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La natura delle Alpi Cozie nella descrizione di Ammiano Marcellino

I Romani avevano già conquistato vaste regioni al di là delle Alpi quando parecchie popolazioni alpine, stabilite da tempi antichissimi nelle valli medie e superiori, avevano ancora conservato, di fatto e in parte anche di nome, la loro indipendenza; ad esempio, Cesare aveva ormai conquistato e sottomesso la Gallia, quando il piccolo regno del re Cozio godeva ancora di una discreta autonomia, e fu in qualità di alleato di Roma che, nel 12 o 13 a. C., egli finì per associarsi al potente vicino, stringendo un patto personale con Ottaviano Augusto; poco dopo, fra l’8e il 9, per commemorare tale evento, venne eretto l’arco di Susa, nella capitale del territorio, alla presenza dello stesso imperatore romano.

Si trattava di una regione di altissima rilevanza strategica, perché comprendeva l’itinerario più frequentato dai Rimani per passare nella Gallia transalpina, e viceversa, quello che sfruttava il colle del Monginevro (Mons Matrona, a 1.854 metri s.l.m), che, essendo più basso ed agevole degli altri, fra i quali il Piccolo San Bernardo, si prestava a un attraversamento meno difficoltoso, specie nel caso delle spedizioni invernali: di lì si pensa che sia passato Annibale, col suo esercito e i suoi elefanti, nel 218 a. C.; e di lì sarebbe passato, nel 1796, Napoleone con la sua Armata d’Italia e con il tricolore repubblicano. Da Torino a Susa, risalendo la Doria Riparia, il cammino era facilissimo; le difficoltà cominciavano dopo Susa, per inerpicarsi fino alla fortezza di Enxicomagus (Exilles), per poi procedere, fra brevi tratti più dolci e improvvise impennate, fino alla stazione ad Martis (Olulx), a Caesao (Cesana Torinese) e da ultimo al già nominato Mons Matrona, per poi discendere verso Briançon, con una forte pendenza.

Non è che i Romani trascurassero l’importanza delle vie di comunicazione adducenti alle loro conquiste transalpine, né che sfuggisse loro la necessità vitale di avere il transito sempre libero, per i loro commerci e per i loro eserciti; il fatto è che anch’essi, come i Greci, e – un po’ come tutti gli antichi popoli dell’area mediterranea insediati nelle regioni costiere o pianeggianti -, provavano un disagio e quasi una sorta di orrore istintivo per la natura alpina, non erano ben attrezzati per affrontare gli spostamenti nella stagione invernale, conoscevano poco e male la l’ambiente, le risorse e gli stessi pericoli di quelle zone, cui non si spingevano se non per assoluta necessità; è significativo che il lato occidentale della cerchia alpina, il più alto e il più ripido, sia caduto definitivamente sotto il controllo diretto di Roma solo a partire dal regno di Augusto, alle soglie, ormai, dell’era cristiana, mentre le catene centrali e orientali, generalmente più basse e meno inaccessibili, erano già state inglobate nell’area imperiale e cui erano state fondate colonie importanti lungo le vallate principali, o al loro sbocco (si pensi, nel caso delle Alpi Carniche e di quelle Giulie, rispettivamente a Zuglio e a Cividale, entrambe denominate Forum Iulii).

Insomma i Romani, popolo di pianura, si decisero a stringere il cerchio attorno alle Alpi solo quando le esigenze della loro politica imperiale resero ciò assolutamente necessario e improrogabile; costruirono ardite strade militari, fortezze ben munite ed efficienti stazioni di posta, ma sempre con l’occhio rivolto alla pianura e senza mai legarsi stabilmente alle alte valli di montagna, estranee al loro orizzonte geografico abituale. Non stupisce che si siano accaniti con delle dure spedizioni militari solo contro le popolazioni alpine che apertamente si opponevano al transito lungo le principali vallate, nel qual caso furono spietati; ma che lasciarono margini di relativa autonomia ai popoli, come i Liguri del re Cozio, che si mantennero benevolmente neutrali. Ai Romani non interessava la natura alpina: Cesare descrive con particolare interesse la natura della Gallia e della Germania, le foreste, gli abitanti, la fauna selvatica, ma dimostra scarsa attenzione per la natura, pur così grandiosa e suggestiva, della catena alpina, ch’egli aveva più volte attraversata, in entrambi i sensi: anche questo è significativo e mostra come la "curiositas" dei Romani raramente si spingesse in direzione delle alte montagne che essi attraversavano unicamente per le loro necessità di ordine commerciale e militare, mai, o quasi mai, con l’occhio spassionato del viaggiatore o del naturalista. Perciò poco sapevano delle popolazioni alpine, poco delle piante e degli animali: i boschi li interessavano in funzione delle esigenze strategiche, specialmente per le costruzioni navali; oppure, ma generalmente solo nelle vallate inferiori, per il divertimento della caccia, come sappiamo, fra l’altro, dall’epistolario di Plinio il Giovane, che soleva praticare questa attività, specialmente la caccia al cinghiale, nei boschi sopra la sua Como).

