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Fede e ragione, binomio irrinunciabile

L’idea che la ragione umana sia irrimediabilmente contrapposta alla fede, e del tutto inconciliabile con essa, è un’idea moderna; e, come moltissime idee moderne, è una idea che nasce da un preconcetto, e che pretende di giustificarsi da se stessa, mentre invece la modernità è solita sottoporre a una critica spietata tutte le idee che non le appartengono, ma che derivano dalla tradizione. Due pesi e due misure, dunque: una bilancia leggera, leggerissima, per pesare e "promuovere" la propria ideologia; e un’altra pesante, pesantissima, per giudicare e condannare ciò che non fa parte del suo bagaglio, della sua prospettiva, dei suoi obiettivi.

La verità è che il pensiero cristiano non ha mai disprezzato la ragione, anche se è vero che esso, nato un ambito giudaico, si presentava come una dottrina di salvezza e non come una dottrina filosofica; l’elaborazione filosofica del cristianesimo avvenne in ambito greco e richiese alcuni secoli, per cui è giusto parlare delle radici greco-romane del cristianesimo (Roma vi aggiunse la concezione giuridica) quanto lo è parlare delle sue radici giudaiche. Però è altrettanto vero che fin dagli inizi, ad esempio nelle lettere di san Paolo, il cristianesimo ha conosciuto anche una elaborazione speculativa che ne ha delineato i tratti essenziali in quanto concezione filosofica, o meglio teologica, del mondo, oltre che come fede religiosa nell’avvento del regno di Dio; e, del resto, è noto che Tarso, la città natale dell’apostolo, era un importante crocevia commerciale, e anche culturale, fra il mondo giudaico e il mondo greco, e che la cultura giudaica di Paolo era arricchita da stimoli e modi di ragionare tipici della speculazione ellenistica.

Per tutti i secoli del Medioevo, fede e ragione sono rimaste in equilibrio dinamico, sempre sorrette dalla consapevolezza di essere necessarie l’una all’altra; e se, come in Tommaso d’Aquino, viene pienamente rivendicata l’autonomia della seconda rispetto alla prima, nondimeno vi è sempre la coscienza che, fra esse, è la ragione che deve inchinarsi alla fede, poiché la ragione prepara e illumina la fede, ma non la sorregge, non la sostituisce e tanto meno la annulla; e che, se la fede è sufficiente per giungere alla vita divina, la ragione è uno strumento che la rafforza, la rischiara e la conferma, ma nulla di più. La consapevolezza della sussidiarietà della ragione rispetto alla fede, peraltro, non ha creato occasioni di conflitto, almeno fino alle soglie del basso Medioevo e, nelle personalità più dotate e armoniose, anche assai dopo, praticamente fino ai nostri giorni; pur se è innegabile che, con l’avanzare della modernità, a partire dal Rinascimento, e sicuramente durante e dopo la Rivoluzione scientifica del XVII secolo, una certa disarmonia ha cominciato ad insinuarsi fra esse, non solo a chi si pone dal punto di vista della cultura laica, ma anche all’interno della stessa cultura cattolica, o, almeno, in una parte di essa.

Questa disarmonia si è accentuata nel corso del XIX e XX secolo ed è letteralmente esplosa a partire dalla metà del ‘900; al punto che una parte non secondaria della cultura cattolica contemporanea ha preferito risolvere il problema, o meglio, ha creduto di risolverlo, adottando il punto di vista delle scienze positive per tutto ciò che riguarda la concezione del mondo terreno, dall’evoluzionismo darwiniano alla psicanalisi, e adottando atteggiamenti auto-accusatori nei confronti della ragione scientifica per le passate persecuzioni di cui si sarebbe macchiata la Chiesa, come nel caso del processo a Galilei, vicenda per la quale molti esponenti della cultura cattolica hanno sposato al cento per cento le posizioni dei liberi pensatori di un secolo fa, che di Galilei, appunto, avevano voluto fare la loro bandiera, anche se si trattava di una operazione impropria e decisamente strumentale. Così facendo, i cattolici progressisti hanno creduto di farsi perdonare i "peccati" d’intolleranza del passato ed i crimini contro la ragione, ottenendo, in cambio, o piuttosto nella speranza di ottenere, una specie di benevola neutralità, o una specie di salvacondotto, da parte della cultura dominante laicista e materialista, nei confronti della loro fede religiosa e della loro concezione religiosa del mondo.

