
Signore, pietà
16 Settembre 2016
Anche se una madre si scordasse di suo figlio, io non ti dimenticherò mai
17 Settembre 2016Qualora il Diavolo abbia, come si dice nel linguaggio della politica e in quello dell’arte militare, una strategia globale con cui attaccare l’umanità — e noi riteniamo fermamente che ce l’abbia, e non si limiti ad afferrare un’anima qua e una là, come un bandito di strada da quattro soldi — allora sarebbe necessario, anzi, assolutamente indispensabile, che gli uomini la individuassero, se sperano di potersi difendere efficacemente. Se non si pensa di essere sotto attacco, o, in ogni modo, se si ignora da che parte l’attacco verrà sferrato, le probabilità di poterlo fronteggiare con successo scendono quasi a zero. Non sappiamo se il Diavolo abbia studiato von Clausewitz, ma una cosa è certa: egli è una creatura estremamente intelligente, mentre basterebbe anche una intelligenza piuttosto mediocre per intuire che, se si vuole aver ragione di un avversario, la cosa migliore è colpirlo all’improvviso, quando meno egli se lo aspetta, e, più ancora, là dove meno egli se lo immagina: vale a dire, dove le sue difese sono minime, o, addirittura, inesistenti.
Chiediamoci, allora, dove le nostre difese sono più basse. Un forte indizio ce lo dà l’osservazione del male che, oggi, è forse il più diffuso: la depressione, nelle sue varie forme più o meno gravi, e in tutte quelle situazioni di fragilità psicologica che tendono a cronicizzarsi, e che non permettono alle persone di condurre una vita sana e normale, ma le obbligano a dubbiose psicoterapie, alla continua assunzione di farmaci, a una costante menomazione della loro libertà di muoversi, di agire, di scegliere, di amare, di sperare. Oltre ai depressi veri e propri, che, comunque, sono legione — si tratta di una malattia che non è sempre evidente, e, in ogni caso, che raramente si manifesta in modo eclatante e percepibile all’esterno, tranne che dai più intimi del malato; di una malattia che, addirittura, molti si rifiutano di considerare tale, e che non capiscono, o persino rifiutano di riconoscere, allorché colpisce un congiunto — vi è un esercito sterminato di individui che gravitano perennemente sull’orlo di uno stato depressivo, o che ne sono usciti, ma non del tutto; o che si sono rassegnati ad una convivenza con il fantasma di questa malattia, auto-limitandosi e rinchiudendosi in un cerchio esistenziale sempre più ristretto e meschino, sempre più asfittico e claustrofobico, per paura di affrontare la vita nella sua pienezza, con le sue splendide possibilità, ma anche con i suoi rischi inevitabili.
Se si potessero sommare i depressi veri e propri, e coloro i quali, pur essendo parzialmente guariti, non sono mai rientrati nella piena e assoluta signoria di se stessi, ma vagano come pallidi convalescenti sempre timorosi d’una possibile ricaduta, insieme a tutti coloro i quali si aggirano nell’area della depressione, pur senza esservi caduti dentro in pieno, ma che, quanto al loro umore e al loro tono vitale, si possono paragonare benissimo a dei depressi, nelle varie forme che questa malattia può assumere, arriveremmo sicuramente ad abbracciare una percentuale imponente della popolazione totale delle società occidentali, anziani e giovanissimi compresi. Alzi la mano chi non ha avuto a che fare con la depressione, o in prima persona, o in seconda o in terza persona; chi non ha avuto un padre, una madre, un fratello, un figlio, una moglie o un marito, un amico o un collega di lavoro, afflitti da questa malattia. E chi c’è passato, anche solo in seconda persona, sa di che inferno si tratti: sa come essa faccia rimpiangere di avere delle malattie magari anche più gravi, ma, almeno, chiare ed univoche, laddove essa, invece, colpisce strisciando, si insedia in silenzio nelle pieghe dell’anima, e poi non si lascia più snidare facilmente, per quanti sforzi si faccia per scacciarla, come un parassita maligno, come un ospite abusivo e indesiderato, che vampirizza la sua vittima designata, succhiandone la sostanza vitale.
Ebbene: fermo restando che la depressione è, evidentemente, il sintomo e non la malattia; l’effetto e non la causa del male, siamo profondamente persuasi che essa rappresenti la manifestazione più spettacolare – ma ve ne sono molte alte, delle quali, qui, non parleremo — della strategia d’attacco globale che ha quale obiettivo la prostrazione e, in ultima analisi, la distruzione dell’umanità; che essa, cioè, sia la parte visibile, o la più visibile, di quel sinistro iceberg che è rappresentato dal male di vivere di cui parlava — e ne parlava anche troppo, con malsano compiacimento — il poeta Eugenio Montale.
