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Dossetti, De Gasperi e la questione del partito cattolico in Italia

C’è stata una fase storica, fra il 1945 e il 1954, in cui il partito dei cattolici italiani era non solo l’elemento decisivo del quadro politico e istituzionale italiano, ma in cui esso stesso poteva coltivare un disegno ambizioso — o, se si preferisce, una grande utopia: quella di poter improntare dei propri valori, delle proprie idee e concezioni, l’insieme della società civile e della vita nazionale, sino a ricondurre l’una e l’altra entro quell’alveo religioso, cristiano, cattolico, che per secoli aveva costituito il loro orizzonte e che era sfumato, sul piano politico, con le vicende del Risorgimento dopo il 1848-49 ed il brusco "divorzio" fra Pio IX e il partito patriottico, e che, con il fascismo, era parso sul punto di ricostituirsi, ma solo illusoriamente.

Il cuore ideologico della Democrazia cristiana, in quel decennio decisivo, oscillava fra due differenti alternative: quella di Dossetti, integralista e "di sinistra", e quella di De Gasperi, laica e centrista. La vittoria di De Gasperi, concretizzatasi nel Terzo congresso nazionale, quello del 1949 (il primo dopo le elezioni del 18 aprile 1948 e della schiacciante vittoria democristiana), segnò l’uscita di scena della tendenza dossettiana; ma anche la linea degasperiana, vittoriosa sul momento, non sarebbe durata a lungo. Nell’agosto del 1953 il governo presieduto da De Gasperi cadde per le dimissioni del Presidente del Consiglio, a causa della sconfitta nella battaglia per la legge elettorale (la famosa "legge truffa"), che, promulgata nel marzo per le elezioni del 3 giugno, non fece scattare il premio di maggioranza su cui contava la Democrazia cristiana coi suoi alleati, avendo mancato l’obiettivo della maggioranza assoluta (il 50% più uno) per soli 50.000 voti (e che venne poi ritirata nel luglio successivo).

A partire da quel momento, gli uomini della Democrazia cristiana cominciarono a prendere le misure di una situazione nuova, rispetto al panorama e alle possibilità del decennio precedente: l’elettorato italiano si stava assestando in una costellazione di partiti in cui la Dc, probabilmente, non avrebbe più potuto replicare il successo del 1948, mentre il Partito comunista avrebbe continuato a porsi come la seconda e decisiva forza politica, con un consistente seguito elettorale e una salda presa sociale, non limitata all’ambiente operaio, ma in una dimensione interclassista. Il tutto sullo sfondo della Guerra Fredda, che si andava radicalizzando e che subordinava alle proprie logiche anche le politiche interne dei Paesi europei aderenti alla N.A.T.O.

Se Dossetti aveva desiderato, o sognato, un partito cattolico capace di improntare dei propri valori l’intera società, senza compromessi, ma anche con una forte apertura alle questioni sociali e con una speciale attenzione alle classi lavoratrici e alla parte più debole della società, e se De Gasperi aveva perseguito con indubbia abilità e intelligenza l’obiettivo, più moderato e realistico, ma pur sempre ambizioso, di porre la Democrazia cristiana come l’elemento trainante dell’assetto civile e istituzionale del Paese, ponendosi come la custode dei valori "occidentali" e liberali contro il comunismo, ma sempre conservando il proprio carattere laico e autonomo dal Vaticano (tanto che Pio XII non aveva voluto ricevere De Gasperi per il trentennale del suo matrimonio, volendo punirlo per essersi opposto all’"operazione Sturzo", cioè all’alleanza con l’estrema destra nelle elezioni comunali di Roma del 1952), entrambe le linee politiche risultarono sconfitte dalla evoluzione storica, politica e culturale, della società italiana, nonché dal radicalizzarsi del confronto internazionale fra comunismo e democrazia liberale, che rendeva estremamente problematico il perseguimento del disegno degasperiano.

