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Abbiamo ancora bisogno di eroi?

Molte persone credono che la celebre frase: «Disgraziato il Paese che ha bisogno di eroi» sia una specie di proverbio o, comunque, una espressione di saggezza popolare, mentre è il riadattamento di uno scambio di battute nella scena finale del dramma di Bertolt Brecht «Vita di Galileo». Subito dopo l’abiura da parte dello scienziato, di fronte ai giudici dell’Inquisizione, un suo discepolo, deluso, esclama: «Sfortunato un Paese che non ha eroi!»; al che il maestro, umiliato, ma pur sempre sentenzioso, non si lascia sfuggire l’occasione di replicare con una battuta fulminante (da cui è tratta, per deduzione logica a contrario, la frase di cui discorrevamo all’inizio): «Felice il Paese che non ha bisogno di eroi!».

Galileo ha avuto paura delle torture: gli hanno fatto vedere i ferri (così, almeno, nel dramma di Brecht; e poco importa se la realtà è stata ben diversa). Lo scrittore tedesco – che ha conosciuto una non brevissima stagione di notorietà, tanto immeritata quanto incomprensibile, se non entro il contesto delirante della cultura sessantottina — ha avuto anch’egli paura, davanti ai giudici statunitensi della Commissione per le attività anti-americane, che lo interrogarono nel 1947 sulle sue opinioni comuniste: da qui la sua scarsa simpatia per gli eroi e gli eroismi e la sua predilezione per le strategie miranti ad aggirare i pericoli, più che ad affrontarli di petto; non senza qualche traccia di rimorso per la propria mancanza di coraggio.

Sia come sia, la domanda posta sul tappeto rimane, e non ha perso la sua attualità: è felice o infelice, un Paese che ha "bisogno" di eroi? È bene che ce ne siano, oppure è il segno che quel Paese si trova in una condizione "anormale"? Evidentemente, in questa prospettiva, la "normalità" sarebbe quella di una vita sociale priva di conflitti, o nella quale i conflitti siano talmente smussati, talmente deboli, talmente pieni di fair-play, da somigliare a delle innocue partite a scacchi, piuttosto che a dei confronti duri, fra soggetti decisi e irriducibili. E così, infatti, s’interpreta la frase «Sfortunato il Paese che ha bisogno di eroi»: tanto è vero che la si tira fuori, molto spesso, quando le cronache ci parlano di un efferato delitto di mafia, e soprattutto quando a cadere ucciso è un rappresentante della legge e dello Stato. Come a sottintendere che, in una società "normale", dove la mafia non c’è, non servono neppure gli eroi, e sono sufficienti degli onesti lavoratori e dei bravi amministratori pubblici. Ma è proprio così?

La mafia, certo, è un fenomeno largamente "anormale", nel contesto delle società cosiddette avanzate; ma siamo sicuri che la "normalità" sia una società dove i conflitti non esistono? È realistica, questa visione? Nei Paesi "normali" non ci sono, per esempio, i delinquenti, gli assassini, i terroristi? Non ci sono i terremoti, le inondazioni, le valanghe in montagna? E, se si ci sono, non c’è forse bisogno di una razza di uomini (e di donne) forti, coraggiosi, intrepidi, che sappiano disprezzare il pericolo e che siano pronti a sacrificarsi per il bene degli altri, per la sicurezza collettiva e per il rispetto della legalità? Che siano pronti ad offrire la loro opera nelle situazioni di pericolo, di emergenza, di calamità pubblica? Immaginare le società "avanzate" come assolutamente pacifiche e prive di conflitti è il residuo di una mentalità illuminista e positivista, che tracciava una ingenua e grossolana equivalenza fra benessere materiale e pace sociale; e, inoltre, che inseguiva il mito della illimitata perfettibilità dell’uomo, fino alla cancellazione degli istinti malvagi e alla instaurazione del paradiso in terra mediante la Ragione.

Naturalmente, sono tutte sciocchezze che non valevano neppure l’inchiostro con il quale venivano scritte. È incredibile che qualcuno ci creda ancora. Ancora più incredibile è il fatto che, pur non credendoci, la società odierna si regola come se quelle sciocchezze fossero verità sacrosanta. Il buonismo russoviano è diventato il credo ufficiale del cittadino del terzo millennio nelle società sviluppate — o, almeno, è diventato il credo che i poteri forti, le banche e la finanza, vorrebbero imporgli, mediante le delizie del cosmopolitismo, dell’umanitarismo, del pacifismo, del mondialismo e della globalizzazione selvaggia e omologante. Secondo questa filosofia, tutta la terra appartiene a tutti gli uomini e ciascuno è libero di andare, venire, insediarsi dove gli pare e piace, che gli altri siano d’accordo oppure no; ciascuno è libero di fare tutto quel che gli piace e che la legge non vieta. E, siccome ormai la legge non vieta quasi più nulla, ne deriva che ciascuno è libero di fare praticamente qualsiasi cosa: sposarsi maschio con maschio e femmina con femmina; assemblare un autentico arsenale da guerra nel garage di casa propria, con tanto di bazooka e mitragliatrici; drogarsi a volontà, ubriacarsi, prostituirsi; maltrattare i genitori e spillar loro i quattrini; scaldare la sedia a scuola e sul posto di lavoro; eludere il fisco, trasferendo all’estero la sede legale della propria attività imprenditoriale; abbandonare i bambini in balia della televisione, del computer, del tablet, dello smartphone, provocandone il graduale ma inesorabile incretinimento. E tutto questo perché si parte da un presupposto antropologico profondamente sbagliato: che l’essere umano sia buono in se stesso e che sia sufficiente assicurare dignitose condizioni di vita a tutti, perché la terra diventi un Paradiso.

