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Giolitti, Sturzo, Mussolini e altro…

Don Luigi Sturzo, per due volte, si oppose a Giolitti in un momento estremamente drammatico della vita del Paese: la prima, quando impedì al vecchio statista piemontese, con il suo voto, nel febbraio 1922, di formare un nuovo governo, dopo la caduta di quello Bonomi; la seconda, quando l’ultimo presidente del Consiglio liberale, Luigi Facta, cadde una prima volta (nel luglio del 1922) e vi furono frenetiche manovre tra le forze politiche, nel corso delle quali Giolitti tentò nuovamente di avanzare la propria candidatura, ma incontrò, ancora una volta, l’opposizione di Sturzo, fino a quando, dopo i tre mesi di agonia parlamentare del secondo governo Facta, alla fine di ottobre i fascisti condussero la marcia su Roma, vi fu un contrasto fra Vittorio Emanuele III e il governo per la firma dello stato d’assedio, e il sovrano, dopo le inevitabili dimissioni di Facta, diede il via libera alla formazione del governo Mussolini.

Poiché quelle vicende furono il preludio alla ventennale dittatura fascista, che, a sua volta, portò l’Italia nel disastro della Seconda guerra mondiale, in seguito — paradossalmente, quasi più che allora — si accesero violentissime polemiche fra i sopravvissuti esponenti del vecchio regime liberale, i quali si rinfacciarono l’un l’altro la responsabilità di non aver visto la gravità del pericolo incombente sulla vita politica del Paese, e si gettarono addosso le accuse più roventi, non senza cadute di stile, meschinità e goffi tentativi di minimizzare le proprie manchevolezze e di gonfiare a dismisura quelle degli altri.

È in questa cornice che va letta la polemica a distanza, svoltasi nel 1955, a un terzo di secolo di distanza dai fatti, fra il politico liberale, giornalista ed editore Alfredo Frassati, già co-proprietario e direttore del quotidiano torinese «La Stampa», e don Luigi Sturzo, il fondatore ed ex segretario del Partito Popolare, rientrato in Italia dopo un lungo periodo di "esilio" all’estero, e nuovamente presente nella politica italiana, ma non più in un ruolo da protagonista, essendo ormai il nuovo partito dei cattolici, la Democrazia Cristiana, saldamente nelle mani di Alcide De Gasperi e, poi, di Amintore Fanfani.

Frassati rimproverava a Sturzo di aver impedito a Giolitti di formare un governo che, pur con la partecipazione di alcuni ministri fascisti, avrebbe impedito la presa del potere diretta da parte di Mussolini; Sturzo rispose, piccato e un po’ acido, che Giolitti non aveva compreso i tempi nuovi, che aveva sbagliato nel giudicare il fenomeno fascista e che, se anche avesse potuto formare un suo governo nel 1922, ciò non sarebbe valso a scongiurare la dittatura. Vi fu uno scambio di articoli su «La Stampa»; e Sturzo, nella raccolta dei suoi scritti completi, torna con forza e con dovizia di particolari sull’argomento, segno che l’accusa di Frassati non lo aveva lasciato indifferente, ma lo aveva colpito su un nervo scoperto.

Si è trattato, tutto sommato, di un episodio modesto, in tutti i sensi, fra uomini che già si erano mostrati modesti, in un momento decisivo della storia italiana, quando la classe dirigente avrebbe dovuto mostrare ben altre capacità di giudizio, di decisione, di disinteresse (un solo esempio, in negativo: quando i fascisti costrinsero Frassati a vendere «La Stampa», a fare un buon affare era stata la famiglia Agnelli, che aveva aggiunto alla F.I.A.T. la proprietà del quotidiano torinese); pure, non è affatto inutile tornarvi sopra, perché esso aiuta a meglio comprendere di che stoffa fossero alcuni fra i maggiori politici italiani, rientrati alla guida del Paese, dopo la parentesi del Ventennio, come se nulla fosse accaduto, anzi, con l’aria dei vecchi saggi cui la storia aveva dato ragione (e sia pure con il contributo — in fondo, però, secondario – dei "liberatori" anglosassoni!).

