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«C’è del marcio in Danimarca!»

Something is rotten in the state of Denmark, ossia: C’è del marcio in Danimarca, osserva, nell’Amleto shakespeariano, la guardia di nome Marcello, parlando con Orazio (atto I, scena IV, 90), non solo per lo strano comportamento del principe Amleto, ma per tutta una serie di fatti oscuri e d’inquietanti premonizioni, che sembrano gettare una luce sinistra sulla vita politica del regno: come se qualcuno, nell’ombra, stesse tramando qualcosa d’inconfessabile, che nasce dall’ambizione dei singoli e mette in pericolo il bene di tutti.

Anche noi, di questi tempi, noi italiani, noi europei, noi cristiani (o post-cristiani), noi occidentali, possiamo dire, con Marcello: c’è qualcosa di marcio, nei nostri Paesi; nell’Unione Europea; negli Stati Uniti d’America. La fase storica che stiamo attraversando è caratterizzata da troppi lati oscuri, da troppe incongruenze, da troppi elementi che suscitano perplessità e sconcerto e che è impossibile attribuire semplicemente al caso e alle circostanze. Può accadere, ad esempio, che, in un Paese sfortunato, vada al potere un governo di spregiudicati avventurieri, oppure di emeriti incompetenti, e che tutta la vita della nazione, dall’economia ai rapporti internazionali, ne risenta e ne paghi lo scotto, per un periodo di tempo che può prolungarsi anche di parecchi anni dopo la caduta di quel governo, perché vi sono errori politici che un popolo è costretto a pagare, talvolta, per intere generazioni, anche dopo che l’ultimo di quanti ne portano la responsabilità è passato a miglior vita. Ma non può essere normale, né casuale, il fatto che una situazione di questo genere si verifichi, pressoché simultaneamente, in un intero continente; che tutti i governi, a un dato momento storico, imbocchino una strada che collide palesemente con gli interessi vitali delle rispettive nazioni; e che questa sorta di suicidio politico collettivo venga mascherato da una sofisticata e capillare congiura della disinformazione da parte di quasi tutti i media, e con la volonterosa collaborazione della stragrande maggioranza dei cosiddetti intellettuali. No: in questo caso, bisogna che ci sia del marcio. E bisogna che il marcio sia davvero tanto, tantissimo.

Una certa quantità di marcio, senza dubbio, è fisiologico. Non esiste Stato, neppure il più ordinato, non esiste azienda, non esiste istituzione, in cui non arrivi a formarsi un po’ di marciume, un po’ di corruzione, una zona d’ombra in cui si esercita il potere di un’arrogante camarilla, di un gruppo di profittatori di mestiere, una collusione fra amministrazione pubblica, malavita organizzata e finanza deviata. Ciò è normale, se per "normale" s’intende, semplicemente, umano: perché nella natura umana vi sono molte ombre, molti lati oscuri, molti aspetti inquietanti. Basti tener presente che la maggior parte delle violenze sessuali sui bambini avvengono in famiglia, tra le pareti domestiche; che la maggior parte dello spionaggio industriale si serve di collaboratori infedeli delle aziende (o delle banche); e che la maggior parte del sabotaggio e del terrorismo politico passano attraverso zone mal definite in cui spadroneggiano i servizi segreti, i quali, non di rado, finiscono per rivolgere la loro azione contro lo Stato che dovrebbero difendere, e contribuiscono a ricattare, far rapire, assassinare, o danneggiare in vario modo, i cittadini dal cui imponibile fiscale provengono gli stipendi e i fondi segreti delle stesse agenzie di spionaggio.

Esiste, tuttavia, una soglia, oltre la quale non si può considerare più normale – neppure nel senso puramente tecnico, e moralmente aberrante, che questa parola riveste quando si parla delle mele marce che una data società, fisiologicamente, produce, per il fatto di essere formata da creature umane e non da creature angeliche — la presenza del marcio. E non solo, ovviamente, in una valutazione di tipo quantitativo, ma anche qualitativo: quando si riscontra, cioè, che il tumore del marcio è diventato metastasi, e che una simile metastasi, paradossalmente (ma neanche poi tanto, a ben considerare), se provoca una lenta distruzione dell’organismo, alimenta, in compenso, una straordinaria fioritura, se così vogliamo chiamarla, di tutte le funzioni patologiche originate dal tumore e che poi vivono, in qualche modo, di vita propria, prosperando sulla malattia stessa.