La verità è diversa. I conflitti esistono ed esisteranno sempre, perché la natura umana non è angelica. I cattivi istinti esistono e sempre esisteranno; e l’uomo moderno ne ha aggravato gli effetti, perché, credendosi un dio, ha respinto l’aiuto soprannaturale che, solo, può consentirgli di tenerli a freno; e anzi, lusingandosi di avere conquistato una libertà quale mai vi era vista, ha dato loro libero sfogo, li ha vezzeggiati, carezzati, incentivati, esaltati, magnificati. Di conseguenza, se si vuole essere intellettualmente onesti, bisogna ammettere che c’è anche oggi, e sempre ci sarà, bisogno di uomini (e donne) forti, temprati, animati da un sincero amore per il bene pubblico e pronti al sacrificio. Se non si vuole parlare di "eroi", perché alla cultura progressista, basata sul sospetto e sul rifiuto, questa parola dà fastidio, possiamo anche chiamarli in un altro modo: il concetto, però, resta quello. Una società sana ha bisogno di persone così; una società diventa malata quando il tipo medio è spiritualmente debole, poco coraggioso, sempre pronto a rivendicare i suoi diritti ma poco o nulla disposto a sopportare dei sacrifici. L’egoismo individuale istituzionalizzato non può fare le veci dell’autentico spirito sociale, che presuppone, per sua natura, il rispetto delle regole, il culto dei valori e la disponibilità al sacrificio. Chi dalla società vuole solamente avere, ma non è disposto a dare nulla, se non le briciole che gli cadono dal piatto, è un parassita; e se un simile tipo umano diventa numeroso, o addirittura maggioritario, per quella società è finita.

A sua volta, il tipo "eroico", così come lo abbiamo definito, fatta la tara agli eccessi retorici di un tempo (ai quali, peraltro, hanno fatto seguito gli eccessivi anti-retorici attuali, ancor più esiziali di quelli), non nasce spontaneamente dal terreno, come i funghi dopo la pioggia: bisogna coltivarlo. E il primo luogo dove si deve coltivare è la famiglia. Se i genitori non insegnano, innanzitutto con l’esempio concreto, il valore della fermezza nei principî, del coraggio nelle avversità e dello spirito di abnegazione, i bambini non apprenderanno mai queste qualità, non le svilupperanno e non le faranno proprie: e cresceranno come i parassiti sociali di cui parlavamo, pieni di pretese verso la società, ma avari nel concedere qualcosa di sé. La scuola dovrebbe essere la seconda agenzia educativa a incentivare e incoraggiare tali qualità; e altrettanto dovrebbero fare la parrocchia, l’oratorio, i sacerdoti: parlare un po’meno di diritti, di relativismo e di misericordia divina, e un po’ più di doveri, sacrifici, valori e giustizia (divina e umana). Non si può presentare la famiglia come un bancomat, la scuola come un parcheggio e la Chiesa come un’assemblea democratica, dove c’è un Dio buonista che non fa distinzione fra il bene e il male e perdona sempre, anche chi rifiuta di pentirsi. Il buonismo, il permissivismo e l’indifferentismo culturale generano individui smidollati, egoisti, propensi alla viltà e alla scarsa onestà, per poco che siano sicuri di farla franca.

Ovviamente, bisognerebbe tornare al riconoscimento del merito: come accadeva una volta. Lo studente più bravo dovrebbe essere premiato con una cerimonia solenne, e additato come modello positivo ai suoi compagni. Il ragazzo che ha compiuto un atto di coraggio per aiutare il prossimo, dovrebbe essere premiato dalle pubbliche autorità, dal comune in su: i giornali dovrebbero parlarne (invece di indulgere sempre di più nei bassifondi della cronaca nera, vellicando gli istinti morbosi del pubblico), la televisione lo dovrebbe nominare (invece di fissare l’attenzione sugli squallidi vip dello spettacolo e del consumismo). Si dovrebbe tornare a parlare dei martiri: dei martiri della fede e dei martiri dell’idea. Beninteso: "martire", nella nostra cultura europea — che è la cultura cristiana — indica una persona che offre la vita per testimoniare la propria fede; non colui che, pur di uccide il maggior numero possibile di "infedeli", vilmente e a tradimento, getta anche la propria vita, o la fa gettare a dei bambini e a delle bambine innocenti e inconsapevoli.