L’umanità moderna — e sottolineiamo l’aggettivo moderna — è affetto da un generalizzato male di vivere: da un disagio esistenziale profondo, impalpabile, inafferrabile, che toglie la gioia dai gesti, la luce dallo sguardo, che afferra le persone e le spegne lentamente, le riduce a degli zombie sopravvissuti a se stessi, alle loro speranze, al loro desiderio di vivere in serenità e pienezza. Il male di vivere, già ben descritto da Leopardi, è diventato il compagno inseparabile della modernità: lo troviamo appollaiato sulla spalla dell’amico, del parente, e, talvolta, sospettiamo che si sia posato anche sulla nostra spalla, silenzioso ed elusivo, senza che noi ce ne accorgessimo per tempo e senza che potessimo prendere, per tempo, le eventuali contromisure per difendercene. Quando il male di vivere si insedia in un’anima, la consuma gradualmente e implacabilmente, ne demolisce le difese, ne avvelena le sorgenti vitali: la priva della gioia, della pace, dell’equilibrio; la persuade che tutto è grigio, che tutto è inutile, che qualsiasi cosa faccia non servirà a nulla; la persuade di essere inutile, di non avere un posto al mondo dove sentirsi a casa, dove essere amata ed accettata; la sospinge diabolicamente, astutamente, verso la disperazione, mostrandole l’infinita vanità del tutto — cioè mostrandole, mentendo, una parte della verità, ma non tutta la verità: quella parte che avvalora e che conferma un così crudo pessimismo, un così amaro lasciarsi andare.
Chi è colpito da questo male, non ha più voglia di vivere, non ha più voglia di credere, non ha più voglia di sperare; non è più capace di amare, né di ricevere amore (con tutti il gran parlare, e straparlare, che si fa dell’amore nella società moderna!). Si faccia caso: è la perfetta negazione delle tre virtù teologali, la Fede, la Speranza e la Carità: così come esse aiutano a vivere, la loro perdita totale equivale a una sorta di lento, inevitabile suicidio dell’anima; perché un’anima che non sappia né credere in qualcosa, né sperare nel domani, né amare e lasciarsi amare, diviene, alla lettera, un’anima persa. Ed ecco un altro indizio che conferma la strategia globale del Maligno; ecco un altro segno di bruciato sul pavimento, un’altra zaffata di cattivo odore che ci ferisce le narici. Là dove si spengono la fede, la speranza e l’amore, è più che legittimo sospettare la presenza di colui che, distruggendo fede, speranza e amore, distrugge, negli uomini, l’opera di Dio, e li predispone alla dannazione eterna. La dannazione eterna è il risultato di una vita in cui non si abbia voluto né credere, né sperare, né amare. E tale stato esiste, eccome, anche se ciò contrasta con le recentissime dottrine di alcuni teologi modernisti e progressisti, i quali, a quel che sembra, considerano l’esistenza dell’Inferno come una cosa incompatibile con la misericordia di Dio. Forse non si sono domandati a sufficienza che cosa l’inferno sia. Non è detto che sia una fossa di fuoco, anche se così è apparso ad alcuni mistici, come Lucia dos Santos o Faustina Kowalska; che siano state una sorta di pedagogia del soprannaturale. Lago di fuoco o no, l’inferno, senza dubbio, è una condizione spirituale in cui si raccoglie quel che si è seminato nel corso della propria vita: e chi non ha saputo né credere, né sperare, né amare, si sarà condannato al buio con le sue stesse mani. Fede, speranza e carità sono le benedizioni della vita: chi le rifiuta, si attira, automaticamente, altrettante maledizioni. La vita aborre il vuoto: o si è aperti a ricevere i doni della Grazia, o si scivola inesorabilmente verso le tenebre. La neutralità non esiste, in questo campo.