Così ricorda quell’episodio, a più di trent’anni di distanza, lo stesso don Sturzo nelle sue memorie (da: Luigi Sturzo, «Politica di questi anni», dalla «Opera omnia», Bologna, Zanichelli Editore, Gennaio 1954-Dicembre 1956, seconda serie, vol. XIII, pp. 210-214):

«Alfredo Frassati, nel suo articolo "Il veto a Giolitti nel 1922" mi assolve dal cosiddetto ‘veto’ del febbraio di quell’anno (ad assolvermi sarebbe il primo dei liberali di quel periodo), ma mi condanna per il ‘veto dell’ottobre’. Siccome la condanna è ‘inaudita parte’, perché Alfredo Frassati non avrà letto o avrà dimenticato quanto io scrissi in proposito, mi permetto di riassumerne i dati principali. Dalla crisi di Facta del luglio, risolta con il ritiro delle dimissioni, instante lo sciopero generale social comunista e la conseguente repressione della polizia unita alle squadre fasciste, la campagna antifascista fu tenuta (a parte le sinistre) solo dal partito popolare. Intanto i senatori popolari avevano fatto un pronunciamento contro la politica del partito; a quel documento il gruppo della camera rispose con una dichiarazione, scritta dall’in. Meda, che voleva essere di chiarimento e di pacificazione. […] Dopo pochi giorni, il 4 o il 5 ottobre, interpellati dall’avv. Scavonetti, accettai un incontro in casa di lui con l’on. Camillo Corradini. Questi, dopo un lungo discorso e una serie di chiarimenti, mi chiese se i popolari fossero disposti a collaborare con Giolitti nel caso di un gabinetto di concentrazione. Alla mia domanda, se tale concentrazione arrivasse fino ai fascisti, ammise essere questo lo scopo dell’iniziativa. Insistetti per sapere se, caduta tale ipotesi, Giolitti pensasse ad un ministero senza fascisti. Egli rispose esserne dubbia la possibilità; e conchiuse non essere in vista la costituzione di un governo che avesse i fascisti come avversari. La conversazione durò un paio d’ore, e benché ogni risposta impegnativa fosse rimandata per conferire, se del caso, con i membri della direzione del partito, non gli nascosi la mia convinzione che con tale piano Giolitti non avrebbe combinato nessun gabinetto. In quel periodo Mussolini, ATTRAVERSO INTERMEDIARI, manteneva contatti contemporaneamente con Salandra, con Nitti e con Giolitti, fingendo o tentando (non si sa bene) di voler combinare un ministero, nel quale i fascisti avessero le leve di comando. A Roma i nazionalisti puntavano sui Salandra, al punto che quando Facta invitò i ministri a dimettersi, Salandra si ritenne sicuro di esserne il successore. Ma avendo consentito di iniziare le trattative, ne fu data notizia telefonica a Mussolini, il quale rispose chiaro e netto che egli voleva essere il presidente e non intendeva partecipare a gabinetti non presieduti da lui. Ciò seppi dall’on. Federzoni, che incontrai in quei giorni in casa di un amico. […] Comunque Giolitti era convinto, e non dall’ottobre o dal febbraio ’22, che i fascisti dovevano arrivare al governo: Io ero invece convinto che la collusione delle forze dell’ordine con i fascisti andava creando il caos di una pseudo-rivoluzione, attribuendo a metodi di forza un valore politico ed etico, che non potevano avere. Avevo, perciò, detto a Corradini: se Giolitti si presentasse con un gabinetto liberale-popolare allo scopo di riportare l’ordine e la normalità nel paese, disposto, quindi, a usare con i fascisti, secondo i casi, il metodo blando e quello rigido, potrebbe riuscire. Ma era impossibile combinare un gabinetto composto di fascisti e di popolari, fra i quali egli avrebbe fatto da arbitro. Dopo di che, e nonostante l’offerta di Scavonetti per un secondo colloquio, l’on. Coradini non solo non si fece più vivo con me, ma non avvicinò De Gasperi, né Cavazzoni, allora rispettivamente presidente e segretario del gruppo popolare della camera, né gli amici personali di Giolitti ed ex ministri, gli on. Meda e Micheli. Giolitti sapeva bene che nonostante il mio voto contro i deputati popolari avevano per due volte deciso la collaborazione con Facta; il che stava a significare che il mio era un "parere" e non un "ordine". Del resto lo stesso avvenne per la partecipazione dei popolari al primo gabinetto Mussolini. Se Giolitti avesse avuto l’idea di prendere la posizione di salvatore del paese ritenendo, pertanto, essere il paese all’orlo del disastro, il primo passo l’avrebbe dovuto fare con Facta, e il secondo con il re del quale era cugino mauriziano. Egli aveva la possibilità di raccogliere la maggioranza della camera (per non parlare della sicura maggioranza del senato, che del resto politicamente allora aveva un ruolo secondario), e se del caso, mettere apertamente i popolari di fronte alla loro responsabilità. Egli non fece un passo avanti, o perché credeva di potere arrivare  (com’era sua prima idea) alla convocazione della camera; o perché convinto che i conversari con Mussolini e Lusignoli erano manovre senza base, com’erano quelle con Salandra e Nitti, e quindi da far cadere senz’altro. Ma se Giolitti si acquietò alle informazioni di Corradini sul mio incontro, non mostrò di avere compreso né la situazione n gli uomini. Il Giolitti del 1920-22 non era certo il Giolitti del 1911, cui Alfredo Frassati attribuisce il benessere del primo decennio del secolo (storicamente, è troppo facile panegirico; Giolitti nel 1920 sostenne le alleanze con i fascisti nelle elezioni amministrative; Giolitti nel 1921 sciolse la camera per immettere i fascisti in parlamento; Giolitti nel 1922 voleva i fascisti nel governo. Non dico che avesse fatto ciò perché filofascista; egli credeva poter manipolare la vita politica del dopoguerra come aveva fatto (fino a un certo punto) nell’anteguerra. Alfredo Frassati dirà: che Giolitti, nel trattare così i fascisti, era antiveggente, volendo non la lotta ma la normalizzazione;  e il domatore era proprio Giolitti a 80 anni, con le sue debolezze verso il fascismo, che avrebbe dovuto fare il miracolo di assimilare il fascismo alle istituzioni liberali. La verità è che Giolitti si era illuso di poter attenuare, fino ad eliderle, le forze del partito popolare, del quale non aveva compreso la portata e la capacità politica. Vi era in lui, e in molti suoi amici, del risentimento e, forse anche, l’inconscio presentimento  di un’avventura diretta contro la classe dirigente che teneva il potere come per diritto storico. L’atteggiamento dei cattolici indipendenti (dopo sessant’anni di un ruolo assai secondario ovvero da avversari estraniatisi dalla vita politica) più che turbarlo, lo infastidiva. Preferiva i fascisti, da domare, ai popolari, che gli scappavano dalle mani. Con questo complesso di vecchio liberale in fondo scettico e anticlericale, si comprendono le sue impazienze contro don Sturzo, al quale, anche nell’opinione pubblica, si attribuiva tutto il bene e tutto il male (più il male che il bene) del partito popolare. Di questo complesso sono ancora tipici rappresentanti Frassati e Salvatorelli. Dopo trentatré anni, dei quali ventidue in esilio, a me fa una certa strana impressione che tali esimie persone conservino ancora contro di me, come se fosse di ieri, il rancore dell’avversario inacerbito, addossandomi la colpa di avere contrastato in Giolitti il preteso salvatore dal fascismo.»

