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14 Agosto 2015«Cosa, dunque, è andato smarrito?»: questa è la domanda che potrebbe rappresentare, in una battuta, quasi un aforisma, la condizione dell’uomo contemporaneo, il quale, pur avendo al suo attivo gli incredibili successi della scienza e della tecnica, sente di essersi, nel complesso, piuttosto impoverito che arricchito: sente che qualcosa di essenziale è andato perduto, non si sa bene cosa, non si sa bene quando, e, soprattutto, non si sa bene perché.
Ha scritto Anne-Lise Maugue (da: George Duby-Michelle Perrot, «Storia delle donne in Occidente L’Ottocento»; traduzione dal francese di E. Benghi e altri, Bari, Laterza, 1991, pp. 432-433):
«.., Per quanto si innalzino con vigore da ogni parte inni che mischiano Progresso e Democrazia, si fa luce, come contrappunto, un lamento sempre più lancinante e desolato con l’avanzar del secolo: "sradicati", i brillanti giovani di Barrès, e destinati alla fine allo smacco, "senza qualità", l’uomo di Musil… Per riprendere le parole stesse del romanziere austriaco, "cosa dunque è andato smarrito?".
Ulrich, l’eroe di Musil, non manca di qualità: si cimenta dapprima nella carriera militare, in seguito, prova quella d’ingegnere e infine si dedica con successo alla matematica. Ma anche questa terza esperienza non approda a nulla, come le precedenti. Ì: "Un geniale cavallo da corsa matura in Ulrich la convinzione di essere un uomo senza qualità". Il fatto è che Ulrich si dedicava alla matematica più che altro per affermare, grazie ad essa, la propria superiorità. Dal momento che lo "spirito dell’epoca induce un giornalista ad attribuire del genio ad un cavallo, nulla ha più senso: […] ecco che, quando, dopo alterne vicende, avrebbe potuto sentirsi vicino alla meta dei suoi sforzi, lo salutava di lassù il cavallo geniale che era arrivato prima".
La rinuncia di Ulrich chiarisce la divergenza tra uno spirito in cerca di potere e un’epoca di anonimato e di livellamento quale quella moderna. Il fatto è che le trasformazioni economiche hanno sottratto la gestione del processo lavorativo a coloro che, altrimenti, sarebbero stati contadini o artigiani e che ora sgobbano in modo meccanico nelle grandi fabbriche, e nelle stesse condizioni si trovano gli impiegati del settore terziario, in pieno sviluppo. Anche i quadri vengono coinvolti: quegli ingegneri che Ulrich, nella sua immaginazione, vedeva "in viaggio tra Città del Capo e il Canada", si rivelano "strettamente legati alle loro tavolette da disegno". Tale processo tocca anche i padroni: nel corso del secolo, ai capitani d’industria,m agli eroi del capitale che lasciavano nel mondo l’orma della propria personalità, cominciavano a sostituirsi le società anonime. Mentre, in politica, "l’orrido straccione che passa" ha un peso, grazie alla scheda elettorale, Pri a quello del più dotato degli inventori o dei poeti. Il quale, in aggiunta, vede, in quella società del consumo e del divertimento, i cavalli da corsa e le mondane di alto bordo rivaleggiare con lui in celebrità e prestigio. Sin dal 1857, Flaubert identifica in "Madame Bovary" modernismo e mediocrità, attraverso la figura del farmacista Homais, ridicolo cantore del progresso: l’Europa della fine del secolo, da Parigi a Vienna o a Stoccolma, va lugubremente nella stessa direzione. Non vediamo forse lo stesso Zola, ben altrimenti entusiasmato dai progressi della tecnica rispetto a Flaubert, sistemare, alla fine, i suoi utopistici eroi di "Fécondité" e di "Travail" in campagna?
Tutto ciò chiarisce senza dubbio la distanza presa dagli intellettuali, nel corso di decenni, nei confronti della società borghese, della società dell’Utile mercantile e alienante. Senza dubbio, ma non solo… Perché, della crisi dell’individuo messo a confronto con il mondo moderno, ci è data, il più delle volte e con più chiarezza di quanto ci si potrebbe aspettare, una rappresentazione sessuata. L’ispirazione di Ulrich a diventare un grand’uomo, scrive Musil, deriva da un antico "tipo umano", divenuto un "fantasma ideologico". Non c’è nulla di più insistente di un fantasma, e questo lo è più degli altri: biologi, poeti, storici, drammaturghi, filosofi o romanzieri continuano ad avvertire e a definire il maschile come positivo procedimento di competizione, di conquista e di dominio, ad identificarlo con quegli "istinti polemici e guerrieri, del comando, della fermezza e della personalità", esaltati con foga da Proudhon, pur nella celebrazione delle virtù dell’uguaglianza. Un’immagine forte del peso dei secoli, un’immagine radiosa soprattutto, gratificante, abbastanza valorizzatrice da far sì che anche coloro che sono tormentati dalla incapacità a conformar visi non pensino affatto a contestarla.