Vana speranza: prima di tutto, perché la cultura laicista e secolarizzata non ha mostrato alcuna intenzione di ricambiare la cortesia e di smobilitare le proprie armate, tuttora impegnate ad assestare gli ultimi colpi a ciò che resta della presenza culturale cattolica nel mondo moderno; secondo, perché la rinuncia totale a una presenza attiva nell’ambito delle scienze positive, e la rigida auto-limitazione della sfera d’azione della cultura cattolica al solo terreno spirituale e religioso, in pratica si risolve in un operazione impossibile, che riproduce la supposta inconciliabilità tra fede e ragione sostenuta, specularmente, appunto dalla cultura laicista, neoilluminista e neopositivista. In altre parole: se si rinuncia alla ragione per salvare la fede, si finisce per cadere in un atteggiamento schizofrenico, perché la realtà è una, e la ragione e la fede, per il credente, sono due strumenti, necessari entrambi per decodificare la realtà stessa.

Fides et ratio – lo ripetiamo – formano un binomio irrinunciabile: questa è, da secoli e secoli, la posizione della cultura cattolica, che, troppo a lungo denigrata, o semplicemente ignorata, dai suoi avversari, e, a volte, dagli stessi fedeli, non ha mai visto contraddizione alcuna fra la ricerca intellettuale e la divina Rivelazione. Il problema, per la fede, non è, e mai potrà essere, la ragione in se stessa, la quale, in quanto dono di Dio, e dono speciale fatto all’uomo fra tute le creature, non può che essere buono e meritevole di essere sviluppato al massimo; bensì l’uso eventualmente sbagliato di essa. Il che accade quando la ragione non riconosce il suo carattere complementare alla fede e subordinato ad essa, né la priorità di questa in ordine alla Rivelazione e, quindi, alla partecipazione alla vita divina che all’uomo viene offerta. Questo è ciò che è puntualmente accaduto, nell’ambito della cultura profana, a partire dal Rinascimento, e soprattutto a partire dall’Illuminismo; e che si è ripetuto, nell’ambito della cultura cristiana, prima con la cosiddetta Riforma protestante (che è stata, in realtà, una devastante rivoluzione, basata sulla pretesa di una lettura esasperatamente individualistica della Bibbia), poi con una serie di tendenze evangeliche e razionaliste, alla maniera di Tommaso Campanella e Paolo Sarpi; e, da ultimo, con le correnti moderniste, con la critica delle forme e con l’introduzione del metodo storico-critico nello studio delle Scritture, sempre, si capisce, per "attualizzare" e rendere più "comprensibile" e più "pregnante" il Kerygma all’uomo moderno.

È sempre lo stesso ritornello: quasi per farsi perdonare lo scandalo della loro fede, i cattolici dell’età moderna hanno deciso di accettare in blocco e di far loro i metodi e le prospettive della cultura moderna – si pensi al gigantesco pasticcio di evoluzionismo cosmico e di spiritualismo escatologico nella concezione cristologica di Teilhard de Chardin; il che, nel caso della Rivelazione cristiana, equivale a sfrondare da essa tutto ciò che sa di "mito" e di "miracoloso", tutto ciò che non va d’accordo con la ragione strumentale e calcolante (non con la sana ragione naturale, la quale, nei grandi teologi del Medioevo, non ha mai litigato con la fede), con il bel risultato che, al posto di essa, non resta altro che un troncone mutilato e incomprensibile, un ibrido che non serve a nulla, perché non parla all’anima, più di quanto non dica qualcosa alla ragione.

Uno dei massimi esponenti della filosofia francese nella prima metà del XX secolo, il domenicano Antonin Dalmace Sertillanges (Clermont-Ferrand, 16 novembre 1863-Sallanches, Alta Savoia, 26 luglio 1948), da buon studioso di san Tommaso d’Aquino, aveva perfettamente presente il legame tra fede e ragione, allorché scriveva (da: A. D. Sertillanges, Il pensiero; titolo originale: Notre vie. La pensée, pubblicata nel 1926 dalla Revue des Jeunes; traduzione dal francese di Tarcisio Fornoni, Brescia, La Scuola Editrice, 1955, 1962, pp. 201-205):

L’armonia della libertà e della necessità, nella nostra vita spirituale, basta a tutto, e nella sua generalità, come in quella della nostra obbedienza alla voce interiore; comprende tutti i casi; ma, restando ancora nel campo del pensiero, un’armonia particolare chiede di esser precisata e studiata nelle sue difficoltà: quella della ragione e della fede.[…]

Se l’invisibile chiama e attira la creatura ragionevole, occorre che ciò avvenga sotto gli auspici del’ideale, perché è l’idea ciò che regge ogni attività cosciente. Dio agirà su di noi per mezzo della fede, come gli assenti per mezzo del ricordo e della speranza, il passato per mezzo della tradizione e l’avvenire per mezzo dell’ideale.

