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15 Dicembre 2015Ci sono situazioni nelle quali l’unica cosa onesta che si dovrebbe fare, è tacere; ci sono persone che farebbero bene a stare zitte e che, invece, parlano e parlano, invocando per sé ogni sorta di attenuanti e scaricando sugli altri ogni sorta di aggravanti. Troppo facile, troppo comodo: nonché decisamente indegno d’un filosofo.
Il filosofo in questione è Norberto Bobbio (nato a Torino nel 1909 e morto, nella stessa città, nel 2004); e, siccome è considerato un maestro nell’ambito della cultura filosofico-giuridica, i contorsionismi, le viltà e le autentiche nefandezze contenute nella sua autobiografia, apparsa nel 1997, gli sono state perdonate pressoché dall’intero coro dell’intellighenzia italiana politicamente corretta, e specialmente da quella perennemente dominante, ossia di sinistra, la quale, nei suoi confronti, ha ritenuto consono adottare un atteggiamento di assoluta comprensione e discrezione, forse anche perché aprire un dibattito su quel libro avrebbe comportato rivoltare un milione di scheletri nell’armadio di altrettanti intellettuali italiani, passati disinvoltamente dal fascismo all’antifascismo e ormai accreditati come custodi e depositari di ogni sorta di virtù democratiche e, si capisce, antifasciste.
Per di più, Norberto Bobbio è morto già da qualche anno, per cui riaprire un discorso sullo squallore umano di quel libro potrebbe sembrare poco caritatevole e poco signorile; senonché, è stato lui stesso ad esporsi a questa eventualità, decidendo di scriverlo e di pubblicarlo, nei termini in cui lo ha scritto e lo ha pubblicato. Poteva starsene zitto: e avrebbe fatto meglio. Oppure poteva cogliere l’occasione per un esame di coscienza un po’ meno frettolosamente auto-assolutorio, e sarebbe stato meglio ancora. Una sola cosa non avrebbe dovuto fare: scrivere la propria autobiografia come una apologia di se stesso; auto-celebrarsi ed auto-incensarsi con quella improntitudine, e, soprattutto, con quel cinismo nell’infierire, lui, contro i morti: a cominciare da quel Mussolini che gli ha salvato la cattedra e da quel Gentile che tanto si è adoperato, oltre che sul piano culturale, prima, e su quello della pacificazione nazionale, poi, anche a livello personale, per salvare la vita a tanti ragazzi caduti nelle mani delle forze d’occupazione tedesche, fra il 1943 e il 1944.
Bobbio non ha avuto vergogna di insultare la memoria di uomini ai quali si era rivolto con tono estremamente servile per proteggere i propri interessi; di conseguenza, non vediamo perché si dovrebbero usare dei riguardi ala sua memoria, o fare sconti a quello sciagurato libro apologetico. Chi scrive un libro, e lo pubblica, si espone al giudizio altrui, per le idee che vi sono contenute; chi scrive un libro sulla propria vita, per raccontarla ai contemporanei ed anche ai posteri, si espone personalmente e individualmente al giudizio altrui. Inoltre, non si può invocare un trattamento di favore in nome della pietas verso i defunti, quando si è i primi a calpestarla e quando sarebbe stato tanto più giusto e opportuno rimanersene zitti, ed evitare di parlare di cose delle quali non ci si può vantare, ma verso le quali non si sa o non si vuole fare un atto di verità e di giustizia, e sia pure a posteriori, per mancanza di onestà verso se stessi. Con la penna si può ferire il prossimo, ma bisogna mettere nel conto anche la possibilità di essere feriti. Almeno, questo è quanto fa parte della normale dialettica sociale e culturale in un regime democratico, del quale ci si vanta alfieri e vessilliferi; è solo nei sistemi dittatoriali che si tace per compiacere le debolezze degli uomini importanti, vivi o morti che siano.
Gli episodi oscuri, nella biografia di Bobbio, sono piuttosto noti, e sono quattro.
1. Arrestato a Torino, nel 1935, per la sua frequentazione di circoli antifascisti, poi richiesto di presentarsi in Prefettura per discolparsi, si rivolse, per lettera, direttamente a Benito Mussolini, vantando le benemerenze fasciste sue e della sua famiglia e assicurando il Duce dei suoi fervidi sentimenti patriottici e fascisti.
2. Pochi mesi dopo, ritenendosi danneggiato nella sua carriera universitaria, mosse le sue alte conoscenze e interessò il quadrumviro De Bono, il quale ne parlò a Mussolini e poi, per soprammercato, gli scrisse una vibrata lettera, per scagionare il giovane filosofo da ogni sospetto e perorare la sua causa. La risposta del Duce fu positiva e gli valse l’assegnazione della cattedra di Filosofia del diritto all’Università di Camerino.
