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A che gioco stiamo giocando?

La ragazza, folta chioma rossa e occhi verdi che "bucano" l’obiettivo, guarda in modo ammiccante, languidamente distesa sul divano, le falde della camicia semiaperte, così da lasciar intravedere gran parte di quello che c’è sotto – e non indossa biancheria. Ma quello che c’è sotto è una rete impressionante di muscoli, che spiccano sotto la pelle abbronzatissima: la ragazza è una body-builder professionista, e quello è il suo modo di colpire il pubblico. L’effetto, senza dubbio, è di sorpresa, quasi di sconcerto: il massimo della femminilità in superficie, e un concentrato di potenza virile appena al di sotto. A parte la "trovata" del suo agente commerciale o del suo fotografo specializzato, non c’è dubbio che lei abbia voluto giocare sull’ambiguità: apparire seducente come una super-femmina, ma rivelarsi, anche, fisicamente poderosa, come poteva esserlo un lottatore dell’antica Roma. Ma che cosa si è prefissa, esattamente? A chi, o a quali pulsioni del pubblico, ha creduto di rivolgersi, e quali istinti ha voluto stuzzicare? Siamo sul piano sportivo o su quello dell’erotismo? Dobbiamo ammirare il muscoli o la capacità di seduzione, sia pure sui generis? È molto probabile che non lo sappia neppure lei: che si sia prefissa di far colpo, ma esattamente su chi o su cosa, ciò è secondario. Forse lo sanno il suo fotografo personale  e il suo agente commerciale, ma si tratta di obiettivi specifici: una certa pretesa di originalità artistica da parte del primo, una strategia di marketing per il secondo. Si vende bene quel che si pubblicizza meglio, e non poniamo limiti alla creatività. In fondo, si tratta solo di un gioco, vero? 

Ora, senza scomodare troppo la filosofia, o l’Homo ludens di Johan Huizinga, resta il fatto che anche il gioco, a suo modo, è una cosa seria: anzi, in un certo senso, la più seria di tutte. Attraverso il gioco, il bambino scopre il mondo: e basterebbe già questa semplice osservazione per rendersi conto che non stiamo parlando di un’attività marginale, o banale, o ininfluente. Perciò, si dica a che gioco sta giocando una società, e si potrà dedurre dove quella società stia andando, quali siano i suoi scopi, quali i suoi valori. E la stessa cosa vale per l’individuo. Non è la stessa cosa giocare a un gioco o ad un altro: vi sono giochi buoni e altri cattivi; ma, soprattutto, bisogna stabilire a quale gioco si desidera giocare. In effetti, si direbbe che uno dei segni più vistosi della confusione che sta attraversando la nostra società siano proprio l’ambiguità, la contraddittorietà, l’incomprensibilità, voluta o non voluta, di tutta una serie di comportamenti, di azioni, di scelte, di stili di vita. Si direbbe che per un certo numero di persone, un numero che tende a crescere continuamente, la vita stessa sia una specie di gioco, una caccia al tesoro, o un gioco d’azzardo: si punta, si scommette, si spera di vincere, di ripulire il banco, di fare il colpaccio. Oppure che sia un gioco libero, "aperto", senza uno scopo preciso; non un gioco come quello immaginato da Hermann Hesse ne Il gioco delle perle di vetro, ma un gioco sbarazzino, senza capo né coda, improvvisato, senza regole, senza un principio e una fine: un gioco anarchico.

Il problema sorge appunto dalla non chiarezza del gioco. Se un gioco non è chiaro, diventa qualcosa di distruttivo. In particolare, il concetto di gioco si basa sull’esistenza di regole: non è pensabile un gioco che non preveda e non stabilisca delle regole, perché sono proprio le regole a definire le modalità, la qualità e la possibilità stessa del giocare. Se, per ipotesi, a dei giocatori venisse detto di ritenersi liberi e sciolti da qualsiasi regola, la partita, cioè il gioco, degenererebbe nel caos, e qualcuno potrebbe farsi male. Ebbene, questo è precisamente quel che sta accadendo da alcuni anni a questa parte, specialmente dopo il 1968 e la nuova mentalità da esso introdotta. A partire da quell’epoca, si è visto di tutto: perfino dei professori universitari che giocavano alla rivoluzione, che giocano ad essere dei piccoli Lenin, dei piccoli Mao, dei piccoli Fidel Castro o Che Guevara, e che spingevano i loro studenti a giocare, a loro volta,  il gioco della rivoluzione; e la stessa cosa hanno fatto un buon numero di scrittori, di registi teatrali e cinematografici, di artisti, pittori e musicisti, nonché di critici letterari. Lo hanno fatto dei genitori e lo hanno fatto dei preti; perfino delle suore. Negli anni ’60 e 0’70 del Novecento, vi è stato un fuggi-fuggi dai conventi femminili statunitensi, sotto le raffiche di vento del femminismo; alcune si sono proclamate apertamente lesbiche e hanno messo sul tappeto la questione che oggi sta "esplodendo", ossia l’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli omosessuali. E lo hanno fatto, anche troppo, cantanti e stelle dello spettacolo, che hanno sfruttato la loro vasta popolarità per incitare le masse giovanili a drogarsi, a rifiutare tutte le regole, a ribellarsi ai genitori, e a giocare sino in fondo il gran gioco della "libertà".

