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La donna, la seduzione, l’amore nel mondo greco e… oggi

C4rediamo di sapere tutto, o quasi tutto, della civiltà greca, e specialmente dei suoi aspetti culturali, affettivi, sessuali, per il fatto che la documentazione di cui possiamo disporre — sia quella letteraria, sia quella figurativa — è, effettivamente, imponente. Ma una cosa è disporre di numerose fonti su un certo argomento, e un’altra cosa è saperle interpretare nella giusta maniera: la nostra prospettiva, infatti, quanto più si allontana nel tempo, tanto più tende a deformare l’oggetto della nostra ricerca, portandoci a delle conclusioni che sono in accordo con il nostro modo di sentire e di pensare, ma non altrettanto con quello delle società che hanno preceduto la nostra. Abbiamo già delle grosse difficoltà a capire veramente quel che provavano e facevano i nostri nonni e bbisnonni della società contadina di due o tre generazioni prima della nostra: figuriamoci cosa significa capire veramente l’atteggiamento degli uomini che vissero, in un Paese diverso dal nostro, duemilacinquecento anni prima di noi.

L’uomo greco e l’amore, quindi (e, naturalmente, la donna greca e l’amore): crediamo di conoscere abbastanza bene il significato di questa espressione, ma forse le cose non stanno proprio così. Allora, incominciamo con il dire, per primissima cosa, che, per l’uomo greco, l’amore soltanto — insieme alla gloria – rende la vita degna di essere vissuta: una vita senza amore non è vita; ma l’amore non è, tranne che in Platone, dolce incontro di anime, bensì gioia sensuale di corpi, riservata unicamente ai giovani.

Parrebbe che, per la società greca, profondamente pervasa di un naturalismo e di un estetismo che si potrebbe definire giovanilistico, le persone di una certa età non abbiano più il diritto di amare; e che le persone prive di avvenenza non lo abbiano affatto, né da giovani, né da vecchie. Socrate, che — non essendo né bello, né giovane – adesca i ragazzini in palestra, ma dandosi l’aria di essere a tutt’altre cose interessato, e con la tecnica di lasciarsi, lui, corteggiare e sedurre, è l’eccezione che conferma la regola.

La terza limitazione che colpisce noi moderni, nell’atteggiamento della cultura greca verso l’amore — dopo quella relativa alla l’età e dopo quella relativa alla bellezza — riguarda il genere sessuale: si direbbe che, per un Greco, innamorarsi di una donna sia una forma di pazzia, oltre che di debolezza; mentre non stupisce affatto, anzi, semmai desta comprensione e persino invidia, il fatto che un uomo maturo perda la testa per un bel ragazzino. E anche questo è un aspetto che ci è duro da mandar giù, ma che risulta assolutamente impossibile ignorare: e quegli studiosi del mondo greco che voltano la testa dall’altra parte, per non vederlo, peccano, puramente e semplicemente, di somma ipocrisia.

L’omosessualità maschile dilaga nell’antica Grecia, e, quel che più importa, è teorizzata dai filosofi, idealizzata dagli storici (vedi il casi dei tirannicidi Armodio e Aristgitone), cantata dai poeti, glorificata dalla tradizione epica — Achille e Patroclo, per esempio; o i trecento Spartani che caddero alle Termopili per fermare l’esercito persiano, e che pare proprio fossero centocinquanta coppie di amanti omosessuali. Quanto all’omosessualità femminile, i versi composti da Saffo per eternare l’amore che ella ha provato per le sue giovanissime discepole ed amanti, sono quanto mai eloquenti: anche se, pure in questo caso, molti storici della letteratura hanno fatto come gli struzzi e messo la testa sotto la sabbia, pur di non ammettere che quei versi erano d’ispirazione erotica, e non delle romantiche nostalgie spirituali.

Scrive Angelo Roncoroni (in: A. Roncoroni e altri, «Documenta humanitatis», Milano, Signorelli, 2006, vol. 1, tomo B, pp. 112-3):

«Nel libro XIV dell’"Iliade" alla dea Era si presenta la necessità di distogliere l’attenzione del marito Zeus dal combattimento, che sta volgendo al peggio per gli achei; per raggiungere il suo scopo mette in atto tutte le arti della seduzione, grazie al cinto ottenuto in prestito da Afrodite, che contiene tutti gli incantesimi d’amore. Quando infatti Zeus vede Era, subito la invita ad appartarsi con lui in un incontro d’amore (vv. 294-297; 314-316):

"Come la vide, così l’amore avvolse il suo cuore avveduto / come quando per la prima volta si unirono in amore / entrando nel letto, di nascosto ai loro genitori. / Le stette vicino e le rivolse parola dicendo così: / […] Vieni qui ora, stendiamoci e facciamo ,’amore. / Mai una volta in questo modo desiderio di dea o di donna / vinse il mio cuore spargendosi nel petto […].