Don Sturzo, dunque, si mostra sorpreso da tanto risentimento, da tanta acredine, dei vecchi liberali nei suoi confronti; punta il dito contro Giolitti e lo accusa di non aver voluto contrastare il fascismo, di essersi illuso di poterlo addomesticare; ribalta su altri la responsabilità di aver aperto la strada alla dittatura. Si sente forte, a ben guardare, di quello che era già diventato il giudizio storico della Vulgata democratica e repubblicana: la vecchia classe dirigente aveva giocato col fuoco, credendo di servirsi del fascismo per piegare il malcontento sociale, e poi di metterlo da parte, come nulla fosse. Non si accorge, però, che quel giudizio, se valeva nei confronti di Giolitti e dei liberali, valeva anche, e in misura non minore, per i popolari, e per lui personalmente: ricostruisce i maneggi politici del 1922 come lui solo avesse visto giusto, come se lui solo fosse stato un puro, in mezzo a una massa di sciocchi e di collusi con l’incipiente dittatura. Tropo facile e troppo comodo: tanto più che sia Giolitti, sia Mussolini, non erano più lì a ribattere i suoi argomenti. Sturzo crede di essere nel giusto solo perché è vissuto abbastanza da assistere alla sconfitta tanto del liberalismo, che del fascismo: non si sogna nemmeno, però, di farsi un esame di coscienza per come andarono le cose.

Si dirà che i liberali, al governo fin dall’unità d’Italia, furono ben più colpevoli, o, se si preferisce, ben più inadeguati, dei cattolici, che erano presenti in Parlamento solo da tre anni. Questo è giusto; ma bisogna subito aggiungere che i popolari non avevano una cultura di governo, nel 1922, non solo e non tanto per inesperienza, ma proprio per l’impostazione che Sturzo aveva voluto dar al partito: chiedendo il voto dei cattolici, non in quanto cattolici, ma in quanto cattolici con propensioni "progressiste", "avanzate", o, per dirla tutta, "di sinistra". Ciò provocò, sin dall’inizio, dissensi e malumori all’interno del partito: davanti al fenomeno fascista, ma anche davanti alla prospettiva di collaborare con i liberali, non tutti la pensavano come Sturzo: parecchi, anzi, consideravano i socialisti come il vero avversario da tener d’occhio, da contrastare, da battere, mentre lui, ancora nel 1923, prima d’essere costretto a dimettersi, pensava di allearsi proprio con i socialisti, contro i fascisti.