No, non è l’immagine ad essere inadeguata, ma l’epoca… Epoca di facilità, di comodità, di sicurezza, di burocrazia, epoca folle e castrante: un "mondo ermafrodita", esclama Barbey d’Aurevilly, popolato di "semimaschi", sospira Barrès, un mondo la cui "virilità si infiacchisce", si lamenta Zola. La novella di H. D. Lawrence, "New Eve and Old Adam" pur avendo il suo centro focale nel rapporto coniugale, mostra che il disagio del marito, Peter Moest, non è circoscritto soltanto all’ambito amoroso. Anche il mondo circostante, nei suoi aspetti più moderni, ha un ruolo: "Il riscaldamento centrale dava unità al grande fabbricato, lo rendeva smile ad una grande cassa con celle incubatrici: detestabile cosa!".
"Che cosa si è perduto?": il controllo, il dominio, il potere, anche e perfino sul riscaldamento… Non c’è più modo di far valere e prevalere la propria individualità: si ritorna ad una prima infanzia anonima, passiva, asessuata. E che sia proprio questo il lamento di Adamo che risuona nelle pagine di Lawrence, lo indica con chiarezza più avanti lo stesso autore: "Il suo sangue e il maschio elementare che era in esso, si sollevarono; egli si sentì soffocare da istinti sconosciuti e non poté sopportare di essere così chiuso in quel grande, caldo fabbricato".»
Che cosa si è perduto? Che cosa ha perduto Ulrich, fallito di genio, in vacanza dalla vita di cui cera il senso, ma senza troppa convinzione? Che cosa la sua sorella gemella, Agathe, odiatrice della maternità e della famiglia "borghese", amante incestuosa del fratello? Che cosa i desolati e angosciati personaggi di Barrès, di Barbey d’Aurevilly, di H. D. Lawrence, tanto sensuali quanto irresoluti, mistici senza Dio, alla ricerca di una pienezza esistenziale che sfugge sempre loro dinnanzi, come l’acqua che si ritrae dalle labbra riarse di Tantalo, ogni qualvolta costui le avvicina per placare la sua sete divorante?
Perché qualcosa, senza dubbio, è andato smarrito. Non l’intelligenza: Ulrich ne ha da vendere; riesce bene in tutto quel che intraprende, a patto che non richieda di essere calato nella realtà di tutti i giorni: per questo è diventato un matematico di tutto rispetto, anche se deciso a non impegnarsi veramente a fondo. Non lo spirito d’osservazione: Ulrich (come l’Io narrante di Proust; come gli inetti di Svevo; come Leopold Bloom nell’«Ulysses» di Joyce; per non parlare dei vari Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda di Pirandello) ne possiede perfino troppo; nulla sfugge al suo occhio di spettatore esterno, eppure interessato alla commedia dell’esistenza e animato dallo scrupolo scientifico di un entomologo. E neppure la sensibilità: Ulrich ne ha quanto basta, pur se la tiene sotto controllo; però è soprattutto questo lato della sua personalità che lo spinge verso l’ideale occultistico e alchemico dell’ermafroditismo, fino a consumare — in piena consapevolezza – l’incesto con la sorella, onde realizzare l’unione perfetta degli opposti.
E allora? Che cosa, che cosa è andato smarrito? Che cosa non trova più Gregor Samsa, svegliandosi trasformato in scarafaggio; che cosa non comprende il signor K., accusato e citato in tribunale, per affrontare un incomprensibile processo? Che cosa manca ai Sei personaggi del dramma di Pirandello, a parte un autore che conduca a termine la loro storia, e un regista teatrale la porti sulla scena? Senza dubbio, qualcosa di profondo: qualcosa di molto più profondo del sesso, come scopre Lady Chatterley; qualcosa di molto più elusivo dell’amore come possesso, come scopre M. nella «Recherche», prima riducendo Albertine in una condizione di vera e propria prigionia, indi subendo i morsi crudelissimi della gelosia postuma, dopo che lei è fuggita ed è morta accidentalmente, cadendo da cavallo. Qualcosa che doveva essere lì da sempre, davanti ai loro (e ai nostri) occhi; forse più vicino ancora, dentro di loro (e di noi). Ma cosa?
Quel che abbiamo smarrito, e lo si vede già dall’uso del linguaggio, sia degli scrittori che dei pensatori, è l’anima: ciò che si dava scontato come elemento essenziale della natura umana.
È la perdita dell’anima, che fa dell’uomo contemporaneo uno sradicato, un esule, un avventuriero perplesso, uno spettatore angosciato, un groviglio di frustrazioni e di contraddizioni: è il fatto di non avere più, non soltanto un io — come denuncia Pirandello — ma neppure un’anima. E tuttavia: come si fa a perdere l’anima? O l’anima c’è, o non c’è: se c’è, non la si può perdere; al massimo, si può credere d’averla smarrita.