E poiché Era lo invita a raggiungere con lui la camera nuziale, per evitare che sguardi indiscreti assistano alle loro effusioni amorose, Zeus la tranquillizza promettendole che una nube avvolgerà gli amanti sottraendoli alla vista di tutti; poi il racconto si conclude così: (vv. 346-353):

"Così disse, e il figlio di Crono strinse tra le braccia la sua sposa: / sotto di loro la terra divina fece germinare tenera erba / e loro rugiadoso e croco e anche giacinto / fitto e morbido, che da sotto faceva da schermo alla terra. / Su questa giacquero in amore e si coprirono con una nuvola / splendida d’oro: cadevamo gocce splendenti di rugiada. / Così, tranquillo il padre si addormentò, sulla cima del Gàrgaro, / domato dal sonno e dall’amore, e teneva tra le braccia la sposa." […]

La medesima dinamica d’amore governa la scena di cui è protagonista il poeta lirico Archiloco (VII sec. a. C.) con la sorella minore di quella Neobùle che già gli era stata promessa in moglie e poi rifiutata dal padre Licambe. In questo caso ("Papiro di Colonia", vv. 28-35) l’iniziativa della seduzione non parte dalla donna come in Omero, ma dall’uomo, alle cui "avances" la ragazza oppone resistenze assai deboli, finché i due si appartano su un prato erboso:

"Così io dicevo; e, presa la ragazza, tra i fiori rigogliosi la distesi; con un morbido mantello / la coprii, cingendole il collo con le braccia, / mentre tremava di paura come una cerva. / Dolcemente con le mani la accarezzai tra i seni, / dove la pelle mostrava il fresco arrivo di giovinezza, / e tutto il suo corpo splendido abbracciando / emisi la bianca forza, toccando il pube biondo." […]

Ma quello che conta è che, fin dalle origini più remote della nostra cultura, l’amore sia stato rappresentato con tratti che sostanzialmente sono rimasti immutati nei secoli, come il piacere che rende la vita degna di essere vissuta, tanto che, quando non c’è più amore, non c’è più vita, come asserisce il poeta Mimnermo (VII sec. a. C.) nel fr. I West:

"Quale vita, quale dolcezza senza Afrodite d’oro? / Possa io morire quando non mi saranno più cari / l’amore segreto e i doni dolci come il miele e il letto, / che sono i doni fugaci di giovinezza / per gli uomini e per le donne. Quando poi subentri / dolorosa vecchiaia, che brutto e noioso rende l’uomo, / sempre gli stanno nel cuore i tristi affanni / né gioisce vedendo la luce del sole, / ma odioso è per i fanciulli, spregevole per le donne. / Tanto amara il dio ha reso la vecchiaia."»

Senza la giovinezza, dunque, l’amore non esiste: esso è un bene riservato ai giovani; e, senza la giovinezza, non esiste gioia, ma soltanto amarezza, solitudine, addirittura odio e disprezzo da parte degli altri, cioè dei giovani, quelli che possono amare.

Tale, indubbiamente, è la sconsolata visione dell’Eros presso l’uomo greco; visione che, a sua volta, egli trasmette all’uomo romano, il suo conquistatore e dominatore, ma anche la sua creatura culturale ed il suo legittimo erede spirituale, al quale ha insegnato tutto quel che aveva da insegnare, sino a farne una sorta di copia di se stesso. Infatti l’ultima voce dell’elegia latina, il poeta Massimiano (vissuto all’incirca dal 490 al 560 dopo Cristo) lamenta, nei suoi versi, l’infinita tristezza del corpo invecchiato, cui più non sorridono le gioie d’amore, pur se il desiderio non è spento, ma langue insoddisfatto nella carne ormai stanca. Leopardi doveva avere ben presente questo autore, quando, ne «Il passero solitario», scrive: «A me, se di vecchiezza / la detestata soglia / evitar non impetro, / quando muti questi occhi all’altrui core, / e lor fia voto il mondo…»

È come se, nella lirica di Massimiano, l’elegia erotica latina, erede di quella greca, si ravvoltolasse nella sua stessa disperazione e scendesse nell’ultimo girone dello sconforto: insopportabile tristezza è quella di chi vive ricordando gli amori della felice gioventù, dai quali una distanza incolmabile lo divide, e accresce la sua desolazione con il rimpianto delle occasioni perdute. Vi si sente tutto il rincrescimento per la carne stanca, tutto il peso della solitudine e l’amarezza sconfinata per una condizione senile che non attenua il desiderio, né rende più saggi e distaccati, ma lascia il cuore pieno di brame insoddisfatte, di rimpianti, di atroci nostalgie per la felicità perduta: è come se il corpo avvizzito si guardasse desolatamente allo specchio, con amaro e voluttuoso compiacimento, di quella voluttà acre e masochista che induce talvolta colui che soffre a rigirare, con le proprie mani, il coltello nella piaga.

