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23 Settembre 2015Il Vaticano II è stato un colpo di mano dei teologi “progressisti” per scavalcare il Magistero?

Il Concilio Vaticano II ha visto realizzarsi un rapido e fortunati colpo di mano di alcuni teologi "progressisti" per impadronirsi della direzione della Chiesa e scavalcarne il Magistero? E, più in particolare, esso ha rappresentato la vittoria degli "specialisti" sui pastori d’anime, i vescovi, dunque la vittoria di quei "sapienti" e di quegli "intelligenti" contro la cui scienza presuntuosa Gesù aveva esplicitamente messo in guardia i credenti?
Quanto mai significativa ci sembra la testimonianza in merito di Joseph Ratzinger, poi papa Benedetto XVI, che fu egli stesso chiamato come teologo al Concilio Vaticano II e che così ricorda il periodo centrale di esso, ossia il 1964, quand’era professore a Münster (da: J. Ratzinger, «La mia vita»; titolo originale: «Aus meinem Leben. Erinnerungen 1927-1977»; traduzione dal tedesco di Giuseppe Reguzzoni, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1997, pp. 99-101):
«Ogni volta che tornavo da Roma trovavo nella Chiesa e tra i teologi uno stato d’animo sempre più agitato. Sempre più cresceva l’impressione non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva somigliare a un grosso parlamento ecclesiale, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio. Evidentissima era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso. Le discussioni conciliari venivano sempre più presentate secondo lo schema partitico tipico del parlamentarismo moderno. Chi veniva informato in questo modo, si vedeva indotto a prendere a sua volta posizione per un partito. In Germania, c’era ancora un sostanziale consenso nei confronti della forze che sostenevano il rinnovamento, a poco a poco, però, le tensioni e le divisioni che venivano attribuite al Concilio cominciarono a delinearsi anche all’interno del nostro paesaggio ecclesiale. Ma qui era in atto un processo ancora più radicalmente profondo. Se a Roma i vescovi potevano cambiare la Chiesa, anzi, la stessa fede (così almeno pareva), perché solo ai vescovi era lecito farlo? La si poteva cambiare, e, al contrario di quel che si era sino ad allora pensato, questa possibilità non pareva più sottratta alla capacità umana di decidere, ma, secondo tutte le apparenze, era posta in essere proprio da essa. Ora, però, si sapeva che il nuovo che i vescovi sostenevano, lo avevano appreso dai teologi; per i credenti si trattava di un fenomeno strano: a Roma i loro vescovi parevano mostrare un volto diverso da quello di casa loro.
Dei pastori che fino a quel momento erano ritenuti rigidamente conservatori apparvero improvvisamente come i portavoce del progressismo — ma era farina del loro sacco? La parte che i teologi avevano assunto al Concilio creò tra gli studiosi una nuova consapevolezza: essi cominciarono a sentirsi come i veri rappresentanti della scienza e, proprio per questo, non potevano più apparire sottoposti ai vescovi. Difatti, come avrebbero potuto i vescovi esercitare la loro autorità magisteriale sui teologi, dal momento che derivavano le loro prese di posizione dai pareri degli specialisti e dipendevano dagli indirizzi loro offerti dagli studiosi? A suo tempo, Lutero aveva sostituito l’abito sacerdotale con quello dello studioso, per mostrare che nella Chiesa gli esperti di Sacra Scrittura sono coloro che veramente possono prendere delle decisioni: poi questi rivolgimento era stato in qualche modo attenuato dal fatto che la professione di fede era comunque ritenuta come il criterio ultimo di giudizio. Il Credo era dunque criterio ultimo anche per la scienza. Ma ora nella Chiesa cattolica, quanto meno a livello della sua opinione pubblica, tutto appariva oggetto di revisione, e persino la professione di fede non appariva più intangibile, ma soggetta alle verifiche degli studiosi. Dietro questa tendenza, poi, dietro il predominio degli specialisti, si percepiva già qualche cos’altro, l’idea di una sovranità ecclesiale popolare, in cui il popolo stesso stabilisce quel che vuole intendere col termine Chiesa, che anzi appariva ormai chiaramente definita come popolo di Dio. Si annunciava così l’idea di "chiesa dal basso", di "Chiesa del popolo", che poi, soprattutto nel contesto della teologia della liberazione, divenne il fine stesso della riforma.