In più, essendo l’avvenire sperato per l’al di là anzitutto ed essenzialmente conoscenza, essendo l’oggetto ne è l’intelligibile ed il soggetto intelligente, le verità di fede che si presentano alla volontà come regole, si presentano allo spirito come ELEMENTI della scienza eterna, della quale noi siamo i discepoli prima ancora di esserne i veggenti.

La fede è "l’argomento dell’invisibile" (Ebr., XI, 1); essa prova ciò che non si può provare, e ci mostra ciò che non si può vedere, essa è la oscura chiarezza d’un astro che si libra al fondo degli spazi; essa appartiene alla conoscenza lontana che aspira a divenire conoscenza vicina; è un pensiero relativo all’altro mondo, che vuol diventare un pensiero IN quest’altro mondo, un pensiero in Dio, ma che già, per anticipazione, si stabilisce nel suo oggetto e vi fa la sua dimora, ciò che faceva dire a san Paolo: "la nostra CONVERSAZIONE, la nostra cittadinanza è nei cieli" (Filipp., III, 20).

Per essere iniziati a un sapere sovrumano p richiesta una disciplina sovrumana, così come per raggiungere uno scopo sovrumano occorre una sovrumana condotta: nella sua parte teorica la fede è l’abbicì del divino sapere, è la guida nel cammino: essa prende l’uomo per mano onde condurlo fuori del tempo.

La natura mista della fede e il doppio carattere del suo contenuto debbono essere chiariti. Il fatto che noi veniamo trascinati in una avventura celeste suppone, oltre alla utilizzazione delle nostre forze, un apporto speciale di Colui che ci invita a vincerci. Noi non ci si supera — lo abbiam detto più volte — se non ci è dato un soccorso. Ci occorre un supplemento di attività spirituale e, nello stesso tempo, corporale; dovendo poi questa attività scaturire dal di dentro, al posto di una perpetua spinta dall’esterno, ci occorre un supplemento di creazione. Dobbiamo venire ricreati in tutte le nostre attività, e questo è il compito della grazia; dobbiamo venire ricreati soprattutto dal punto di vista del pensiero, e questa è la VIRTÙ, o il DONO, della fede.

Si rimane estasiati davanti al mistero della creazione, ma la ricreazione spirituale è un mistero ben maggiore, dato che essa viene da Dio considerato nelle sue intimità, mentre l’altra riguarda soltanto le relazioni che Dio ha fuori di sé. Il SOPRANNATURALE, in noi, ha questo significato e anch’esso sarà, dunque, necessariamente, un oggetto di fede, come il Dio intimo e tutto ciò che vi si riferisce.

Per esprimerci più semplicemente, si potrebbe dire: il motore divino, e il mobile umano, l’uno e l’altro misteriosi in se stessi, o nel loro punto dio contatto, devono divenire l’oggetto d’un insegnamento che ce ne informi. La fede è come il lampo che s’accende tra il cielo e la terra, in quanto appartiene a due universi e li rivela entrambi dal lato in cui sono in rapporto. Nella fede c’è l’uomo e c’è Dio, c’è questo mondo e c’è l’altro. Noi subiamo un contatto del cielo che ci rivela poteri che non conoscevamo. La fede risveglia uno sguardo assonnato; essa suscita, in un essere umano, quasi una creatura divina.

Eccoci ormai entrati in un’alleanza che corrisponde alla nuova natura così sbocciata. Uno spazio spirituale è creato: la fede lo percorre e ci pone in esso. Senza farci rinunciare a nulla, se non all’errore e al male, essa ci allontana dal visibile per meglio esaltarci toccando l’invisibile, al quale essa comunica una "sostanza" (Ebr., XI, 1). La fede è come una astrazione, una negligenza relativa, una parziale negazione di ciò che è vicino in favore di ciò che, considerato in se stesso, è più vicino ancora, ma che sembrava lontano. Essa crea in qualche modo per noi gli oggetti divini; poiché Dio esiste forse per me, prima che io ci creda? Se io infatti l’ignoro o lo misconosco, quell’unico Sole lascia la mia anima alla notte eterna.

La fede, dunque, è la scienza dell’invisibile, così come la ragione è la scienza del mondo visibile; ed è chiaro che la fede può includere la ragione, perché l’invisibile include il visibile, così come lo spirituale include il livello materiale dell’esistenza; ma non si dà il contrario: la ragione, di per sé, non potrà mai includere la fede, né il visibile potrà includere l’invisibile. Chi si pone in una prospettiva puramente materialista non potrà mai capirlo: egli riduce il discorso sull’invisibile a una questione di telescopi o microscopi elettronici. Il problema, invece, non è di tipo quantitativo, ma riguarda il soprannaturale. E non è qualcosa di contrario alla ragione, bensì di superiore ad essa…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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