In effetti, a rigor di termini, le cose stanno proprio così: l’anima ci è data, dunque fa parte della condizione umana. "Fare anima", per usare la formula di James Hillman, è solo un’espressione metaforica: non si tratta di creare qualche cosa che non c’era, ma di accrescere, potenziare, e soprattutto rendere più consapevole, qualche cosa che si stava raggrinzendo, inaridendo, rimpicciolendo. Certo, se l’anima è una fiamma, allora può anche spegnersi; vi sono persone che, effettivamente, danno proprio questa impressione: che l’anima, in esse, si sia spenta, per non più riaccendersi. Lo dicono i loro occhi — lo sguardo non mente -, lo dicono i loro gesti, lo dice l’insieme della loro vita.
Eppure, bisogna guardarsi dai giudizi frettolosi. Quel che l’altro uomo è, rimane un mistero per noi; rimane un mistero perfino quel che noi siamo a noi stessi; figuriamoci gli altri. Solo Dio sa leggere in quegli abissi misteriosi, che sono le anime umane; abissi talmente sconfinati, che nessuno riuscirà mai a misurarli, né verso l’alto, né verso il basso. L’anima non si spegne forse mai del tutto, perché, come l’uomo non può darsela, non può neppure privarsene. È la stessa cosa che si verifica con il sentimento dell’amore: una volta che sia stato offerto, si trasforma in un dono che nessuna forza al mondo potrebbe riprendersi. Si può cambiare idea nei confronti di quella persona, si può cambiare radicalmente atteggiamento: però, se la si è amata per davvero, non si potrà mai smettere di amarla, ancora e sempre. Magari odiandola: le due cose non si escludono.
Dunque: l’uomo contemporaneo ha smarrito la propria anima; o, quanto meno, sente oscuramente d’averla smarrita, d’averla perduta chissà dove e quando: come l’Uomo senz’ombra di Adelbet von Chamisso, se ne va per le strade del mondo oppresso da un senso di angoscia, di terrore, e anche di insopportabile vergogna: teme che tutti quanti vedano e scoprano il suo indicibile segreto, perché un uomo senz’anima è anche un uomo abbandonato da Dio. Eppure, non è stato Dio ad abbandonarlo, ma lui a voltare le spalle a Dio, a rifiutarlo, a bestemmiarlo: è lui che non vuole più saperne di Dio e che va proclamando, ormai da più di un secolo, che Dio è morto, e che, in ogni caso, egli non ha più nulla a che fare con Lui. Persino i teologi lo hanno affermato nel modo più esplicito: Dio è un’ipotesi non più necessaria; anzi: è Dio stesso che vuole così, ossia che gli uomini imparino a far da soli, senza di Lui. Non vuole più essere il Dio Tappabuchi; non vuole più che gli uomini Gli si aggrappino, che attendano da Lui la soluzione dei loro problemi.
Questa, naturalmente, è una pessima teologia: la teologia appropriata per un’epoca tenebrosa come la nostra, nella quale si sovvertono e si capovolgono le cose più sante, ma senza avere il coraggio di trarne le logiche conclusioni: che, se l’uomo non ha più bisogno di Dio, non ha più bisogno neanche dell’anima; e che, se non ha più bisogno dell’anima, ciò significa che ha rinunciato per sempre ad alzare il capo verso il Cielo, e ha eletto a sua patria le Tenebre. Ecco, questo è il punto: l’uomo contemporaneo ha deciso di dannarsi l’anima, né vuole essere salvato; la parola "redenzione" non ha alcun significato, per lui; e neppure vuol essere consolato. Si crede forte e virile, perché rifiuta sia la Redenzione, sia la Consolazione, sia la Misericordia (ossia le tre Persone della Trinità divina). Pertanto, si è collocato da se stesso nell’Inferno delle proprie passioni disordinate: un Inferno dal quale, in certo qual modo, non vuole uscire, perché solo standovi dentro può levarsi l’amara soddisfazione di rinnovare il Peccato di Adamo.
È il vecchio sogno di Faust. Solo che nessuno può stringere un patto col Diavolo, senza venire poi crudelmente ingannato. Il Diavolo è il Padre della menzogna, e le sue promesse sono fallaci. Anche la scienza e la tecnica sono diventate diaboliche, dacché l’uomo le ha poste sotto le insegne di una smisurata ambizione: cioè, appunto, del Diavolo. E questa è la seconda cosa che è andata smarrita: il senso del bene e del male; e, dunque, il giusto timor di Dio, insieme a una sana paura del suo Nemico. L’uomo contemporaneo è come un bimbo che scherza col fuoco, e ignora che finirà per bruciarsi. Non si gioca impunemente con l’Inferno. O egli ritroverà la propria anima, o sarà perduto.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels