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Per Gombrich non c’è progresso nell’arte; e la cultura di massa è un’impostura

Esistono il Bello e il Brutto, come categorie e come valori autonomi, a sé stanti, a sono dei meri prodotti storici, delle realtà relative e soggettive, ai quali non è possibile affidarsi per ricavare delle regole estetiche di carattere generale?

Ernst Hans Josef Gombrich, austriaco di origine ebraica, nato a Vienna nel 1909 e morto a Londra, naturalizzato cittadino britannico, nel 2001, è stato senza dubbio uno dei massimi storici dell’arte del Novecento; alcuni dei concetti estetici da lui elaborati, come quello di tradizione e imitazione o come quello del rapporto tra norma e forma, sono divenuti praticamente patrimonio comune della cultura contemporanea.

Egli era convinto — contro la maggioranza degli storici e dei critici di qualche anno e qualche decennio fa — che il Bello e il Brutto non solamente esistono, ma che sono principi incontestabili; e che, d’altra parte, l’Arte con la "a" maiuscola non esiste, ma esistono solo gli artisti, i quali non creano le loro opere in senso assoluto, come pensavano i romantici, ma si ispirano largamente ai criteri della tradizione dell’imitazione; dunque non esiste nemmeno la storia dell’arte, è solo una invenzione degli storici dovuta a ragioni di utilità pratica.

Non solo: Gombrich se la prendeva anche con un altro grande feticcio della cultura moderna: l’idea di progresso; egli sosteneva che non esiste progresso nell’arte, che si tratta di un’idea assolutamente falsa e fuorviante, perché — sono parole sue — fa credere che esista una concatenazione logica e necessaria fra gli stili e le opere, mentre non esiste nulla di simile, né potrebbe esistere: se il Bello e il Brutto sono principi assoluti e incontestabili, è chiaro che nella formazione degli stili e produzione delle opere artistiche non può darsi alcun progresso, che sarebbe come dire un percorso ascensionale da ciò che è meno perfetto a ciò che è più perfetto.

Non molti anni prima di spegnersi, Gombrich fu intervistato dal saggista Guy Sorman, che pubblicò poi il colloquio, in parte sintetizzandolo, in parte riportando le sue precise parole, insieme a molte altre rilasciate da importanti uomini di cultura, nel saggio «I veri pensatori del nostro tempo» (titolo originale: «Les vrais penseurs de notre temps», Paris, Fayard, 1989; traduzione dal francese di Anna Silva, Milano, Longanesi, 1990, pp. 274-280), da cui estrapoliamo alcuni passaggi essenziali:

«L’idea che debba necessariamente esistere un progresso, voluto dalla storia, ci viene da Hegel e da Marx. Questo "storicismo" non ha alcun fondamento. Marx, ricorda Gombrich, ha tentato di spiegare che l’Arte era una sovrastruttura dei rapporti economici e che il cambiamento di questi rapporti portava necessariamente con sé progressi dell’Arte. Ma il modello non funziona. "Mettiamo a confronto Genova e Venezia nel Rinascimento: le due città hanno avuto un analogo destino economico. Perché Venezia è diventata un grande centro artistico e Genova no? La differenza è legata alla comparsa — del tutto imprevedibile — di geni in una, e non nell’altra, delle due città". Dunque non esiste la "storia" dell’Arte, né l’Arte in quanto tale. Esistono soltanto degli artisti: "uomini e donne ai quali è toccato in sorte il dono di saper equilibrare forme e colori sinché armonizzano e che non si accontentano delle mezze soluzioni, degli effetti superficiali o facili." La storia dell’Arte è fatta soltanto da una serie di geni e di capolavori che sfidano ogni spiegazione razionale. Ecco che cosa rende tassativamente impossibile la previsione in questo campo. "Non possiamo sapere quale sarà la prossima tappa". Il concetto di progresso nell’arte, mi spiega Gombrich, è assurdo, perché poiché i fini dell’Arte e dell’artista variano a seconda della civiltà. […] Gli artisti — egizi, greci, bizantini o romani — agiscono quindi all’interno di ciò che Gombrich chiama "logiche di situazione". E queste logiche cambiano. La loro logica è tale che tutti gli artisti si attengono inconsapevolmente alle stesse convenzioni. Se un pittore del XVII secolo guarda un paesaggio, lo "vede" e lo riproduce come tutti gli artisti del suo tempo. Alla fine del XIX secolo, lo stesso pittore "vedrà" quel paesaggio come lo "vedono" gli impressionisti. In ogni caso, la pittura non è mai "realista": la realtà esiste su una tela o su una parete solo attraverso delle convenzioni. […] Fino a Cézanne incluso, dice Gombrich, il filo dell’arte occidentale è stato pressoché continuo. Dall’Egitto agli impressionisti, la continuità ha vinto ogni variazione di stile e di tecnica. Il filo si spezza al’inizio del XX secolo. La funzione di testimonianza e di rappresentazione dell’artista si interrompe di colpo. Questa rottura, secondo Gombrich, è irreversibile. Il filo si è spezzato perché il ruolo dell’artista è diventato indeterminato: la fotografia e il cinema l’hanno reso privo di ogni funzione sociale. L’artista esprime soltanto i propri stati d’animo. Ciò può essere interessante: ad esempio, dice Gombrich, quando Kandinskij, Klee e Mondrian cercavano di raggiungere, dietro il velo delle apparenze, una profonda verità; o quando i surrealisti coltivavano la "divina follia". Ma si tratta di eccezioni. Più spesso l’artista, per esistere, si compiace di una irrequietezza pura e semplice. Per secoli l’Arte fu definita dalla sua immutabilità; ora è necessario che ci si muova, che si innovi. Assurdo! Un vero artista non ha affatto bisogno di essere un innovatore: Chadin o Velàzquez non hanno inventato niente, "si limitavano a essere eccellenti". Siamo entrati, spiega Gombrich, nell’era dell’"attivismo culturale": uno stile scaccia l’altro. L’arte astratta, apparsa appena sessant’anni fa, è già scomparsa. Gli stili non sono più creati dall’artista, bensì dal mercato e dalla critica. Nel timore di lasciarsi scappare un buon affare, la critica decreta che tutto è bello, sia la buona sia la cattiva pittura. La pressione del mercato è diventata tanto forte che pochi artisti riescono a resisterle. "Tutto è diventato Arte, tutto è consacrato". E, a parere di Gombrich, il peggior nemico dell’Arte è la mancanza di differenziazione tra il Bello e il Brutto, il fatto di pensare che tutto sia relativo: ma un Vermeer o un Rembrandt sono belli in assoluto. Come riconoscere allora il vero artista? "L’artista è il miglior critico di se stesso. Se dialoga con la propria opera, è un artista. Se dialoga con il pubblico, probabilmente è un impostore." I mercanti non sono gli unici responsabili della confusione tra Arte e impostura. Gombrich incolpa anche la cultura di massa. "Dopo la rivoluzione sovietica, l’idea che l’Arte debba essere accessibile alle masse popolarti si è estesa a macchia d’olio in Occidente. La cultura è diventata un’attività politica. I ministri della Cultura e delle Belle Arti, nonché i direttori dei musei, sono giudicati in base al numero di visitatori a cui concedono l’accesso ai capolavori. L’attivismo culturale presiede le mostre gigantesche e i musei faraonici dei tempi moderni. Goombrich afferma che questi musei sono soltanto degli emblemi nazionali dove tutto è apparenza e niente sostanza. I milioni di visitatori che si accalcano, spinti da uno "snobismo di massa", non vedono NIENTE. Essi non vedono niente perché è impossibile guardare un quadro in trenta secondi, impossibile vederne cento in un’ora. […] Gombrich nega di essere pessimista o reazionario: "L’Arte non può morire, perché gli uomini produrranno sempre delle immagini" Ma nulla indica che essi continueranno a eseguirle sulle tele La pittura su tela è probabilmente in via di estinzione.»

Ci sembra che il ragionamento di Gombrich meriti di essere seriamente meditato, sia nella sua "pars destruens", sia in quella "costruens". Quello che oggi, ormai da troppo tempo, si spaccia per arte, è, il più delle volte, ciarpame e provocazione, le cui regole sono dettate dal mercato e da una classe di critici asservita al mercato, oltre che condizionata pesantissimamente dai meccanismi alienanti e fuorvianti della società di massa. Il pubblico si aspetta ormai un certo tipo di opere e gli artisti, pilotati dai loro agenti e dai loro sponsor, non solo glie li danno, ma si spingono sempre un poco più in là, in una continua gara il cui scopo è stupire, sconcertare, scandalizzare. L’artista non dialoga più con la propria opera, ma con i gusti, i capricci, le ossessioni del pubblico, sempre tenendo d’occhio — naturalmente – i segnali che vengono dal mercato, proprio come l’agente di borsa non perde mai di vista i listini delle quotazioni finanziarie.