Nei Paesi dell’Europa, in modo particolare, a partire, circa, dagli anni Novanta del ‘900 (ma il tumore esisteva già da decenni, forse addirittura da secoli), si sono letteralmente scatenate delle forze distruttive che prosperano, apparentemente, proprio sul malessere della società nel suo insieme, ragion per cui appare così difficile, così improbabile, così donchisciottesco, il compito di quanti hanno finito per rendersi conto del pericolo, della sua portata gigantesca, della sua natura camaleontica e tentacolare: infatti, già la semplice denuncia d’un complotto di simili dimensioni urta contro mille resistenze, anche di tipo psicologico, oltre che contro la cortina di disinformazione messa in atto dalla quasi totalità dei mass media e della cultura "ufficiale" (tutti sul libro paga dei poteri occulti, che costituiscono, se non la causa, certo gli agenti patogeni del tumore stesso), al punto da risultare, di per se stessa, estremamente difficile da credersi. Provare per credere: basta nominare il Piano Kalergi, accennare al Gruppo Bilderberg o ipotizzare che i miliardi di George Soros abbiano qualcosa a che fare con le cosiddette migrazioni che stanno sommergendo l’Europa (e, di là dall’oceano, gli Stati Uniti, in quel caso provenienti soprattutto dall’America Latina), e subito si vedrà l’interlocutore sorridere ironicamente, scrollare le spalle e dire, più o meno: Sì, d’accordo, ma di questo parleremo un’altra volta

Eppure, il nocciolo del problema non è per niente difficile da afferrare; al contrario: è talmente semplice, addirittura ovvio, che perfino un bambino ci potrebbe arrivare. Ma la diabolica abilità di chi tiene i fili del complotto è proprio questa: contare, dopo averlo segretamente alimentato per anni e per decenni, sul perfetto conformismo intellettuale del pubblico, affinché le masse non si accorgano di qualcosa di enorme, che pur sta accadendo sotto i loro occhi. Di fare in modo che vedano, ma senza capire; che vi assistano, e persino vi partecipino, ma senza esser capaci di trarne le debite conclusioni. In un certo senso, è più agevole ingannare le grandi folle, invece che i singoli; e ingannare alla luce del sole, invece che in segreto: a patto che, nella società e nella cultura, si sia diffuso un sufficiente livello di conformismo. Per giungere a ciò, bisogna aver pazienza e lusingare, gratificare, corrompere l’intera classe dei cosiddetti intellettuali, dopo averne valutato, con giudizio sicuro, tutta la superficialità, la vanità, l’avidità e il narcisismo, che albergano dietro le apparenze di un atteggiamento distaccato, idealista e nobilmente "professionale". In pratica, chi vuole stabilire un protettorato sull’informazione e la cultura, basta che valuti il prezzo dei giornalisti, degli scrittori, dei registi, dei critici d’arte e musicali, dei professori universitari: ciascuno ha il suo prezzo. Non è detto che sia sempre un prezzo venale, un prezzo in denaro: per molti di essi, perfino più importante del denaro è la vanità, il bisogno di essere sempre al centro, di comparire continuamente alla televisione, o sui giornali, o di pubblicare i propri libri con le maggiori case editrici, o di esercitare un alto grado di "autorevolezza" nei dibattuti (pseudo) culturali.

Il fatto è che senza la coerenza, senza la trasparenza, l’uomo di cultura è niente:è un sacco gonfio di vento, un borioso cialtrone sempre smanioso di fare la ruota come un pavone, e disposto a qualsiasi compromesso, a qualsiasi bassezza, pur di ottenere riconoscimenti e gratificazioni. Ma la coerenza e la trasparenza presuppongono un terreno moralmente sano: cosa che, fino a un paio di generazioni fa, era assicurata essenzialmente dalla famiglia, che provvedeva a dissodarlo giorno per giorno, con l’esempio dei genitori e non con le chiacchiere, che non sono mai servite a nulla. La scuola e la Chiesa facevano, anch’esse, la loro parte: l’una sul piano intellettuale, l’altra su quello spirituale; ed entrambe concorrevano alla formazione morale del bambino e dell’adolescente. Oggi, chi provvede più a tali funzioni, che sono indispensabili perché nella società si stabilisca un clima sano, rispettoso dell’altro, fondato sull’etica dell’onestà, del lavoro e del risparmio? L’ideologia consumista ha distrutto ogni cosa, è passata sulle coscienze e ha devastato il senso di responsabilità, il senso del dovere: le persone sono state indotte a comprare più di quanti potessero spendere, a indebitarsi, a inseguire uno stile di vita che non possono permettersi: di qui le frustrazioni, le amarezze, le disonestà; di qui i compromessi al ribasso, gli accomodamenti discutibili, le piccole e grandi bugie quotidiane; di qui il continuo sforzo di apparire, e l’oblio totale dell’essere. La svirilizzazione di una società protesa unicamente alla soddisfazione edonista è ulteriormente cresciuta con l’intontimento cronico e il rimbecillimento permanente causati dall’abuso della tecnologia informatica, telefonini cellulari in primis. Ormai, persino i bambini di due-tre anni ne sono dipendenti.