La letteratura per l’infanzia, sino a un paio di generazioni fa, esaltava le figure degli uomini e delle donne coraggiosi, che sanno sacrificarsi per qualcosa di grande: la famiglia, la patria, la religione (la triade tanto sbeffeggiata dal ’68, appunto). Vi erano libri che parlavano dei missionari cristiani martirizzati nei Paesi più lontani, per diffondere il Vangelo di Gesù; libri che rievocavano i grandi eroi che hanno dato la vita per difendere la Patria, la sua dignità, il suo onore; e libri che raccontavano vicende esemplari di amore e abnegazione familiare, aventi, magari, per protagonisti dei bambini o dei ragazzi. Pensiamo solo ai racconti deamicisiani come «La piccola vedetta lombarda», «Il tamburino sardo», «L’infermiere di Tata», «Dagli Appennini alle Ande», «Sangue romagnolo» e «Naufragio» (quest’ultimo veramente bellissimo). Ora non se ne scrivono più, non se ne stampano più e non se ne regalano più. Nell’immaginario dei bambini, oggi, oltre ai mostri spaziali dei cartoni animati giapponesi e ai giochi elettronici pieni di aggressività e violenza, dove ci si identifica nel corridore motociclista che, per giungere prima al traguardo, travolge e uccide qualunque passante (tanto non c’è problema; i morti si rialzano e il gioco ricomincia), c’è poco altro: sicuramente non ci sono molti esempi di eroismo, di coraggio generoso, di tenacia altruista; tanto meno di spiritualità e di fede. Ci sono, al massimo, caricature delle fiabe classiche, e personaggi stupidi e grotteschi, come la Fata Carabina del furbo Daniel Pennac.

Ma oggi non si parla volentieri dei martiri cristiani, perché, non solo nella società laicista, ma anche nella Chiesa stessa, ci sono moltissimi che trovano inopportuno il concetto stesso di "missione": pensano che sia un segno di poco rispetto verso le altre culture e religioni; buttano via nella spazzatura duemila anni di storia missionaria, nella quale vedono solo arroganza e sfruttamento, e se ne vergognano, come ci si vergognerebbe di un parente pazzo o delinquente; soprattutto, non vogliono "offendere" la sensibilità religiosa altrui, e specialmente quella degli immigrati di fede islamica giunti in Europa negli ultimi tre decenni. Analogamente, non si parla più della Patria, e meno ancora dell’eroismo dei nostri soldati impegnati nelle guerre degli ultimi centocinquant’anni. Magari si potrebbe anche parlare di quelle del Risorgimento, e, forse, perfino della Prima guerra mondiale; ma è così grande il timore, da parte della cultura dominante, progressista e di sinistra, che qualcuno ne approfitti per "sdoganare" anche la Seconda guerra mondiale (che è stata, a tutti gli effetti, anche se non lo si vuole ammettere, una guerra d’indipendenza nazionale, come e più delle altre), e, magari, perfino le guerre d’Africa, che si è preferito tirare un rigo su tutto quanto. Niente più tradizione militare: è tutta brutta e cattiva; ha prodotto solo cose brutte e cattive: il nazionalismo, il colonialismo, il fascismo.

Così, si è buttato via il bambino insieme all’acqua sporca. Indipendentemente dal giudizio che si voglia dare su questo o quel periodo storico, sulla liceità di questa o quella guerra, il valore militare, da che mondo è mondo (cioè dall’elogio di Simonide ai caduti greci delle Termopili) è sempre stato un qualcosa di cui andare fieri: perché la Patria rappresenta il bene superiore, davanti al quale gli altri beni politici e sociali si devono inchinare. Non dovrebbe importare se i 2.000 soldati italiani e ascari che hanno difeso il Passo di Culqualber contro 20.000 Britannici e Abissini, nel novembre del 1941, combattevano per una Patria che, in quel momento storico, era governata da Mussolini: importa che combatterono e che seppero morire, da eroi, per l’Italia. Oggi non abbiamo più la generazione che ha prodotto gli eroi di Culqualber e di Giarabub; in compenso, abbiamo la generazione di Tangentopoli. Ogni campo produce i frutti che sono stati seminati.

Quanto alla famiglia, ognuno vede dove ci sta portando la deriva mondialista e omosessualista. Non solo non si parla più delle virtù familiari, dello spirito di amore e sacrificio che dovrebbe animarla, ma si proclama apertamente, e si legifera, che qualunque unione, stabile o provvisoria, eterosessuale o anche omosessuale, è una famiglia, ovviamente piena di diritti da rivendicare. E poi ci meravigliamo se i nostri figli deludono le nostre aspettative, anche le più modeste e le più legittime?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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