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Dio dorme in Masuria?

Quando pubblica il suo romanzo Gott schläft in Masuren (Dio dorme in Masuria), nel 1956, l’ottavo della sua lunga carriera di scrittore, Hans Hellmut Kirst è già famoso, in Germania e nel mondo, per la sua trilogia dedicata al caporale Asch, una specie di versione tedesca del buon soldato Sc’vejk, ove all’ottusità si sostituisce l’intelligenza e all’indolenza un’estrema efficienza prussiana, ma con lo stesso intento: svuotare dall’interno il meccanismo disumano del militarismo e rivelarne l’intima, inconfessabile irrazionalità.

Ne sarebbero seguiti molti altri, perché Kirst è stato un autore assai prolifico, e, quel che non gli è mai stato perdonato dalla critica – che se n’è vendicata snobbandolo e rimuovendolo subito dopo la sua scomparsa -, molto amato dal pubblico. Non tutti sono dei grandi romanzi: Nessuno si salva, per esempio, forse il più ambizioso, dedicato allo scenario di una prossima terza guerra mondiale,da cui la Germania e l’Europa usciranno distrutte, non convince né per l’impianto generale, né per la qualità narrativa; fra gli altri, invece, uno come La notte dei generali, da cui è stato tratto un memorabile film, magistralmente interpretato da Peter O’Toole, spicca per l’originalità dell’analisi psicologica del protagonista, un generale nazista sadico, ma formalmente ineccepibile, posseduto dal demone segreto della sua perversione omicida: romanzo che si può leggere sia come un classico poliziesco, sia come un ritratto d’ambiente, uno spaccato dell’esercito tedesco all’epoca dell’occupazione di Parigi da parte della Wehrmacht.

Dio dorme in Masuria, però, possiede, a nostro avviso, un fascino tutto particolare, anche perché in esso l’autore, tedesco di Osterode in Prussia Orientale (inutile cercarla sulla carta geografica, ora si chiama Ostróda ed è parte della Repubblica polacca), ove è nato il 5 dicembre 1914, quando le armate dello zar erano state da poco respinte oltre la frontiera grazie all’abilità di Hindenburg e Ludendorff, ha saputo tracciare un ritratto accorato e quasi struggente di quella remota provincia prussiana, persa fra laghi azzurri e verdi foreste di abeti e di betulle in un angolo di mondo così pacifico e dimenticato, così sprofondato nelle sue tradizioni rurali e patriarcali, che Dio stesso, se avesse voluto prendersi un po’ di riposo dai suoi affanni quotidiani, non avrebbe potuto scegliersi un posticino migliore per farsi un sonnellino. A Maulen, un borgo di neanche quattrocento anime, smarrito in mezzo ai campi di patate e di frumento, così tranquillo da potersi definire quasi (o senza quasi) sonnolento, si vive talmente in pace, lontani dallo stress della modernità, che si ha un poco l’illusione di essere scivolati indietro nel tempo, verso epoche remote, sino ai favolosi e segreti confini del giardino dell’Eden.

Non che tutto vada bene, a guardar bene, anche laggiù: si annidano, fra la gente del paese, i soliti difetti e le smodate ambizioni che sono l’inevitabile retaggio della stirpe di Adamo; per giunta c’è stato un delitto, e il nuovo gendarme, che arriva in groppa al cavallo Paul, dopo una lunga trottata solitaria sotto il cocente sole estivo (la più vicina stazione ferroviaria è a nove chilometri dal villaggio), fiuta subito qualcosa che non va come dovrebbe. Tuttavia, sbaglierebbe chi volesse leggere questo romanzo, ora quasi dimenticato e reperibile sui banchi dei mercatini, come un semplice, normalissimo giallo: la vicenda ruota solo in apparenza attorno alle indagini del gendarme Thiele e ai sospetti che avvolgono il ricco possidente Leberecht, che faceva all’amore con Elfriede, la moglie di un tale Materna, proprio mentre costui veniva assassinato da una mano ignota. E sbaglierebbe per la stessa ragione per cui sbaglierebbe anche il lettore dei romanzi di Georges Simenon, se vedesse nel commissario Maigret un semplice poliziotto votato alla caccia degli assassini: in entrambi i casi, infatti, sospettiamo che la struttura esteriore di tipo poliziesco sia poco più che un mero pretesto per mettere in scena la vera storia: che è una storia di costume e di ambiente. A Kirst, come a Simenon, – e come a Chesterton, del resto – interessano più i moventi e i meccanismi psicologici e morali degli assassini, che la rivelazione finale del colpevole; e interessa la minuziosa, ma vivace e partecipe ricostruzione dei luoghi e delle abitudini, più che la vicenda investigativa strictu sensu.

… Ora Paul ansava forte su per la breve salita. Non appena furono in cime, scorsero Maulen. "Fermati, Paul", disse il gendarme.