Se al ritorno in patria del primo periodo conciliare mi ero sentito ancora sostenuto dal sentimento di gioioso rinnovamento che regnava dovunque provavo ora una profonda inquietudine di fronte al cambiamento che si era prodotto all’interno del clima ecclesiale e che era ormai sempre più evidente. In una conferenza sul vero e falso rinnovamento della Chiesa, tenuta presso l’Università di Münster, cercai di lanciare un primo segnale di allarme, che però non fu quasi per nulla notato. Più energico il mio intervento al Katholkentag di Bamberga del 1966, tanto che il cardinale Döpfner si stupì dei "tratti conservatori" che gli era parso di cogliere…»
Dunque, secondo Ratzinger, i "progressisti" che si presentarono al Concilio Vaticano II con le idee ben chiare, a ranghi compatti – mentre, verosimilmente, gran parte dei padri, pur consci dell’importanza del momento, non avevano affatto ben chiaro quel che bollisse realmente in pentola — si preparavano a giocare la partita per spodestare la Curia romana, non senza abilità, su due differenti tavoli. In sede specifica, e dall’alto, agivano gli "specialisti", ossia i teologi, ma dei teologi che non seguivano più la teologia tridentina, la vecchia, collaudata, sacra teologia cattolica, bensì erano largamente penetrati da suggestioni e motivi di ascendenza protestante, primo fra tutti quello secondo cui lo studioso deve prevalere sul pastore d’anime, perché l’importante è la giusta lettura delle Scritture. In sede più generale, si parlava del "popolo cristiano" che, dal basso, rivendicava la sua "centralità", come se la Chiesa fosse un’assemblea di condominio, in cui prevalgono le decisioni della maggioranza, e non una istituzione di origine soprannaturale (per i credenti), che ha lo scopo di custodire gelosamente e di tramandare alle generazioni presenti e future la Rivelazione, nella sua integrità e purezza. Pertanto, una strategia in due tempi: dall’alto e dal basso; dall’alto, per intellettualizzare il cattolicesimo, per far prevalere il punto di vista degli "specialisti" su quello dei pastori; dal basso, per "democratizzarlo": trascurando, però, il fatto che la democrazia sarà (forse) una degna ideologia politica e una passabile forma di governo (quando funziona veramente e non diventa plutocrazia), ma non è affatto vero che essa vada bene per la gestione della Chiesa, che è, deve essere e deve rimanere basata su di una struttura gerarchica, data la sua specifica natura ed i suoi compiti, che non sono quelli di una organizzazione profana, per quanto rispettabile, ma di una realtà il cui scopo è indirizzare le anime verso Dio, nella giusta maniera e cioè secondo il Vangelo di Gesù.
Joseph Ratzinger vide per tempo la deriva e cercò, per quanto stava in lui, di correre ai ripari; stabilì una differenza fra il vero e il falso rinnovamento della Chiesa; comprese e dichiarò che la strategia di Lutero, attaccare e demolire la Chiesa partendo da una superiorità del teologo sul vescovo, si stava riproponendo da parte di coloro i quali dicevano di voler portare avanti, e sempre più diffondere, lo "spirito" del Concilio Vaticano II, intendendo per "spirito" la loro personale, e spesso arbitraria, interpretazione dei documenti conciliari. Senza contare che, se qualcuno si appella allo "spirito" di qualcosa, senza citare fatti e documenti precisi, evidentemente si riserva la più ampia e comoda facoltà di intendere ora questo ed ora quello, secondo la sua convenienza, eludendo una seria discussione e ogni autentico contraddittorio, perché gli altri non sanno esattamente, né possono sapere, che cosa costui intenda con la vaga e melliflua espressione "spirito". Fra parentesi, ci permettiamo di osservare che, da un punto di vista cattolico, non bisognerebbe abusare della espressione "spirito": per i cattolici, di Spirito ce n’è uno solo, va scritto con la iniziale maiuscola e non designa affatto una sorta di sapienza o ispirazione umana, ma la terza persona della Trinità divina; e, dunque, anche il continuo e un po’ troppo disinvolto indulgere a retorici discorsi sullo "spirito" del Concilio, auto-nominandosi i soli e veri depositari della vista profetica, rischia di assumere un significato irrispettoso, quasi blasfemo, perché sostituisce una volontà ed una intenzione puramente umane a ciò che è di spettanza divina.