D’altra parte, ai primi del Novecento si è consumata una rottura — probabilmente irreparabile — nella continuità della tradizione artistica: per la prima volta è stato proclamato bello non ciò che è bello, ma ciò che piace all’artista, indipendentemente dalla tradizione e in odio allo stile corrente; il pubblico stato tagliato fuori dalla comprensione dell’opera, riservata, ormai, nel clima delle avanguardie, a una élite molto ristretta di intenditori. E così, mentre nell’autoritario Medioevo fin l’ultimo contadino poteva ammirare, comprendendoli, i mosaici o le vetrate istoriate delle cattedrali e l’ultimo pastore poteva leggere, comprendendoli – naturalmente fino a un certo livello – i versi di Dante, nella democratica modernità la stragrande maggioranza delle persone è ridotta a fare finta di capire i dipinti, le sculture e le architetture degli artisti d’avanguardia, le poesie dei poeti ermetici, tanto più se questi si proclamano progressisti e, dunque, favorevoli al "popolo" (ma nessuna persona del popolo riesce a capire i versi di Zanzotto o i film di Pasolini; semmai trova i primi indecifrabili, i secondi brutti e ripugnanti).

D’altra parte, se l’impulso estetico appartiene alla natura dell’uomo, e se il Bello esiste in sé e per sé, allora l’arte non è finita, non è morta, anzi non morirà mai, perché essa sopravvivrà quanto la civiltà umana; è tuttavia evidente che dovrà cercare altre strade, nuove forme espressive, altri stili, e che non solo dovrà abbandonare le vie sterili e fallimentari delle sedicenti avanguardie, ma dovrà ripartire da zero, essendo impossibile un ritorno puro e semplice alla tradizione. E noi non siamo in grado di prevedere quali forme e quali stili assumerà l’arte del futuro: possiamo solo dire che non bisognerà più cercarla, come si è fatto sinora, nei luoghi ad essa deputati, che saranno, sempre più, luoghi di alienazione estetica o, peggio, di mercimonio culturale, ma altrove, dove non si aspetta di trovarla, nelle pieghe nascoste e quotidiane della società — e quanto più nascoste e quotidiane, tanto più probabile sarà trovarla, perché solamente lì, nell’ombra e nel silenzio, la passione sincera di singoli uomini e donne che dipingono, scolpiscono, compongono musica e scrivono poesie, troverà il modo di esprimersi in forme limpide e naturali, esteticamente interessanti.

Certo, considerate tutte le arie che la cultura moderna si dà in nome del progresso, e dunque anche del progresso artistico, sarà una bella lezione di umiltà, diciamo pure una bella bastonata: sarà un mettere a nudo la miseria intellettuale e la miseria estetica di quanti, oggi, operano istituzionalmente nel settore della cultura, e si gonfiano d’orgoglio perché il museo tale è stato visitato, nel corso dell’anno, da un milione di persone, o perché la tale amministrazione comunale o provinciale, o il tale ministero, ha organizzato dieci, cento, mille mostre di pittura, serate di cinema, concorsi di poesia e concerti di musica classica e leggera. Come se la legge dei grandi numeri, come se il principio della quantità avessero qualcosa a che fare con l’arte e con l’autentica fruizione delle manifestazioni estetiche.

I veri artisti hanno sempre lavorato in relativa solitudine, in un corpo a corpo incessante con se stessi, sdegnando e rifuggendo i clamori pubblicitari: e così continuerà ad accadere, specialmente in una società, come la nostra, che ha ridotto l’arte a un fatto di mode e di interessi commerciali e che ha predicato e praticato incessantemente, testardamente, un relativismo assoluto, in tutti i campi della vita e del sapere, estetica compresa.

Certo, il senso del bello può essere profanato, stravolto, prostituito a logiche extra-artistiche; tuttavia crediamo — con Gombrich — che non potrà mai venire estirpato completamente. Distrutto, risorgerà: perché fa parte della natura umana, come testimoniano le forme più antiche di vita civile, dai braccialetti trovati nelle sepolture preistoriche alle pitture rupestri, realizzate nelle caverne più buie, ove non giunge mai la luce e nelle quali l’uomo non entrava mai — perché non vi abitava affatto -, se non in occasione di particolari solennità e cerimonie. L’impulso a produrre opere d’arte è, dunque, originario e insopprimibile, proprio come il senso religioso: entrambi derivano dal senso del mistero ed entrambi hanno a che fare con l’estasi e con il sacro, quantunque in modi e prospettive differenti.

Lasciamo, dunque, che i nichilisti per partito preso e i pessimisti di professione continuino a intronarci gli orecchi con le loro geremiadi sulla fine dell’arte: sono individui di corto vedere e di superficiale sentire. Parlano tanto dell’uomo, ma non lo conoscono, né credono in lui: giudicano il mondo sulla loro mediocre misura. Bisogna aver fede, invece, che vi sarà arte finché vi sarà l’uomo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Pixabay from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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