3. Il 3 marzo 1939, ossia un anno dopo la promulgazione delle Leggi razziali, Bobbio prestò giuramento di fedeltà al regime per ottenere l’assegnazione della cattedra all’Università di Siena.
4. Nel 1940 rinnovò il giuramento per ottenere la cattedra all’Università di Padova, che era stata Come si vede, non sono episodi particolarmente edificanti; tuttavia, come direbbe don Abbondio, non tutti possono avere un cuor di leone; e, del resto, le abili manovre dell’"antifascista" Bobbio, fra i meandri del Fascismo, per vedere garantita la sua carriera, non sono state molto dissimili da quelle di cento e cento altri suoi colleghi intellettuali: e nessuno gliene avrebbe fatto un particolare addebito, se avesse avito il buon senso di non vantarsene.
Vediamo, invece, che cosa il venerato "maestro" ha scritto, nella sua apologia, a proposito del secondo episodio (del primo si è sbarazzato dicendo che quella lettera a Mussolini lo imbarazza, ma assicurando di aver fatto innumerevoli esami di coscienza, e, in definitiva, giustificando la sua azione con lo stato di necessità; del terzo e quarto episodio, non dice nulla), ossia la lettera scritta da De Bono, su richiesta della sua famiglia, al Duce del Fascismo (da: N. Bobbio, «Autobiografia», a cura di Alberto Papuzzi, Bari, Laterza Editori, 1977, pp. 36-39):
«… Insegnai a Camerino per tre anni. Contemporaneamente studiavo per preparare il concorso a professore di ruolo. Venne indetto nel 1938, l’anno delle leggi razziali; infatti Renato Treves ne fu escluso, tanto che decise di lasciare l’Italia ed espatriò in Argentina. Senonché ricevetti una breve lettera, qualche tempo prima che si riunisse la commissione concorsuale, dal ministro dell’Educazione nazionale Bottai, secca secca, tre o quattro burocratiche righe in cui mi si comunicava che mi si restituivano i titoli che avevo presentato. Decisi di oppormi a un’ingiustizia che mi appariva colossale. L’ingiustizia che io dovessi rinunciare a un concorso perché qualcuno aveva sussurrato che ero stato arrestato per antifascismo. Avevo uno zio, generale di corpo d’armata, amico del quadrumviro Emilio De Bono. Gli segnalò il mio caso, De Bono ne parlò à direttamente a Mussolini; sicché, dopo un paio di mesi, ricevetti direttamente una lettera, altrettanto burocratica, con cui m’invitavano a ripresentare i titoli.
Anche questo episodio non poteva non provocare una polemica. Il quotidiano "Il Tempo" ha pubblicato in due occasioni diverse – nel 1986 e nel 1992 — la lettera che De Bono scrisse a Mussolini, per sollecitare la mia riammissione al concorso. La medesima lettera è stata citata da un intellettuale di destra, Marcello veneziani, autore del pamphlet "Sinistra e destra": "Se un antifascista come Bobbio ha potuto far carriera sotto il fascismo, allora vuol dire che il fascismo non è stato quel regime totalitario e liberticida che lo stesso Bobbio ha descritto. Oppure, vuol dire che Bobbio era allineato con il regime". In realtà la lettera di De Bono a Mussolini è soltanto [sic] uno squarcio sui costumi e sul linguaggio della nomenclatura fascista [segue la riproduzione della lettera di De Bono].
Pubblicando questa lettera, si voleva far credere che avessi ottenuto la cattedra per meriti fascisti, mentre è vero il contrario. Il regime aveva cercato di escludermi dal concorso universitario, nonostante i miei titoli. Non volevano darmi la cattedra, bensì volevano togliermela, come ho spiegato a Veneziani, in una lettera che egli pubblicò col mio consenso sul "Corriere della Sera":
"Era chiaro che la causa dell’esclusione era politica, e quindi era un sopruso — spiegavo nella lettera. — Perché avrei dovuto subirlo? Ricorsi ai mezzi di cui soltanto ci si può servire in uno Stato non di diritto: il ricorso al capo. […] Sembra che Lei non si renda conto che deplorare gli stratagemmi cui in regimi di dittatura ci si difende dalla prepotenza significa mettersi dal punto di vista del dittatore. Il quale ha per definizione sempre ragione. Ci si mette dal punto di vista del dittatore quando non si pronuncia una sola parola per condannare l’imposizione arbitraria, ma il levano alte grida per denunciare chi cerca di cavarsela con i soli mezzi che la dittatura gli concede."