In tali condizioni, il complotto mondiale per sottomettere l’umanità, partendo dai singoli Stati, al dominio occulto di una élite faustiana, ossessionata dal sogno dell’onnipotenza, può ormai gettare la maschera, ed emergere alla luce del sole. Chi sarà in grado di vederlo? Chi sarà in grado di lanciare l’allarme? E, anche se ciò accadesse, chi saprebbe capire quel grido d’allarme, e prenderlo sul serio? È talmente forte l’illusione che, in una società democratica, un simile complotto, se esistesse, non potrebbe passare inosservato, ma verrebbe riconosciuto e denunciato dai mezzi d’informazione, e combattuti dai governi, che anche persone istruite e sufficientemente intelligenti liquidano la cosa con un’alzata di spalle. Se davvero vi fosse qualcosa del genere, non potremmo non saperlo, esse dicono. Abituate a leggere il giornale tutti i giorni, e a guardare almeno un telegiornale a mezzogiorno ed uno alla sera, sono convinte che una notizia così grossa mai e poi mai potrebbe sfuggire all’attenzione dei media, e che anch’esse, quindi, ne sarebbero informate. Questo è quel che succede quando si è subito un lungo, quotidiano lavaggio del cervello: si finisce per confondere la realtà con le notizie, senza più domandarsi chi fabbrichi le notizie, e nell’interesse di chi. Costoro somigliano a un uomo che si aggiri contando le singole foglie degli alberi, ma non si renda conto di trovarsi nel mezzo d’una foresta: conosce le foglie e crede di sapere tutto quel che c’è da sapere. Eppure, sarebbe facile vedere che la fiducia nell’informazione pubblica riposa su basi illusorie: ogni anno si riuniscono i potenti del Gruppo Bilderberg, ma cosa dicono la stampa e i telegiornali a proposito di tali riunioni? Non dicono nulla. Eppure, quei signori non si danno appuntamento per parlare di filatelia. La verità è che la pigrizia intellettuale e l’inerzia morale dell’uomo comune, nella nostra società, è giunta a un punto tale che, se pure gli dicessero che la sua casa sta bruciando, non sarebbe disposto a crederci, semplicemente perché non vorrebbe staccarsi dallo schermo televisivo mentre è in onda il suo programma preferito, o la partita di calcio.

A questo punto, l’obiezione classica è la seguente: Ammettiamo pure, ma per amore d’ipotesi, che le cose stiano, più o meno, nel modo sopra descritto; ebbene, perché quei signori farebbero tutto ciò? A quale scopo? A quale scopo, per esempio, un George Soros dovrebbe impiegare le sue immense risorse finanziarie per incoraggiare e favorire la migrazione di milioni di africani in Europa? E a quale scopo le famiglie più ricche e potenti del pianeta dovrebbero comprare tutti i grandi mezzi d’informazione, le agenzie di stampa internazionali, e assicurarsi un controllo, diretto o indiretto, sulla cultura, sulla ricerca scientifica e sull’università? Che cosa ci guadagnerebbero, che già non possiedano; cosa gliene verrebbe, che già non abbiano? Sono domande molto ingenue, che nascono solo in chi non abbia riflettuto a ciò che significa essere, effettivamente, o aspirare ad essere, realisticamente e concretamente, i veri padroni del mondo. Quando la posta in gioco è così spropositata, non valgono più le regole del gioco ordinario. Nel gioco ordinario, si gioca per vincere; nel gioco totale — e il dominio sull’umanità è il gioco totale per definizione – si gioca per la febbre del gioco fine a se stessa. Si crede di essere i padroni di tutto, o gli aspiranti padroni di tutto; e si è gli schiavi delle proprie passioni disordinate, dell’avidità, della cupidigia, della superbia, della lussuria. Si gode nel vedersi serviti da un esercito di schiavi, consapevoli o inconsapevoli; e non ci si rende conto di essere più schiavi di loro, perché prigionieri di se stessi: della parte più bassa, più meschina, più triviale che alberga sul fondo melmoso dell’anima umana. E quando si è arrivati a quel punto, o prossimi a quel punto, non c’è più libertà, ma solo pazzia e schiavitù.

Ma c’è qualcosa di ancor peggiore. Nessuno si fa schiavo delle proprie passioni senza pagare un prezzo: alcuni sono talmente depravati da volerlo pagare in piena coscienza, altri non se ne rendono neppur conto. Il grande esattore è qualcuno che si tiene nascosto nelle pieghe fangose dell’anima: è lui, l’antico Nemico, l’essere immondo che gode di ogni malvagità, che esulta per ogni delitto, che celebra i suoi trionfi in un mondo che si è messo, coscientemente o inconsapevolmente, sotto il suo dominio. La nostra, per parlarci chiaro, è senza dubbio l’era del diavolo, di cui hanno parlato, con spavento, alcuni grandi mistici e mistiche degli ultimi due-tre secoli. Nessuna civiltà umana si è mai allontanata da Dio così tanto, come la nostra; di conseguenza — ed è una conseguenza perfettamente logica, quasi matematica — la nostra civiltà è sostanzialmente una creazione del demonio. È lui che suona il piffero; e noi balliamo. Di nuovo, ci sarà una levata di scudi da parte degli intellettuali politicamente corretti Eh, via: il diavolo! Va bene, va bene; ma di questo parleremo un’altra volta

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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