Così ha rievocato quel momento di svolta Gianni Baget-Bozzo – che fu, egli stesso, vicino al gruppo dossettiano, oltre che a Fanfani e La Pira, prima di spostarsi su tutt’altre posizioni e avvicinarsi all’area politica del centro-destra – nel suo studio «Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e di Dossetti 1945/1954» (Firenze, Vallecchi, 1974, vol. 2, pp. 545-547):

«La Dc aveva visto fallire, nel 1954, i due modi fondamentali del partito cristiano che in essa si erano proposti: quello degasperiano  del "partito dei cattolici" e quello dossettiano del partito del’"umanesimo integrale": Il modello degasperiano avrebbe potuto reggere solo se la Dc avesse avuto una sua fondamentale autonomia nella mediazione, cioè, in concreto, se la prevalenza dei cattolici in parlamento  fosse stata assicurata. Un partito formalmente cattolico  avrebbe potuto assumere un compito di mediazione senza "velare"  la propria identità, solo a condizione di fondarsi su una posizione di forza autonoma e indiscutibile. De Gasperi non aveva certo inteso instaurare uno Stato confessionale o diminuire lo spazio della libertà civile, ma aveva ritenuto che solo un’indipendenza del partito cristiano da alleanze condizionanti avrebbe potuto consentirgli di combinare le varie forze politiche e sociali: una Dc non predeterminata nelle sue alleanze era per De Gasperi il nucleo politico di uno Stato capace di garantire la libertà di tutte le parti, di tutte le culture.

Il fallimento della legge maggioritaria rappresentò, quindi, un evento decisivo nella storia dell’assetto politico italiano post-fascista e nella storia della Dc, dove il gruppo ex popolare, che aveva sino ad allora seguito De Gasperi, non aveva saputo esprimere alcuna personalità in grado di continuare la politica del leader. Del resto, tale politica non era nei fatti proseguibile, poiché il consenso dei partiti laici all’egemonia democristiana, che era supposto al congegno dell’"apparentamento", era una possibilità cancellata dalla severa sconfitta da essi subita nelle elezioni del 7 giugno.

La politica di Dossetti era fallita perché la Dc era diventata il partito di confluenza delle masse d’ordine e l’alleanza fra democristiani e comunisti era divenuta improponibile. Questo non significa, però, la decadenza dei temi dossettiani, nemmeno quello del superamento del capitalismo; tuttavia, anch’essi non potevano che essere "alti", giacché la funzione  politica della Dc era incompatibile  con una sua qualificazione di partito del dialogo critico con il Pci. L’eredità dossettiana, svincolata dal riferimento al cristianesimo e dalla struttura utopiana, sarebbe stata poi operante nelle successive vicende della Dc.

Dopo il 7 giugno, alla Dc si poteva offrire un disegno di egemonia mediante un accordo con i partiti di destra, ma a ciò ostava non solo l”inconsistenza politica della forza di destra più numerosa, i monarchici, ma anche il fatto che un’alleanza formale con le destre avrebbe fatto fallire il compito di mediazione  cui il partito cristiano era culturalmente inclinato e in cui aveva trovato il suo ruolo nella società italiana. Alla Dc uscita dal congresso di Napoli non restava, quindi, che ratificare la politica delle alleanze condizionanti, di cui era espressione il governo Scelba; ma ciò la obbligava a depubblicizzare la sua natura di partito cristiano. Era quanto esigevano i partiti laici, come si era visto, durante le trattative per la formazione del governo Scelba, dalla richiesta del dicastero della Pubblica istruzione , posta come condizione dai liberali per ristabilire la propria collaborazione con la Dc. Fu un gesto che ripeté l’antico veto di Croce a un democristiano alla Pubblica istruzione nel governo Parri.

Ciò poneva in crisi l’autorevolezza e l’autonomia del partito cristiano e metteva in difficoltà i suoi rapporti con la Chiesa. I partiti minori pretendevano la laicizzazione formale della Dc, cioè che la giurisdizione ecclesiastica sui cattolici impegnati in politica fosse, se non eliminata, almeno posta in parentesi, e che cessassero le motivazioni e le richieste specificamente cattoliche nelle azioni politiche del partito di maggioranza, divenuto ormai partito di "maggioranza relativa".

La qualifica culturale che la Dc doveva assumere in questa sua diversa condizione era già emersa con la conquista della leadership del partito da parte della corrente di Iniziativa democratica: la Dc aveva preso la figura del garante della democraticità formale dell’assetto politico dell’Italia post-fascista. Essa si era posta, dopo il suo quinto congresso, come il partito che avrebbe subordinato  la propria identità ad un compito  di garanzia: cioè, tutte le scelte, tutte le proposte, tutti i contenuti, sarebbero  stati portati innanzi  in un quadro di una maggioranza politica ideologicamente democratica. La Dc si proponeva come il partito della mediazione pura; a ciò era stata spinta anche dalla sua natura  di partito cristiano, fondato sulla mediazione tra Chiesa e società politica. Dopo il 1954 questo diveniva la sua qualifica formale senza alcun riferimento teologico: la politica di mediazione avrebbe costituito il volto pubblico del partito, il suo unico nucleo teorico riconosciuto.»