Paul, ubbidiente, si fermò e fece di sì con la testa, energicamente. Thiele si guardò intorno. Nelle vicinanze immediate non c’era nessuno; tre persone lavoravano in un campo, a più di un chilometro di distanza. Il gendarme si tolse il chepì con un gesto deciso, quasi con energia, Un solco rosso gli segnava la fronte. I capelli tagliati corti erano appiccicati dal sudore. Gli occhi azzurri erano grandi e miti; e ora si socchiudevano per il sole violento.

Thiele trasse dalla tasca dei calzini un fazzoletto candido, lo spiegò e lo guardò. Poi lo ripiegò e lo ripose. Sprofondò la mano nell’altra tasca e trasse e alla luce del sole un fazzoletto blu, discretamente spiegazzato. Infine si asciugò fronte, faccia e collo. Intanto studiava Maulen.

A prima vista, il villaggio in cui doveva andare ad abitare lo soddisfece. Maulen appariva più curato dei villaggi che aveva attraversato Thiele scorse persino alcune case di pietra col tetto di tegole di terracotta. La chiesa era piccola, ma visibile di lontano. Accanto ad essa, secondo la carta topografica, la scuola; di fronte, la casa dive avrebbe dovuto vivere il gendarme e dove due giorni innanzi aveva spedito sua figlia come furiere di alloggiamento. Più a destra c’era l’osteria con sala da ballo. Lo sfondo era dominato dalla casa padronale della tenuta di Maulen, con la distilleria e la latteria, con stalle, fienili e magazzini.

Maulen presso Wangensee, a nove chilometri dalla linea ferroviaria, a dodici dalla strada principale per Allenstein, elevato nel 1863 a capoluogo di circondario. Ufficio postale e parrocchia. Trecentosessantasette abitanti secondo il censimento dell’anno innanzi, 1932. Popolazione: tutta prussiana ed evangelica per il 73 per cento. Per il resto, 4 per cento di cattolici e 9 per cento di religione imprecisata; ma un bel 13 per cento apparteneva a una setta che pregava molto e sempre in ginocchio, ed era astemia.

"Non perdiamo temo, Paul", disse il gendarme al cavallo, dopo essersi rimesso il chepì. Paul partì al trotto, incoraggiato da un paio di amorevoli colpetti sul collo. Thiele gonfiò il petto e ritrasse il mento.

Passò davanti alla bottega del fabbro, che si trovava all’inizio del villaggio. Il gendarme salutò il fabbro, con la correttezza che gli era propria e non senza cordialità; ma il fabbro si affrettò a ritirarsi. Thiele si accontentò di fare un sorrisetto e proseguì verso l’incrocio. Gettò un’occhiata alla chiesa, un’altra alla scuola, dalla quale, come a dargli il benvenuto, usciva il suono di un canto che inneggiava alla patria, che si porta nel cuore e che non si può dimenticare. Thiele si sentì minacciato da una lieve commozione; e anche Paul rallentò il passo, sebbene fosse già anche troppo misurato.

Un cane di razza indefinibile sfrecciò per la strada. Un secondo lo seguì. E altri due gli tennero dietro. Paul soffiò, seccato, E il gendarme si domandò:chi sa se tutti questi cani portano il medaglione della tassa?

[Da: Hans Hellmut Kirst, Dio dorme in Masuria; titolo orginale: Gott schläft in Masuren, Wien-München-Wien-Basel, Verlag Kurt Desch; traduzione dal tedesco di Mario Merlini, Milano, Aldo Garzanti Editore, 1960, 1972, pp. 15-17).]

Si prova un’immensa malinconia — e chissà quanta doveva provarne un tedesco nativo della Prussia Orientale — al pensiero che nulla di quel piccolo mondo patriarcale è sopravvissuto all’immane tragedia della Seconda guerra mondiale. I villaggi sono stati bombardati, saccheggiati, distrutti; il bestiame ucciso o disperso; i tedeschi, che lì vivevano da secoli e secoli, sono stati costetti a fuggire nel 1944-45, con la neve e un freddo atroce, in quello che è ancora ricordato come "l’inverno dei lupi", e non pochi sono morti nell’esodo, in parte affogando nelle gelide acque del Mar Baltico; russi e polacchi hanno preso il loro posto, si sono insediati nelle linde fattorie un tempo fiorenti, hanno cancellato i nomi e i ricordi, e hanno introdotto l’indolenza slava in luogo della linda e ordinata efficienza teutonica. In Masuria, il regista Roman Polanski ha girato uno dei suoi primi film importanti, Il coltello nell’acqua, del 1962, ambientato a bordo di un motoscafo che solca le acque di un lago, mentre si consuma un dramma della gelosia coniugale tipicamente moderno: niente a che vedere con il mondo descritto da Kirst, il mondo anteriore all’ultima guerra. E Kirst sarebbe morto a Werdum, nella Bassa Sassonia, il 13 febbraio 1989, portandosi in cuore, come Ernst Wiechert, come milioni di tedeschi fuggiti da Königsberg, da Danzica, da Breslavia, la mai spenta nostalgia per i cari luoghi della fanciullezza e della giovinezza lontane, per le colline e i laghetti, per le foreste di abeti e i prati, le paludi, le brughiere sabbiose di quell’angolo dimenticato della vecchia Mitteleuropa, spazzata dai venti furiosi della guerra e della "pulizia etnica" (cfr. i nostri precedenti lavori, Nei libri di Erst Wiechert l’ardente nostalgia dell’Assoluto, in un tempo fuori dal tempo, pubblicato sul dito di Arianna Editrice il 15/02/2012, e Un eroe del nostro tempo, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 21/04/2016).