Nella stessa lettera, facevo questa riflessione: è più grave che ci siano professori che abbiano [congiuntivo piuttosto improbabile] giurato fedeltà al regime o che ci sia un ministro — Giovanni Gentile -, per di più filosofo — che abbia [c. s. ] imposto loro di giurare? Dal punto di vista della gravità morale, chi è stato più riprovevole: coloro che hanno giurato o chi ha imposto il giuramento?».
Eh sì, povero Norberto Bobbio, perseguitato dal regime, costretto a rivolgersi al dittatore per essere difeso dalla dittatura, per riavere quella cattedra che essa gli voleva togliere ingiustamente: e che la ottiene a stretto giro! Povero Norberto Bobbio, che cita Renato Treves costretto a lasciare la cattedra perché ebreo, ma si scorda di dire di aver giurato fedeltà al regime anche dopo le Leggi razziali del 1938, e che non si fece scrupolo, poi, di assumere la cattedra di un altro professore ebreo cacciato da Padova, Adolfo Ravà. Povero Norberto Bobbio, costretto a scomodare lo zio generale di corpo d’armata, amico del quadrumviro De Bono, il quale va a scomodare due volte, a voce e per iscritto, Mussolini in persona, il tutto per garantire la specchiata fede fascista di Bobbio, il quale, frattanto, frequenta gli antifascisti e che dice di non aver visto altro mezzo, dopo il 1940, per far cadere la dittatura, che la disfatta della Patria. Povero Norberto Bobbio, costretto a piagnucolare da amici e conoscenti altolocati, e a pietire presso il Duce in persona, e non ha, poi, una parola di riconoscenza per costoro, anzi, sorvola sulla generosità del dittatore e infierisce sulla memoria di Gentile, rinfacciandogli l’aggravante di aver servito la dittatura, pur "essendo filosofo". Povero Norberto Bobbio, costretto a lottare con le unghie e con i denti per far valere il suo diritto a quella cattedra, dicendo di aver solo lottato "per cavarsela": lui, figlio della ricca borghesia, con il padre medico chirurgo e primario d’ospedale, tutti devotamente fascisti, con autista personale, due persone di servizio, una bella casa e addirittura due automobili nel garage, quando la stragrande maggioranza degli Italiani aveva solo la bicicletta. Eh, già: chissà che vita di stenti e di miserie avrebbe dovuto sopportare, se non avesse ottenuto quella cattedra, che gli spettava di diritto e che gli spettava, evidentemente, più di quanto non spettasse ai suoi colleghi ebrei, cacciati per la loro appartenenza razziale.
Nella pagina che abbiamo citato, sfila davanti ai nostri occhi, idealmente, tutta la miseria morale, spirituale, intellettuale, di un’Italietta eternamente serva e meschina, eternamente vile e maramaldesca, che non arrossisce nel vantarsi delle cose di cui si dovrebbe vergognare, né di offendere la memoria dei morti, né di travisare la verità, con opportuni ritocchi e aggiustamenti, senza mentire apertamente, ma suggerendo qualcosa che non corrisponde al vero. Il vittimismo di chi si dice ingiustamente perseguitato, ma striscia davanti ai persecutori e ottiene, su un piatto d’argento, ciò che desiderava; l’antico, radicato vizio di farsi raccomandare dagli amici degli amici degli amici, dagli zii generali, dai cugini ambasciatori, dai nonni cardinali, riemerge come da un bruttissimo film dell’italica auto-degradazione, sempre uguale a se stesso, esasperante nella sua monotonia. E quel che ha fatto Bobbio, lo hanno fatto decine e centinaia d’intellettuali che fecero carriera sotto il Fascismo, che sfruttarono amicizie, parentele e conoscenze per avanzare nelle rispettive carriere, per ottenere privilegi ed emolumenti, e poi si scoprirono, o si fabbricarono, una inossidabile verginità antifascista e democratica, senza pudore, senza vergogna, proseguendo le loro inossidabili carriere sotto la Repubblica democratica e antifascista, fra le accoglienti braccia dei partiti progressisti e di sinistra.
La copertina del libro auto-apologetico di Bobbio è stata corredata dalla fotografia d’un primissimo piano di lui, con l’aria severamente meditabonda, il volto "d’uom giusto" (direbbe Dante), lo sguardo serio di chi ha molto vissuto, molto veduto, molto imparato dalla vita. Come potrebbe non avere quelle abissali profondità, lo sguardo d’un gran filosofo? Ahi serva Italia, di dolore ostello…
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