Delle Alpi Cozie, divenute provincia romana a partire dal 63 d. C., ci parlano, comunque, diversi autori antichi: lo stesso Augusto, nelle sue «Res Gestae»; Cassio Dione, nella «Storia Romana», (libri LIII-LIX); Floro, nella «Epitome» (II), Svetonio nelle «Vite dei Cesari» (II e III), Tacito negli «Annali (I e II)», Velleio Patercolo nella «Storia si Roma» (II); a questi bisogna poi aggiungere un altro grande storico, il maggiore dell’età tardo-imperiale: Ammiano Marcellino (seconda metà del IV secolo), che ci ha lasciato una vivida descrizione della natura aspra e selvaggia di quel tratto della catena alpina e che ha narrato la maniera, estremamente avventurosa, con cui i viaggiatori affrontavano il passaggio da un versante all’altro, specie se la stagione era invernale.

Scrive, dunque, Ammiano Marcellino nel capitolo 10 del quindicesimo libro sue «Historiae» (traduzione dal latino tratta da: Ignazio Cazzaniga e Alberto Grilli, «Antologia della letteratura latina», Milano, Carlo Signorelli Editore, 1969, pp. 566-569):

«Questa regione delle Gallie per il rilievo montano erto e coperto dal gelo delle nevi perenni fino ad oggi presso che ignota al resto del mondo, salvo dove è vicina alla costa, la chiudono baluardi che le son stati gettati attorno dalla natura come per artificio di difesa. A Sud è bagnata dal mar Tirreno e dal golfo del Leone [Gallico mari]; dove guarda a settentrione è separata da genti incivili dal corso del Reno; dov’è rivolta a occidente è serrata dall’Oceano e dalle vette dei Pirenei [che però non c’entrano affatto con le Alpi: è un errore di Ammiano]; dove si stende verso oriente s’arresta ai piedi del bastione delle Alpi Cozie: è per di qua che il re Cozio, rimasto solo dopo la pacificazione delle Gallie a trincerarsi nelle strette dei monti e a contare sull’asprezza dei luoghi privi di strade, e finalmente al placarsi di tanta sicumera accolto come alleato dal principe Ottaviano [che, in realtà, all’epoca era già Augusto], fece salire una strada con grandi lavori in roccia, come forma d’omaggio memorabile, scorciatoia e comoda ai viaggiatori, al centro tra le altre vecchie strade delle Alpi, di cui darò informazione un poco più avanti. In queste Alpi Cozie, che hanno inizio dalla cittadina di Susa, si leva l’altissima catena che quasi nessuno riesce a traversare senza rischi. Infatti per chi arriva dalle Gallie è un pendio in una ripida incassatura, terribile per la vista delle rupi che incombono dalle due parti, specialmente al tempo della primavera, quando allo sciogliersi dei ghiacci e al marcir della neve sotto al soffio più tepido dei venti, mentre scendono a passi incerti per le gole dirupate sui due lati e per gli abissi insidiosi perché coperti di nevi, uomini e giumenti ruzzolano e con loro i carriaggi; per evitare una caduta esiziale è stato trovato questo unico rimedio, che per lo più i veicoli legati con funi enormi, mentre a tergo il valido sforzo di uomini o buoi li frena col passo che appena striscia pe terra, vengono a valle con un po’ più di sicurezza. E questo succede (come dicevo) in primavera. D’inverno invece la terra incrostata dal gelo e come levigata e perciò sdrucciolevole spinge a scivolare senza potersi arrestare; e in più gli aperti tratti vallivi sui pianori ingoiano a tradimento per il ghiaccio di tanto in tanto i passeggeri. Per questo i pratici dei luoghi configgono nei passaggi più pericolosi dei pali di legno che sporgono, in modo che il loro tracciato guida senza danno il viaggiatore: ma se questi scompaiono coperti dalle nevi io rovesciati dai torrenti montani che precipitano a valle, difficilmente si superano le frane [Ammiano dice: "graves", un vocabolo alpino, forse di origine celtica, vivo tuttora nelle Alpi francesi e ladine, per indicare un terreno che smotta lungo un pendio: nota dei curatori], anche se fan strada dei valligiani. Dalla sommità di questa salita sul versante italiano si estende un pianoro di sette miglia fino alla stazione di posta detta di Marte, di qui un’altra impennata ancor più ripida e a stento superabile porta alla cima della Matrona, cui diede nome il caso di una nobildonna [ma codesta spiegazione di Ammiano è errata: quel monte prendeva il nome dal culto delle Matres, divinità galliche]. Di lì il cammino scende, ma più agevole, fino al castello di Briançon ["castellum Brigantiam patet"]. Il sepolcro di questo piccolo sovrano, che dicevamo aver costruito il cammino, è a Susa accosto alle mura e i suoi mani sono venerati con particolare rispetto per due ragioni, perché aveva retto la sua gente con giusto governo e diede al suo popolo una pace perpetua entrando in alleanza collo stato romano.»

