Bianchi, che non cessano di dare scandalo con la loro falsa teologia, falsamente "misericordiosa" e niente affatto "buona", proprio perché buonista. Perché mi chiami maestro buono?, dice Gesù a colui che lo apostrofa con tale epiteto; Dio solo è buono E se Gesù ha rifiutato per se stesso il titolo di "buono", devono essere i preti della neochiesa ad appropriarsi di un tale appellativo?

Tutta questa situazione nasce da una rifiuto: il rifiuto della prova, della sofferenza, del sacrificio, della solitudine; in una parola, il rifiuto della croce. È una tentazione diabolica: Gesù l’ha affrontata — e vinta – all’inizio della sua vita pubblica, nel deserto, durante il suo digiuno preparatorio. E a san Pietro che gli diceva: Questo non ti accadrà mai!, quando Egli aveva preannunciato la sua Passione, aveva risposto: Vai lontano da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini. Lo aveva chiamato "Satana": una espressione forte, e che va presa alla lettera. È diabolico voler trasformare la religione della croce nella religione dell’applauso. Il clero modernista è desideroso di applausi: vuol piacere al mondo, anche a costo di spiacere a Dio. Vuole gli applausi di Eugenio Scalfari e di Emma Bonino: e li ottiene. Nella società profana, è la stessa cosa: politici, amministratori, intellettuali, giornalisti, uomini di cultura, tutti vogliono l’applauso del mondo: e per piacere al mondo, in questo momento storico, bisogna inchinarsi alla falsa religione buonista e progressista. Chi s’inchina, fa carriera; chi non s’inchina, è tagliato fuori, escluso, denigrato, disprezzato, calpestato. Del resto, sono ormai pochissimi a resistere, a rifiutare l’inchino e la sottomissione. Eppure è da qui, da quei pochi, che bisogna ricominciare. Bisogna ristabilire la virtù civica del coraggio, il coraggio di essere impopolari, di dire le verità sgradite, di non scendere a compromessi umilianti, di non subire il ricatto dei falsi buoni. Bisogna educare i bambini, i giovani, a questo genere di fierezza. C’è bisogno di persone oneste, coraggiose, fiere: a forza di compromessi e accomodamenti, siamo arrivati veramente all’ultima spiaggia. Alle spalle c’è il mare: il mare del nulla. La nostra civiltà, la nostra sopravvivenza, o meglio quella dei nostri figli, sono in pericolo. Vogliamo chiudere la nostra esistenza terrena prolungando i già troppi atti di viltà?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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