Alla donna, dunque, nel mondo greco, non resta un grande spazio d’azione, nei rapporti amorosi con l’uomo, il quale le preferisce i giovinetti, mentre si ricorda di lei quasi solo per sposarsi e avere dei figli che prepetuino la sua stirpe. E tuttavia, talvolta, accade che l’uomo s’innamori proprio di una donna, come nel caso di Pericle con di Aspasia di Mileto: ma Aspasia, appunto, non è che una etèra, non è una moglie; o come nel caso dell’oratore Iperide con la bellissima Frine: altra etèra famosa, la cui avvenenza mette a tacere, quando il suo amante ne scopre il corpo nudo, perfino i giudici che avrebbero voluto condannarla. All’uomo greco, se per caso gli capita d’innamorarsi realmente di una donna (e sembra che Pericle, come uomo dalle tendenze eterosessuali, rappresenti piuttosto l’eccezione che la regola), non è per sua moglie che perde la testa, o per quella che finirà per sposare, ma per una donna pubblica: esperta nelle arti della seduzione e del piacere, colta, elegante, raffinata, buona conversatrice, danzatrice, musicista.

In fondo, all’uomo greco non piace l’idea che a sedurlo potrebbe essere sua moglie: egli è un sensuale e non ha nulla contro il fatto di lasciarsi sedurre; ma è anche un conservatore, e quella libertà e quella disinvoltura che una donna deve sfoderare, per poter riuscire seducente, non sono precisamente le doti che lui apprezza in una moglie, ma, pressoché inevitabilmente, quelle che egli può trovare in un rapporto mercenario con una donna pubblica. Le mogli devono stare in casa e badare ai figli: per questo gli uomini le sposano, e non per parlare loro di filosofia, non per portarle ai banchetti, né per essere sedotti da loro sul piano sessuale. Perché, in assenza di eguaglianza giuridica e morale fra i due generi, maschile e femminile, il piacere sessuale crea un rapporto gerarchico, che poi è un rapporto di potere, nel quale l’uomo, se si lascia dominare dalla passione dei sensi, rischia di perdere la propria autorevolezza e, con essa, anche la propria superiorità socialmente riconosciuta. Quando l’amore sessuale esula dalla prospettiva della procreazione, non è che pura ricerca del piacere: e non è un buon segno, per la moralità di una moglie, che ella sappia sedurre con le arti del piacere. Meglio che sia ingenua, in quell’ambito, e perciò maldestra, purché sappia dare all’uomo tanti figli, sani e robusti.

Abbiamo visto che Mimnermo, uno dei poeti greci dell’età arcaica, parla dell’amore esattamente come fa Massimiano, il poeta latino della più tarda antichità: oltre un millennio separa i due autori, ma l’atteggiamento dell’uomo greco e di quello romano non è mutato, non ha subito evoluzioni o ripensamenti, non ha conosciuto l’esperienza della crisi o della rielaborazione. È rimasto fermo, puramente e semplicemente. Perché tale atteggiamento possa modificarsi, sarà necessario che un’altra corrente spirituale e filosofica, quella ispirata dalla nuova religione cristiana, irrompa come un giovane torrente impetuoso nella lenta e pigra corrente della civiltà classica. La donna cristiana non sarà più la sposa o l’etèra, ma la vera compagna dell’uomo, secondo l’insegnamento biblico che parte dal racconto di Adamo ed Eva e giunge fino al modello evangelico e paolino, ove troviamo un tipo di donna che, se non appare socialmente "emancipata", secondo le concezioni moderne, democratiche ed egualitarie, è, nondimeno, assai più vicina ad esse, che non a quelle precedenti, proprie della cultura greca e romana (e anche di quella giudaica).

La donna cristiana non ha più bisogno di sedurre, per far innamorare: il suo fascino è soprattutto di natura spirituale, come si vede nello stupendo «Cantico dei cantici» (anche se i cristiani lo hanno interpretato, per secoli, in chiave puramente allegorica, vedendo la Chiesa nella figura della sposa, e Cristo in quella dello sposo). Non è stata piccola cosa: uomo e donna, finalmente, si sono ritrovati…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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