Un partito cattolico trova la sua ragion d’essere nella difesa dei valori cristiani contro una società che tende a negarli o minacciarli, oppure contro una società ove prevalgano forze politiche di segno ostile, irreligiose e anti-cattoliche. Il primo partito cattolico d’Europa, quello del Centro tedesco, era sorto precisamente per la seconda ragione: nel 1870, nel momento della realizzazione dell’unità germanica e della nascita del Reich, laddove i cattolici si avvidero che sarebbero stati minoranza in uno Stato per due terzi luterano. In Francia, un partito cattolico in quanto tale non ha mai trovato seguito, benché questo Paese abbia subito, come e più della Germania, l’ondata anticlericale e anti-religiosa, di matrice massonica e positivista, dopo la caduta della monarchia di Napoleone III: forse pesò sul popolo francese anche il brutto ricordo legato alla Lega cattolica che, nel XVI secolo, alimentò la guerra civile e si macchiò di atti deprecabili, come la strage della notte di San Bartolomeo (cfr. il nostro articolo: «Nella prosa vigorosa di Arrigo Caterino Davila il memorabile ritratto di Coligny», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 21/11/2012).

L’Italia, come la Francia e a differenza della Germania, era un Paese cattolico. I cattolici italiani non dovevano temere, come quelli tedeschi, un "Kulturkampf" da parte dello Stato; in compenso, lamentavano le ferite inferte alla loro coscienza dalla politica risorgimentale, tanto dei moderati monarchici, quanto dei democratici repubblicani. Quelle ferite, inaspettatamente, erano state sanate proprio dal regime dittatoriale che interruppe l’evoluzione del sistema politico italiano dal liberalismo alla democrazia, cioè il fascismo: al punto che la Chiesa cattolica preferì liquidare l’esperienza del Partito popolare in omaggio alla politica di accomodamento con lo Stato, che sarebbe sfociata nei Patti lateranensi del 1929. I rapporto tra il mondo cattolico e il fascismo furono vari e complessi, e non è questa la sede per riassumerli, neanche nella maniera più sintetica; è un fatto, comunque, che, durante la dittatura fascista, la maggior parte dei cattolici non si sentì orfana della esperienza del Partito popolare e non rimpianse l’esilio di don Sturzo, il quale, da parte sua, non aveva saputo creare un gruppo capace di raccogliere la sua eredità.

La caduta del fascismo e la guerra civile riportarono in auge l’ipotesi di un ritorno dei cattolici alla vita politica con un proprio partito, anzi, la resero indilazionabile, a meno di voler lasciare campo libero al Partito socialista e soprattutto al Partito comunista, che già avevano egemonizzato il movimento resistenziale, e che si sarebbero presentati, a guerra finita, come le forze politiche di maggioranza relativa, pronte ad assumere la direzione della società civile e a guidare lo Stato, imprimendogli una svolta in senso filo-sovietico. Se, dunque, rifondare il Partito cattolico era una necessità, dopo il terribile biennio 1943-45, era ancora tutto da vedere che indirizzo sarebbe stato opportuno imprimergli, con quali finalità e con quali obiettivi minimi e massimi. Costruire un argine al dilagare del comunismo, e raccogliere così le forze moderate (comprese, eventualmente, quelle monarchiche e neo-fasciste), oppure puntare a una egemonia attiva, propositiva, e farne il perno di una "riconquista" delle masse nel segno dei valori cattolici, alla luce della dottrina sociale della Chiesa, così come si era delineata a partire dalla "Rerum novarum" di Leone XIII?

L’evoluzione della società italiana, nel decennio 1945-55, mostrò che esisteva un ampio spazio politico per la prima ipotesi, ma non per la seconda. D’altra parte, la Democrazia cristiana non avrebbe potuto mettersi alla guida di uno schieramento di centro-destra, senza suicidarsi: il centrismo degasperiano non era una opzione più o meno discutibile, ma una necessità. La Dc avrebbe potuto esistere solo come partito di centro, trasversale, interclassista, laico: onde avrebbe finito per mettersi in un vicolo cieco, sia spostandosi a destra, sia puntando a sinistra. Questo fu il suo intimo dramma, e a ciò si deve la sua agonia pluridecennale: tanto graduale quanto inesorabile…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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