
Nelle foto di Doina su Facebook c’è tutta l’inconsapevolezza della post-umanità odierna
16 Aprile 2016
Che cosa è andato a fare papa Bergoglio sull’isola di Lesbo?
17 Aprile 2016Quand’è che abbiamo incominciato ad allontanarci da Dio, come membri della civiltà europea e cristiana?
Più che una risposta strettamente storica, più che una indicazione temporale precisa, vorremmo riflettere sul "quando" in senso morale, e interrogarci: quando si è verificato, quando si sono create le condizioni, quando è stato possibile, che la nostra civiltà abbia incominciato a voltare le spalle a Dio?
Ebbene, la risposta non può essere diversa da quella che riguarda l’uomo come singolo individuo, ossia come persona, e cioè: quando ha smarrito il senso della carità, dell’amore vero, sostituendolo con quella sua diabolica contraffazione che è l’amore disordinato di sé, impastato di lussuria, superbia e avarizia.
L’uomo antico non conosceva, o quasi, altra forma di amore: l’amore passionale, cieco, egoistico, che mira alla soddisfazione della nostra parte inferiore, brutale, selvaggiamente istintuale (quella tanto vezzeggiata dalla cultura moderna); e se, per caso, era capace di andare oltre, di addolcirsi, di ingentilirsi, di spiritualizzarsi, si trattava pur sempre di un sentimento rivolto al proprio simile, al membro della propria famiglia, del proprio clan, della propria tribù: l’amore incondizionato rivolto all’uomo in quanto uomo, di qualsiasi popolo o razza, non esisteva; non esisteva l’amore rivolto allo schiavo, al deforme, al nemico. Lo schiavo si poteva comprare, vendere, frustare, crocifiggere, impalare, bruciare vivo; il bambino nato deforme si poteva esporre fuori della porta di casa, e lasciarlo morir di fame o di freddo, come spettava al pater familias della Roma più antica, oppure gettarlo dalla rupe del monte Taigeto, come facevano gli Spartani; il nemico vinto, per quanto pregasse e scongiurasse, per quanto offrisse oro e qualunque prezzo del riscatto, poteva essere ucciso, così, per il puro gusto del sangue e della vendetta, come fece Achille con Licaone, uno dei figli di Priamo, sulle rive del fiume Scamandro (nel libro XXI dell’Iliade).
L’uomo antico era così: e tale lo descrive san Paolo nella Lettera ai Romani (1, 31): Sono senza pietà e incapaci di amare. Questo giudizio vale anche per gli antichi Ebrei: le frontiere dell’amore non giungevamo oltre la Giudea e le comunità giudaiche sparse nel Mediterraneo e nel Vicino e Medio Oriente; non superavano i confini della razza e della religione giudaica. Di più: le frontiere dell’amore non giungevano neppure a lambire il rivale, l’amico che ha deluso, il parente che diventa un competitore, il vicino che diventa un ostacolo. Gesù mise in luce questo mancanza di amore universale, quando disse: Amate il vostro prossimo, e anche il vostro nemico; se amate solo gli amici, che merito avete? Anche i pagani fanno lo stesso. Se fate del bene solo a quelli che vi fanno del bene, che merito ne avete? Anche i pagani fanno lo stesso.
La scoperta dell’amore di carità, spirituale, universale; la scoperta dell’amore come agape e come caritas, è una scoperta cristiana: è stato il cristianesimo a insegnarlo, e i cristiani ci hanno messo due millenni per assimilarlo, almeno parzialmente, almeno teoricamente. Con il ritorno, oggi, di un neopaganesimo di matrice gnostico-massonica, quale vogliono imporre i grandi poteri finanziari e gli organismi internazionali, a cominciare dall’O.N.U., anche l’amore di carità incomincia a regredire nella nostra società, a impallidire e sbiadire nelle coscienze, a relativizzarsi, a evaporare. Marito e moglie, padre e figlio, fratello e sorella, si danno battaglia nelle aule giudiziarie per ottenere, a condizioni favorevoli, un "giusto" divorzio, o per contendersi una eredità, o per l’affidamento dei figli, o per la direzione dell’azienda di famiglia. E, se il coniuge, il figlio, il genitore, il fratello, l’amico, ostacolano il nostro avaro senso di giustizia, non esitiamo a ricorrere alle calunnie, alle minacce, alla sopraffazione, alla violenza, alla rapina, all’omicidio. Lo zio non vuole cedere la fabbrica, non vuole dare spazio ai nipoti? Ed ecco che questi lo afferrano e lo gettano nell’altoforno, sicché non ne resta più nemmeno la più piccola traccia. La moglie ha scopeto l’infedeltà del marito, vuole separarsi da lui, vuole la divisone dei beni? Il marito la pugnala, occulta il cadavere, si lava le ani sporche di sangue, riprende la vita di sempre come se nulla fosse, dopo essersi costruito un alibi. È cronaca di ogni giorno, di ogni luogo.