Se Giolitti non aveva compreso il fenomeno fascista, nemmeno Sturzo lo comprese: ma forse il primo sbagliò meno del secondo. Oggi è troppo facile descrivere i fascisti come un’orda di barbari e Mussolini come un aspirante dittatore senza scrupoli: forse Giolitti vide quel che Sturzo (per una sua pregiudiziale ideologica di matrice "progressista") non vide, né nel 1922, né trentatré anni dopo: che il fascismo non fu solo squadracce di picchiatori e olio di ricino, ma anche un potente risveglio delle forze nazionali, provocato dalla doppia sferzata della Prima guerra mondiale e della crisi del dopoguerra; molte delle quali forze erano generose e idealistiche, e avrebbero potuto dare un valido contributo al compimento — come vide anche il filosofo Giovanni Gentile — del Risorgimento, ossia alla formazione e alla maturazione civile del popolo italiano. È tutto da dimostrare che Mussolini aspirasse, fin dall’inizio, semplicemente alla dittatura; parecchi indizi fanno pensare, al contrario, che egli avrebbe volentieri perseguito un governo di unità nazionale, se non si fosse trovato davanti – nel dopoguerra come già nel 194-15, quando era stato cacciato dal Partito socialista – a un muro di totale incomprensione politica, tanto dogmatica quanto velleitaria.

La verità è che gli uomini politici italiani del 1922, così come quelli del 1914, non erano minimamente all’altezza delle due grandi crisi che allora il Paese dovette affrontare: la guerra mondiale e il dopoguerra, alle quali si aggiungeva la debolezza del carattere nazionale italiano e la fragilità della sua struttura sociale e produttiva. In confronto a Mussolini, gli uomini politici di allora — eccezion fatta per Giolitti — erano tutti dei nani, puramente e semplicemente: e ciò sia detto indipendentemente da ogni giudizio di merito sulla bontà delle rispettive ideologie. Non si governa un Paese, e specialmente un Pese in pieno travaglio, con le pure dottrine e con le nobili petizioni di principio: lo si governa calando le idee nella pratica dei fatti, sporcandosi le mani e anche scendendo a taluni compromessi, purché i compromessi non nascano da logiche d’interesse privato, ma sempre dalla considerazione del bene comune.

Questa era la stoffa che mancava, in particolare, agli uomini politici del 1919-1922: erano abili avvocati, facondi giornalisti, talvolta perfino anime belle: ma non erano veri uomini politici, bensì professionisti delle chiacchiere e maestri di piccolo opportunismo. Ciascuno badava al proprio piccolo, meschino tornaconto di bottega; nessuno si dava troppo pensiero per la barca della nazione, che rischiava di affondare. Socialisti e popolari tenevano d’occhio il risultato elettorale, mentre i liberali di poter seguitare secondo il loro stile d’anteguerra. Nessuno dei tre aveva compreso che la guerra aveva suscitato forze morali potentissime e aveva profondamente cambiato il rapporto fra cittadini e politica, nel senso di una volontà di maggiore partecipazione; tutti e tre pensarono di poter archiviare l’esperienza della guerra come niente fosse stato, e che la società civile tornasse alle sue occupazioni di sempre, lasciando la politica ai politici.

Lo stesso atteggiamento, in fondo, si rivela nel comportamento di liberali, cattolici e social- comunisti dopo il 1945: ancora una volta, essi si comportano come se si potesse liquidare il dramma della guerra (e della sconfitta, tanto disastrosa quanto disonorevole) come un episodio limitato, da dimenticare in fretta. Per Croce, ideologo dei liberali, il fascismo è stato «l’invasione degli Hyksos»: l’irruzione di un corpo estraneo, insomma una parentesi. Per Togliatti, il fascismo è stato la reazione armata, al soldo dei padroni, contro il proletariato (secondo il classico schema marxista-leninista). Secondo Sturzo… anche. Ecco: il catto-comunismo è tutto qui. Era fatale che le strade dei cattolici e dei comunisti finissero per convergere, prima o poi: ciò che accadde quando le correnti di sinistra presero il sopravvento all’interno del partito cattolico, negli anni Sessanta e Settanta del ‘900 e poi, soprattutto, negli anni Novanta, cioè dopo la scomparsa della vecchia Democrazia Cristiana e del vecchio Partito Comunista. Come Sturzo aveva auspicato, in fondo, sin dal 1922-23: profeta inascoltato di un discutibile connubio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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