Anche certi scienziati, probabilmente, stanno giocando, e per giunta senza regole: si inebriano con la manipolazione della materia, del DNA, con la clonazione; si inebriano conducendo esperimenti crudeli sugli animali; si inebriano progettando e costruendo armi di distruzione sempre più potenti, da poter scagliare perfino nello spazio. È un gioco, perché lo giocano anche altri scienziati, dall’altra parte della "barricata": ma senza regole, perché ciascuno è libero di modificarlo in corso d’opera, di venir meno ai patti, taciti o espliciti che siano. In altre parole, i giocatori fanno e disfano le regole del giovo. Questo è pericolosissimo ed è contro tutte le convenzioni: da che esiste il mondo, e perciò da che esiste il gioco (anche i cuccioli degli animali giocano, per esempio), le regole si fanno prima, e non le fanno i giocatori, ma gli ideatori del gioco stesso. I giocatori devono solo giocare, ma attenendosi alle regole. Che succede quando invece i giocatori, a metà della partita, decidono di giocare secondo regole diverse, che l’avversario non conosce affatto? Per rispondere a questa domanda, basta guardarsi intorno e osservare quante delusioni affettive, quanti cuori infranti, nell’ambito sentimentale, sono provocati da persone che si rimangiano le promesse e decidono, più o meno bruscamente, di giocare un altro gioco; oppure quante persone, fin dall’inizio, si mettono a giocare in maniera ambigua, non lasciando capire se stiano giocando sul serio o per finta. Molte sofferenze nascono dal senso di tradimento che prova colui che si accorge di essere stato "usato" da un giocatore scorretto, il quale ha giocato, sin dall’inizio, una partita ambigua, truccata, basata sull’inganno.

L’ambiguità è divenuta il vestito, anzi, l’uniforme della modernità: una persona limpida e chiara, che non gioca sull’equivoco, che si mostra per quella che è, pare che si faccia fatica ad incontrarla. Evidentemente, tutti hanno paura di tutti: di essere ingannati e di soffrire; e così, si avvolgono in una fitta rete di ambiguità, quando non decisamente di menzogne, per proteggersi dai colpi imprevisti. Ma il gioco è andato troppo oltre: al punto che molte persone non si accorgono neppure del fatto che stanno giocando, e che il loro gioco risulta estremamente ambiguo. Facciamo un esempio. Ecco là una scolaresca in viaggio d’istruzione ad una grande città d’arte: le ragazze hanno cenato in albergo, e ora si apprestano a uscire per vedere la vita della metropoli by night. Sono tutte ragazze di buona famiglia, e tutte bene educate, almeno secondo gli standard odierni; sono anche ragazze serie, nel senso comunemente attribuito a questa parola: eppure, a chi le vedesse passare e ignorasse che si tratta di studentesse di liceo, la prima cosa che verrebbe in mente, sarebbe: dove se ne sta andando questo piccolo esercito di prostitute? Infatti, fra tacchi altissimi, trucchi e rossetti spalmati senza economia, scollature, trasparenze e minigonne, l’effetto d’insieme è, senza ombra di dubbio, quello di altrettante passeggiatrici notturne. Che cosa bisogna dedurne? Non era certo tale l’intenzione di quelle signorine, tutt’altro; loro volevano solo essere eleganti, e, si capisce, anche un po’ sexy: come vedono fare alla televisione e al cinema, per non parlare della pubblicità. Di essersi truccate e vestite in maniera volgare, in maniera spudorata, pare che non lo immaginino neppure: se qualcuno lo dicesse loro, si offenderebbero a morte; il che non vuol dire che non lo sapessero, magari in qualche angolo della loro consapevolezza.

Oppure prendiamo un ufficio pubblico, per esempio un ufficio postale. Fino a qualche anno fa, esisteva una regola non scritta, secondo la quale si va al lavoro vestiti in un certo modo, e in spiaggia in un altro: adesso, però, sembra che questa regola sia stata tacitamente soppressa, e sia gli impiegati, sia gli utenti, si presentano vestiti più o meno come se venissero dalla spiaggia. Anche un ufficio postale va bene per mostrare il massimo della superficie corporea scoperta, tatuaggi compresi; e, di nuovo, sorge la domanda: a che gioco stanno giocando, quelle persone? Si vestono a quel modo — o, piuttosto, si svestono a quel modo — perché vogliono sedurre qualcuno, o perché tale è il dettato della moda? Oppure, ancora, semplicemente perché solo così si piacciono abbastanza da uscire di casa e recarsi all’ufficio postale, per lavorare gli uni, per sbrigare le loro faccende gli altri? Se non mostrassero abbondantemente il seno e il fondo schiena, se non ostentassero le camicie trasparenti e le gonne inguinali, non troverebbero la forza di uscire di casa? Nessuno lo saprà mai; forse nemmeno loro. Agiscono così per una sorta di riflesso condizionato: provoco, dunque esisto; perfino Cartesio, se tornasse a nascere, modificherebbe il suo celebre cogito, ergo sum. Chi non provoca, chi non ammicca, chi non si denuda, semplicemente non esiste.