La scienza medica e la psicologia sono pressoché impotenti di fronte a questo subdolo nemico, perché ne combattono i sintomi, non le cause; ed è naturale che sia così, dal momento che la scienza e la medicina moderne considerano la depressione esclusivamente come un male della psiche, non dell’anima; e la combattono con delle armi spuntate, perché ignorano la dimensione spirituale. Quanti di codesti pazienti avrebbero in realtà bisogno, o avrebbero avuto bisogno — al principio delle loro sofferenze — non già dello psicologo o dello psichiatra, ma del sacerdote e del confessore? Quanti di essi avrebbero potuto migliorare, o guarire, se avessero riconosciuto prontamente che era un male dell’anima? I mali dell’anima vengono dal peccato, cioè da una vita moralmente disordinata: chi semina vizio, raccoglie malattia. Quando si vive nel disordine morale — nell’invidia, nella gelosia, nella maldicenza, nell’infedeltà, nell’ira, nella superbia e nella lussuria – si creano le condizioni affinché si manifesti la depressione, che è disamore per la vita. E i medici e gli psicologi — non parliamo dei praticanti di quella forma di magia nera che è la psicanalisi — non sanno neppure riconoscere le cause del male, meno ancora sanno curarlo: perché una terapia che non vada al cuore del problema, è pur sempre un mero palliativo, e, se dà risultati, saranno risultati apparenti, non certo stabili e definitivi. E questo è un altro indizio: al male ormai più diffuso nelle anime umane, la cultura ufficiale è incapace di dare risposte che vadano in profondità. Difficile vedere in ciò soltanto una curiosa e sfortunata coincidenza, tanto più che la società moderna ha medicalizzato ogni malessere, anche il più lieve, anche un semplice mal di testa, e si vanta di saper individuare e bloccare efficacemente, purché diagnosticato in tempo, quasi qualsiasi male. Eppure davanti ai due mali ormai più diffusi, l’uno sul piano interiore, l’altro sul piano fisico, la depressione e il tumore, si vede quanto essa sia all’altezza delle sfide che pretende di saper affrontare.
Un ulteriore indizio del fatto che il malessere della modernità è il frutto di un vero e proprio attacco, e che si tratta di un attacco globale sferrato dal Diavolo, proviene dalla recisa negazione, accompagnata da un sorriso d’ironia o di supponenza, che esso abbia a che fare con la dimensione spirituale; anzi, con la recisa negazione che esista una dimensione spirituale, se si intende, con questa parola, una dimensione contigua al soprannaturale, e influenzata da esso: influenzata, vogliamo dire, tanto dall’alto, ossia dal divino, quanto dal basso, cioè dal demoniaco. La negazione del divino e la derisione del sacro sono indizi certissimi della presenza del demoniaco: e il fatto che la cultura moderna abbia ormai "stabilito", per bocca di quasi tutti i suoi esponenti, dalle cattedre universitarie come dalle pagine dei trattati scientifici, filosofici e persino teologici, che Dio non esiste, e che anche il Diavolo è solo un retaggio di tempi oscuri, è indice certissimo di una strategia satanica giunta ormai a un passo dalla vittoria più completa. Infatti mai, nella storia umana, il Diavolo era riuscito a convincere gli uomini della sua inesistenza, e mai era riuscito a nascondere e camuffare così bene la sua perversa influenza su di essi, e a far passare i vizi morali più orribili e ripugnanti — non solo alla legge divina, ma anche alla legge naturale -, come oggi sta avvenendo, per delle tendenze assolutamente lecite e naturali della natura umana, che sarebbe ingiusto reprimere, e che hanno diritto di libera cittadinanza quanto qualsiasi altra. In questo clima complessivo di stravolgimento e di capovolgimento dei valori morali, di rovesciamento del bene nel male e del vizio nella virtù, in questa derisione e svalutazione del bene, della sincerità, dell’onestà, della purezza, si sono create le condizioni più adatte affinché l’offensiva finale del Diavolo sia condotta a fondo con le maggiori prospettive di un completo successo. Vi sono state altre epoche di perversione e di aberrazione morale, nella storia; mai, però, come quella odierna: nella quale si proclama a voce alta, e si stabilisce per legge, che i vizi più contrari alla natura umana sono, invece, dei comportamenti assolutamente leciti e perfino encomiabili; e che, se qualcuno, per caso, non è d’accordo, costui merita di essere perseguito per legge come un nemico del vivere civile. Infatti, un medico o un’infermiera che si rifiutino di partecipare alla pratica disinvolta dell’aborto volontario, rischiano la perdita del posto di lavoro ed, eventualmente, un procedimento penale; mentre un saggista o un giornalista che parlino dell’aborto in termini critici, rischiano a loro volta di essere licenziati o, nel migliore dei casi, di essere zittiti, e di vedere cestinati i loro libri e i loro articoli. Davvero il Diavolo, oggi, ha motivo di fregarsi le mani per il compiacimento.
Il pericolo mortale che ci sta minacciando viene da lì. La depressione, e, in generale, il male di vivere, sono solo i fenomeni più vistosi. Un altro fenomeno è il crollo demografico: le culle vuote sono un altro segno del fatto che gli uomini, oggi, non credono più nel domani, quindi non credono più nella vita. Sono perplessi, intimiditi, spaventati: pensano di non avere il diritto di mettere al mondo dei bambini che dovranno vivere in un mondo tanto difficile. Questo è il suicidio biologico dell’umanità, o meglio dell’umanità occidentale, che si accompagna al suicidio morale, spirituale, intellettuale. Sono duecento anni che coltiviamo questo lento suicidio, per opera dei nostri "grandi" intellettuali. Per cui, di nuovo, sorge la domanda: chi ispira a costoro tanta frenesia di dissoluzione?
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