Come si vede, l’attenzione di Ammiano — che, probabilmente, parla di quei luoghi per conoscenza diretta e non solo sulla scorta d’informazioni di seconda mano — è tutta concentrata sulle difficoltà della traversata dal versante italiano a quello gallico; da buon militare di professione, il suo occhio è particolarmente attratto dagli elementi che possono facilitare, o, viceversa, rendere più gravosa e pericolosa, la traversata, specialmente nelle dure condizioni climatiche dell’inverno alpino, con il ghiaccio, il vento gelido e, al principio della primavera, il pericolo costante e pressoché imprevedibile delle slavine e delle valanghe. Si interessa al modo di rendere meno scivolosa la marcia sul terreno ghiacciato, di come limitare il rischio delle cadute.

Ammiano non è un etnografo, non è un geografo, non è un naturalista; nulla ci riferisce circa le popolazioni, i loro modi di vita, le loro credenze; alcune informazioni sulla etimologia dei toponimi, anzi, appaiono decisamente errate: è evidente che si è accontentato dell’aspetto pratico delle notizie di cui disponeva; altrettanto indifferente sembra alla flora e alla fauna di quella regione, di cui non si ferma neppure a celebrare la bellezza, e sia pure l’orrida bellezza del sublime (un concetto, questo, che verrà elaborato, peraltro, solo molto più tardi, in clima ormai romantico).

Non possiamo rimproverare ad Ammiano queste carenze, o questa avarizia di informazioni etnologiche e naturalistiche, carenza che, a noi moderni, si presenta come una carenza; non era questo il suo campo d’interessi e non era per attardarsi con simili descrizioni che egli aveva concepito e realizzato la sua grande opera storiografica, la più significativa di quante ci ha lasciato la letteratura latina dopo Tito Livio e dopo Tacito. Egli era un uomo pratico, pragmatico, che cercava di essere obiettivo in tempi di passioni accesissime e che riuscì anche ad esserlo, in misura ammirevole (pagano, ma non nemico pregiudiziale del cristianesimo, ammirava l’imperatore Giuliano, del quale, pur celebrandone la magnanimità, non esitava a mostrare anche gli errori e le notevoli ingenuità), assai più di quanto non lo fu Tacito (che ci ha lasciato, con il cupo ritratto di Tiberio, il più insigne esempio di deformazione ideologica della storia antica). La natura lo interessava poco o nulla in se e per sé, ma solo nella misura in cui aveva a che fare con le vicende militari e politiche da lui descritte.

Ciò non toglie che la sua pagina dedicata alle Alpi Giulie si distingua, a nostro parare, per la forza e la qualità letteraria della descrizione, tanto più notevoli se si pensa che l’intento dello scrittore era di natura del tutto diversa da quella puramente descrittiva (anche se è vero che gli storici antichi, compresi i migliori, si consideravano prima di tutto dei letterati, e non degli specialisti, nel senso che noi oggi diamo alla parola); c’è da chiedersi di cosa sarebbe stato capace se avesse rivolto il suo talento, anziché alla storiografia, alla letteratura "pura", ad esempio al genere epistolare, come Plinio il Giovane, o magari alla poesia. Certo aveva la stoffa dello scrittore di razza, capace di creare, con pochi tratti appena, un clima emotivo vivace e appassionante, coinvolgendo il lettore e facendogli quasi assistere visivamente alle situazioni descritte.

C’è un’altra considerazione da fare. Ammiano è un greco, anzi, un siriaco di Antiochia, di lingua e di cultura greca, che ha voluto imparare a scrivere nella lingua di Roma per vocazione ideologica e più precisamente per continuare l’opera di Tacito, suo grande modello. Il mondo dell’Occidente, dell’Italia settentrionale, della Gallia, gli è estraneo; lo conosce perché vi è stato e vi ha combattuto, sotto Costanzo II (e vi ha conosciuto Giuliano); ma è un mondo che esula da quello a lui noto. Ed è tanto più notevole che proprio a lui dobbiamo una pagina così viva e intensa sulla natura alpina…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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