Ratzinger, inoltre, dice una cosa ancora più grave: fa notare che dei vescovi, noti per essere sostenitori di una visione tradizionalista, improvvisamente, giunti al Concilio, assunsero una attitudine del tutto diversa, perfino opposta: si fecero notare come i più accesi sostenitori delle novità e del cambiamento, come impazienti propugnatori di una riforma radicale; e si spinge a formulare una domanda scomoda, scomodissima, e, soprattutto, inquietante: era tutta farina del loro sacco? Difficile, se non impossibile, pervenire ad una risposta; ma il fatto rimane, e dà parecchio da pensare. È un altro elemento, un ulteriore indizio che ci rafforza nella convinzione che il Concilio Vaticano II, non tutto, ma per come lo vissero quanti si presentarono all’appuntamento con una segreta aspirazione a rivedere tutto e ribaltare ogni cosa, diciamo pure a scavalcare la Curia romana e il Magistero, non fu quell’evento spontaneo, gioioso, incontenibile nelle sue spinte innovatrici, che tutti, o quasi tutti, si diceva desiderassero, auspicassero, attendessero. L’immagine di una Chiesa cattolica triste e languente, ripiegata su se stessa, incapace di affrontare i problemi del mondo moderno e quasi rassegnata a subirli passivamente, è semplicemente falsa: è l’immagine che i novatori, i progressisti, i modernisti, hanno voluto consegnare all’immaginario collettivo, dopo aver realizzato la rottura con la Tradizione e dopo aver messo le mani sui gangli vitali dell’organizzazione ecclesiastica, sfruttando anche l’inconsapevolezza di quella maggioranza di vescovi, e soprattutto di fedeli, i quali non si rendevano ben conto di quel che stesse accadendo e che prestavano fede, ingenuamente, a come il Concilio veniva raccontato dai mezzi di comunicazione di massa, mossi da un disegno strumentale di poteri occulti.
In altre parole, noi crediamo che vi siano stati almeno tre concili, che si svolsero l’uno accanto all’altro, ma come se giacessero su tre distinti piani di realtà. Il primo è stato il Concilio pensato e voluto dal Pontefice, seguito con sincera e commossa partecipazione da milioni di fedeli in tutto il mondo, elaborato e discusso, con impegno e buone intenzioni, da molti, moltissimi padri conciliari, ignari ed alieni da qualunque astuzia, da qualunque secondo fine. Il secondo è stato il Concilio del partito dei teologi e dei vescovi progressisti, dei "tecnici", degli "esperti", o di coloro che si ritenevano tali, e che approfittarono della fiducia del Pontefice e del fatto di essere presenti ai lavori, nonché dell’assenza di altri teologi, certo non meno eminenti, i quali però, chi sa perché, non vennero invitati a partecipare: essi avevano un disegno abbastanza preciso, non soltanto un generico desiderio di rinnovamento, ma la ferma e spregiudicata volontà di prendere le redini della navicella di San Pietro, di sottrarla ad un orientamento, ad una prassi e persino ad una teologia che giudicavano superati, obsoleti, non più adatti a rispondere ai bisogni del dialogo con la società moderna, per orientarla, secondo le loro intime convinzioni, verso le magnifiche sorti e progressive. Infine c’era il Concilio dei mass media, il Concilio narrato al pubblico dalla televisione e dai giornali: tutti, guarda caso, o quasi tutti, controllati e ispirati da poteri e da soggetti interessati ad accreditare la leggenda di uno "spirito" conciliare straordinariamente moderno e innovatore, fatto passare per profetico, ma, in effetti, nemico del passato, indifferente alla Tradizione, orientato a riconoscere il solo fondamento della Scrittura, interpretata, però, in maniera sottilmente razionalista; e insofferente di ogni prudenza, di ogni indugio, di ogni "conservatorismo".
La gente, nelle case, ebbe così l’impressione che il Concilio stesse andando verso il Progresso, per merito della apertura, del "coraggio" e della lungimiranza dei padri, e dello stesso Pontefice, cui vennero attribuite intenzioni, probabilmente, assai diverse da quelle reali; e ciò fu ottenuto con una vecchia e semplice tecnica di disinformazione, tuttora ben collaudata e sperimentata, sia quando i mass media parlano della Chiesa cattolica, sia quando parlano d’altro: quella di enfatizzare al massimo le parole e i documenti che rispondevano ai loro fini occulti, e di tacere completamente quelle parole e quei documenti che smentivano in pieno la loro lettura dell’evento conciliare. Questo terzo livello non era certo privo di ricadute sul secondo, nel senso che i padri "riformatori", corroborati dal tomo usati dai media per riferire i lavori della varie sedute, erano portati ad accentuare ulteriormente la svolta riformatrice; mentre gli altri si sentivano sempre più isolati e lasciati indietro dal gran fiume degli eventi.
Come ricorda Ratzinger, qualcosa ribolliva da tempo: c’era un grave malessere nella Chiesa. Forse Pio XII, che aveva pensato ad un concilio, per poi rinunciarvi, ebbe la chiara coscienza dei rischi…
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