E tuttavia: se c’è qualcuno che lancia una provocazione, ce ne sono sicuramente altri che la ricevono e la raccolgono. Anche facendo la tara di un processo di assuefazione (se tutti provocano, è come se nessuno provocasse), resta pur sempre il fatto che le provocazioni, in particolare le provocazioni sessuali, trovano sempre la paglia a cui appiccare, se non sempre un incendio, almeno un fuocherello. Le azioni umane non sono indifferenti, perfino se nascono da decisioni inconsapevoli. Anche se chi provoca non si rende conto di farlo (ma è impossibile che, in qualche angolo del suo cervello, per quanto contratto e sterilizzato dal conformismo e dalla forza d’inerzia dell’abitudine, non lo sappia), il destinatario della provocazione potrebbe anche sentirsi stuzzicato, e perfino invitato. Nascono da qui situazioni spiacevoli, estremamente imbarazzanti per entrambe le parti. E la domanda è sempre la stessa: a che gioco stanno giocando, costoro?

Se, poi, passiamo al campo della politica, il quadro non cambia. Gli uomini politici, nell’era della globalizzazione e dello strapotere finanziario, tentano di governare per davvero, o semplicemente fanno finta? A che gioco stanno giocando? Quando adottano, con i loro governi e parlamenti, delle linee e degli indirizzi diametralmente opposti agli interessi delle loro nazioni e alla volontà e ai sentimenti dei popoli che, in teoria, hanno giurato di servire e di difendere, a che gioco stanno giocando? Come dobbiamo interpretare la loro ostinata indifferenza al vero sentire della gente comune, la loro arrogante pretesa di andare diritti per una strada che non è condivisa dalle masse, né faceva parte del programma elettorale con cui si erano presentati alle elezioni? Sono semplicemente fuori parte, sono semplicemente dei pasticcioni e dei disonesti, o sono proprio, nel senso tecnico e proprio della parola, dei traditori, ossia delle persone che hanno venduto a dei poteri terzi gli interessi della loro nazione? Anche in questo caso, non lo sapremo mai. Forse non lo sanno neanche loro. Stanno recitando una parte, una parte discutibile, questo è certo: ma se lo stiano facendo in buona o in cattiva fede, questo rimarrà un mistero impenetrabile.

Diceva uno scrittore che la forza e il vigore della vita di ogni uomo dipendono dalla chiarezza del suo pensiero, così come la debolezza interiore nasce dalla confusione mentale e dal dubbio del suo cuore. Ebbene, la società odierna sta producendo in serie, per così dire, uomini e donne sempre più confusi, sempre più dubbiosi, sempre più incapaci di decidere a qualche gioco stiano giocando, con quali carte, con quali dadi, e, soprattutto, con quali regole, o, piuttosto, con quale arbitrarietà, e perfino assenza, di regole. Il risultato è che delle vite umane confuse producono delle relazioni sociali confuse, e che tutto, ma proprio tutto, dalla vita familiare alla grande politica internazionale, dalla cultura all’economia, dall’arte alla finanza, sta scivolando nel caos di un gioco sempre più assurdo, incomprensibile, distruttivo. È abbastanza facile pronosticare la conclusione: seguitando di questo passo, la nostra società, anzi, la nostra stessa civiltà, finiranno per implodere e per farci regredire ad uno stato di autentica barbarie.

L’alternativa, cioè la possibilità di scongiurare la catastrofe, passa attraverso un cammino di chiarificazione del pensiero, sia a livello individuale, sia a livello sociale. Delle persone che sanno pensare con lucidità producono una società che sa pensare in maniera lucida. Il problema è che la cosa richiede del tempo, che forse non abbiamo più a disposizione; e, cosa ancor più importante, che la chiarezza del pensiero non s’improvvisa, ma scaturisce, a sua volta, dalla limpidezza dell’anima. Un’anima torbida produce pensieri ambigui; un’anima limpida produce pensieri chiari. La società alla quale apparteniamo ha saputo pensare con chiarezza per parecchi secoli, perché le persone, le famiglie e le istituzioni erano sorrette, nella loro vita, da un orizzonte di fede; e non è certo un caso che, quando gli uomini hanno voluto estromettere Dio dalle loro vite, per mettere al centro se stessi, hanno perso sia la trasparenza dell’anima, sia la chiarezza del pensiero. Pertanto, la strada per ritrovare l’una e l’altra cosa è quella che riconduce gli uomini a Dio: la strada della fede…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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