Come romanzo, peraltro, nemmeno Dio dorme in Masuria è del tutto esente dai difetti dello scrittore: lo stile giornalistico, i caratteri convenzionali, la prevedibilità dei "tipi psicologici"; e, a livello di contenuto, un desiderio troppo scoperto di assecondare la cultura politically correct e, forse, di rifarsi una verginità politica (ma lo hanno fatto in tanti, anche tra gli scrittori più noti, come Günter Grass; per non parlare dei nostri Malaparte, Zangrandi, Vittorini, eccetera, tutti miracolosamente folgorati sulla via di Damasco dell’antifascismo trionfante, ma solo dopo, e non prima, il 25 luglio 1943; per tacere di Amintore Fanfani, Giorgio Bocca, Romolo Murri, Gabriele De Rosa, i quali sottoscrissero pure il Manifesto della Razza e in seguito fecero indisturbati le loro brillanti carriere accademiche e politiche, conservando un pedigree immacolato, a differenza di altri loro colleghi, perché virarono prontamente a sinistra, quando mutò il vento). Kirst, infatti, non solo prestò servizio come ufficiale nella Wehrmacht — il che non è certo un reato — ma fu anche iscritto al partito nazionalsocialista: il che, di per sé, e a dispetto di quel che affermano, con il senno di poi, tante anime belle, non è, neppur esso, un reato; salvo voler cancellare il proprio passato con una pronta adesione a un "socialismo senza retorica", che, nel suo caso, aveva un po’ il sapore di un bagno rigenerante nel solco delle ideologie vincenti dopo il 1945, avvalorando l’immagine di un’"altra Germania" che, pur avendo obbedito agli ordini di Hitler sino alla fine, intimamente, però, era sdegnata contro la sua politica e si preparava spiritualmente alla ricostruzione democratica, quando la guerra fosse terminata. Immagine che piaceva a tutti quei tedeschi che avevano fretta di rimuovere il proprio passato e che, all’estero, presso il grande pubblico europeo e americano, era addirittura indispensabile a uno scrittore tedesco, se voleva "sfondare" sul mercato internazionale. Del resto, a che sarebbe servito spiegare, come pure il Nostro tentò di fare, che si poteva anche aderire al nazismo per delle ragioni non del tutto ignobili, ed essere all’oscuro, sino alla fine, dei suoi crimini più efferati? Dopo il processo di Norimberga, la sola tesi politicamente corretta era che qualunque tedesco, se in buona fede, non poteva non sapere quel che avveniva nei lager hitleriani. Kirst vi si adattò, e il suo successo mondiale, basato, in gran parte, sulla figura del coraggioso e intelligente caporale Asch, che resta fedele ai valori nazionali e militari, ma senza aderire al nazismo e, soprattutto, battendosi generosamente e testardamente per un suo ideale di giustizia e di verità, non sarebbe stato possibile, anzi, nemmeno pensabile, senza questo compromesso di base.

Resta il valore di Dio dorme in Masuria come elegia di un piccolo mondo antico che la cieca violenza della storia ha letteralmente cancellato e che è destinato a spegnersi insieme ai ricordi degli ultimi profughi tedeschi delle regioni orientali passate sotto la sovranità sovietica o polacca. Un piccolo mondo antico che è stato travolto da una doppia invasione, quella politico-militare e quella, più sottile, ma assai più capillare e inesorabile, della modernità. Nessun gendarme va più a cavallo, con aria marziale, per i paesi europei del terzo millennio; e, se pure esistesse, e incontrasse un ubriacone in pieno giorno, non si chiederebbe, come il buon Thiele, chi sia costui, perché non lavori e dove trovi il denaro per bere. Il mondo di Kirst era ancora ordinato. Oggi l’Europa è letteralmente invasa da personaggi che non solo si ubriacano, ma spacciano, rapinano e stuprano impunemente; e nessun gendarme può farci nulla, mentre i giudici pensano solo a rimetterli prontamente in libertà…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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