Là dove si spegne l’amore di carità, torna a far capolino la bestia primordiale: l’uomo antico, carico di brame, cieco di egoismo, capace di qualunque inganno, di qualunque frode, di qualunque violenza. Torna a emergere Caino, brandendo la clava per assassinare suo fratello Abele, e poi fingere di non saperne nulla, con le tremende parole: Sono io forse il custode di mio fratello? La perdita dell’amore di carità implica, automaticamente, una regressione antropologica, uno sfacelo morale, una degradazione esistenziale. La vita diventa brutta, orrida: una foresta popolata di belve dalle zanne insanguinate, che si aggirano senza pace, in cerca di prede da divorare, sotto un cielo abbandonato dalla Grazia. Perché Marco Prato e Manuel Foffo hanno assassinato orrendamente, dopo averlo seviziato e torturato in ogni modo, un giovane scelto a caso, Luca Varani, la mattina del 4 marzo 2016, a Roma, finendolo con più di trenta coltellate e martellate? Nessuno lo saprà mai. Nessuno saprà mai cosa è passato per la mente dei due altrettanto giovani carnefici. Una cosa sola possiamo dire con certezza: che ben prima di giungere a tanto, nell’anima e nel cuore di quei due si era spenta completamente la fiamma dell’amore di carità. Avevano scelto l’odio; avevano scelto il male. L’anima aborre il vuoto: là dove si caccia Dio, subentra il Demonio.
Scriveva Giovanni Testori su Il Corriere della Sera del 23 luglio 1979 (in: G. Testori, La maestà della vita, Milano, Rizzoli, 1982, pp. 145-147):
Le virtù teologali, fede, speranza e carità, sono pilastri ben pari nell’importanza, nella grandezza e nella luce; ma sempre s. Paolo ci ammonisce che la carità è il compimento di tutto e, ancor più specificamente per quel che riguarda la nostra vita storica, che "la carità crede ogni cosa, spera ogni cosa". La distanza tra carità e assistenza è, dunque, incolmabile; questo ancorché la carità, per incarnarsi, possa aver bisogno di farsi assistenza […]
Incalcolabile è anche la distanza tra carità e giustizia. Nella giustizia esiste, certo, una pressione primaria e fortissima di carità; ma la carità continuerà ad esistere anche quando la giustizia, sulla terra, dovesse davvero venir realizzata. Questo parrà tanto più vero appena si vorrà meditare che la carità esisterà come il tutto stesso dell’essere quando, dopo l’ultimo giorno, dopo il "dies illa", fede e speranza non avranno più ragione d’esistere. E, tuttavia, una giustizia che non abbia come suo sangue la carità, dunque una giustizia che non sia cercata secondo Cristo, è destinata a generare il suo contrario; anzi, a suicidarsi. Come possono testimoniare gli esperimenti tentati nel nostro tempo dai regimi marxisti, finiti negli eccidi nelle lotte con altri regimi di uguale ideologia; lotte sempre sul punto di trasformarsi in stragi, secondo provano proprio in questi giorni, le navi di profughi , di affamati e di condannati a morte là, sulle acque del Vietnam.
Lo steso discorso vale per l’uguaglianza, che pure è parte vivente della carità. […]
[…] m’occorre forse spiegare come la carità diventa cultura. Lo diventa stabilendo in se stessa, cosa che non può non fare, l’uguaglianza con la bellezza; quella bellezza di Dio con cui Hans
Urs von Balthasar ha aperto, come in uno sfolgorante, alborale trionfo, la sua "summa" teologica. Stabilendo quell’uguaglianza la carità diventa forma.
Ora un’intelligenza, un sentimento, una forma, una realtà, dunque, di cultura siffatta contraddice tutto ciò che è stata la cultura che fu egemone negli ultimi secoli; ed egemone benché franante e cinerea, lo è anche ai nostri giorni; egemone in ogni senso; ma, primariamente, nel senso pratico e politico. Di tale cultura, ciò che resta vivo e ancora ci riguarda è la voce di coloro i quali hanno espresso il dolore, l’angoscia e l’agonia dell’uomo che ha perso, appunto, il senso della carità; la carità del Padre; e che, così, ha peso il Padre medesimo. Il dolore, l’angoscia e l’agonia dell’uomo che ha voluto rifiutare di riconoscersi figlio.
Essendo il destino dell’uomo, per sua nascita e natura, il destino della speranza e dell’amore di Chi e verso Chi l’ha creato, non v’è per lui altra possibilità onde riprendere il filo d’una cultura che lo consideri e lo realizzi nella sua totalità di creatura e non in una sola delle sue parti, se non affondare dentro le zolle della carità; e dentro la fede che permette alla speranza di farsi, appunto, carità, qui, sulla terra, e di partecipare a Chi è Carità e Amore infiniti e assoluti, una volta che il nostro frammento di storia sarà terminato. Che se quella partecipazione non avremo saputo meritare, ciò che ci attende è l’eterna agonia derivante dall’esclusione da quella Carità e da quell’Amore.
Ecco, dunque, come vide e indicò lucidamente Giovanni Testori, la via per tentar di uscire dal vicolo cieco nel quale l’uomo contemporaneo si è infilato e, testardamente, ha proseguito, pur vedendo i segni infausti che contrassegnavano il suo cammino: quella di un recupero della nostra umanità, mediante il ritorno dell’amore a Dio. L’uomo senza Dio regredisce allo stato di bruto, di energumeno, di selvaggio, di belva assetata di sangue. Se Dio non c’è, conclude significativamente Ivàn Karamazov, un personaggio di Dostoevskij, allora tutto è permesso. È un pensiero che fa paura, nella sua nuda e semplice verità. Dostoevskij aveva capito molte cose: ancora in pieno XIX secolo, aveva capito quasi tutto di quel che sarebbe accaduto poi.
Ma come rifondare una cultura dell’amore, in mezzo alle macerie dell’ego e al relativismo oggi imperante, fomentato e pilotato da poteri oscuri, aventi di mira l’assoggettamento totale dell’umanità? Come contrastare le forze del disordine, dell’oscurità, della prevaricazione, in questa tenebrosa era del Diavolo, che molti, con incosciente leggerezza e perfino con malcelato orgoglio, chiamano Era del Progresso? Se le forze del Male si sono scatenate, come predetto nel libro dell’Apocalisse, in che modo gli uomini possono correre ai ripari, costruire un argine, e, soprattutto, far rifiorire la pianticella dell’amore, in quell’arida steppa, in quel torrido deserto che è diventata la civiltà moderna?
Non esiste una ricetta, non vi è alcuna chiara strategia. La situazione è gravissima: ciascuno deve fare appello alle sue estreme risorse; deve gettarsi dietro le spalle le brame e la cupidigia dell’uomo vecchio, affinché possa rinascere l’uomo nuovo. L’uomo nuovo, quello insegnato e impersonato da Cristo, noi lo avevamo conosciuto: per questo, dice San Paolo, siamo senza scusanti (Romani, 1, 20-25): Gli uomini perciò non hanno alcun motivo di scusa: hanno conosciuto Dio, poi si sono rifiutati di adorarlo e di ringraziarlo come Dio. Si sono smarriti in stupidi ragionamenti e così non hanno capito più nulla. Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti: adorano immagini dell’uomo morale, di uccelli, di quadrupedi e di rettili, invece di adorare il Dio glorioso e immortale. Per questo, Dio li ha abbandonati ai loro desideri: si sono lasciati andare a impurità di ogni genere fin al punto di comportarsi in modo vergognoso tra di loro; proprio essi che hanno messo idoli al posto del vero Dio, e hanno adorato e servito ciò che Dio ha creato, anziché il creatore. A lui solo sia lode per sempre. Amen.
Anche l’uomo moderno, dopo aver conosciuto Dio e il volto luminoso del Suo amore, si è rifiutato di rendergli grazie, e si è dato ad adorare gli idoli: il potere, il successo, il piacere, il denaro. Anche l’uomo moderno, abbandonato da Dio, è caduto in preda a passioni vergognose, abbrutendosi e degradandosi, e, così, ricevendo in se stesso il prezzo del proprio traviamento. Perciò, non esiste alcun’altra strada, per uscire dall’abisso in cui è caduto, se non ritornare a Dio, come il figlio prodigo, pentito e pronto ad espiare. Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Questo deve dire l’uomo moderno, spogliandosi della sua sconfinata superbia, deponendo il suo diabolico orgoglio. La misericordia del Padre è sempre pronta ad accoglierlo: ma bisogna che lui lo voglia. Nessuno può essere salvato contro la propria volontà; nessuno può essere redento, se rifiuta la redenzione. Almeno questo, dovrebbe essere chiaro.
Sarà capace, l’uomo moderno, dopo tanta ubriacatura di onnipotenza, d’un simile atto di umiltà? Eppure, altre strade non vi sono, se non quelle che portano sempre più in basso, verso le tenebre…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash