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Bellezza, austerità e magnificenza delle Rogazioni

In un tempo non così lontano che alcuni di noi non possano ricordarlo perfettamente, ma già così lontano che sembra appartenere ad un altro mondo, ad un’altra epoca, ad un’altra storia, gli uomini non davano affatto per scontato il loro "diritto" al benessere (insieme a molti altre cose che noi, oggi, consideriamo diritti, ma che loro consideravano, tutt’al più, come doni del Cielo), e invece chiedevano umilmente a Dio il necessario per vivere.

Non domandavano il superfluo; non pretendevano nemmeno il "diritto" alla salute: pregavano affinché la terra desse loro i frutti del raccolto, e consentisse loro di mantenere le proprie famiglie: se mancava la pioggia, pregavano perché venisse; se ne cadeva tropo, pregavamo perché smettesse: e ciò facevano attraverso riti collettivi, unendo le loro preghiere in un unico coro, in una sola, grande preghiera dell’intera collettività.

Chiedevano inoltre a Dio di proteggere i campi, di risparmiarli dalla tempesta e dalla grandine, di assicurare un raccolto sufficiente e di preservare la fertilità della terra; non vedevamo se stessi come i padroni della terra, solo perché c’era scritto, sopra un pezzo di carta, che l’avevamo acquistata, pagandola una certa cifra: sapevano molto bene che l’uomo può utilizzare la terra, anzi, può utilizzare i frutti della terra, ma non mai considerarla come una cosa sua; che la terra resta, mentre gli uomini passano e le generazioni si avvicendano; e che essa, con tutti i suoi frutti, è un dono di Dio, del quale bisogna aver cura e di cui non si deve abusare.

Quando, insieme al "boom" degli anni Cinquanta, la mentalità del progresso e del guadagno a ogni costo si è aperta la strada fin nel cuore del mondo rurale, e ha contaminato la psicologia degli agricoltori, i nostri nonni hanno incominciato a pregare Dio sempre di meno e a ricorrere sempre di più a quell’altro Dio, quel Dio posticcio e fasullo, quel Dio stupido e crudele, che è la Cupidigia: e si sono affidati non più alle preghiere, ma ai pesticidi e ai diserbanti, per aumentare il raccolto e per far crescere i frutti sempre più grossi, gli acini d’uva sempre più succosi. Giorno dopo giorno, si sono comportati come gli apprendisti stregoni, o come il dottor Faust: hanno stretto un patto scellerato con il loro nuovo Dio, che non era affatto Dio, ma il Diavolo, abilmente travestito, così che essi non lo avevano riconosciuto.

Hanno introdotto trattori e carri agricoli sempre più grandi, per aumentare il ritmo di lavoro e per migliorare i tempi di produzione, proprio come stavano facendo, in fabbrica, i loro cugini e i loro conoscenti di città; e, per far passare quei mezzi così grandi, hanno incominciato ad abbattere i vecchi portoni, a tagliare i filari dei pioppi e a spianare le siepi secolari, quei bellissimi "muri verdi" che offrivano ombra e frescura da tempo immemorabile, ad abbattere la ricca vegetazione che cresceva sulla rive dei canaletti, provocando anche la scomparsa dei piccoli animali che vivevano in quelle minuscole isole ecologiche: dai pesciolini dei fossi, ai gamberetti, alle rane, agli uccelli di siepe: tortore, colombacci, scanapini, pigliamosche, rigogoli, picchi rossi, picchi verdi, averle, usignoli dal canto meraviglioso. E così sono scomparse le siepi, e il paesaggio agrario ha perduto — quasi da un giorno all’altro – quel senso di mistero, di profondità e d’indefinito, che lo caratterizzava da sempre; i campi sono divenuti un’unica distesa, piatta e monotona, e un grande, innaturale silenzio è sceso sulle campagne (cfr. il nostro articolo «La scomparsa delle siepi dal paesaggio agrario segno e metafora dell’aggressione della modernità», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 08/11/2008).

I contadini hanno anche incominciato a recarsi nei campi e nei vigneti indossando una specie di scafandro e coprendosi il viso con la maschera, perché ciò che maneggiavano era veleno; e hanno incominciato a ritornare a casa con il mal di testa e con un senso di vomito, perché, nonostante tutte le precauzioni, una parte di quel veleno l’avevano respirata, e un’altra pare l’avrebbero mangiata e bevuta, al momento di sedersi a tavola e consumare quel pane, o bere quel vino. Infatti, proprio come gli apprendisti stregoni, proprio come il dottor Faust, avevano venduto l’anima al Diavolo: solo che non se n’erano ancora resi conto. Per rendersene conto, hanno dovuto incominciare ad ammalarsi e a morire — loro o quelli che mangiavano e bevevano i prodotti della loro terra, coltivati a quel modo, non importa chi, se prima essi o prima quegli altri, i consumatori; ad ammalarsi e a morire di tumore. Perché non si vende l’anima al Diavolo senza pagare un prezzo: non la si vende gratis, il Diavolo vuole in cambio anche il corpo.

Le grandi e belle case coloniche, costruite per ospitare generazioni di famiglie numerose, hanno incominciato a farsi vuote, e i loro muri ad essere invasi dall’edera selvatica; i fienili, i balconi di legno, sono caduti in abbandono; le aie, a riempirsi di erbacce, cresciute spontaneamente fra la ghiaia; e dai camini, l’inverno, il fumo ha smesso di uscire e di rigare il cielo al tramonto, non segnalando più la presenza di una grande famiglia seduta in cucina, intorno alla tavola, dopo una dura giornata di lavoro.

Dio si è ritirato dai fondi rurali non più benedetti, perché divenuti incapaci di pregare; le famiglie sono divenute sempre meno numerose; i figli e i nipoti hanno preso la via della città, vergognandosi del mestiere dei padri; le stalle si sono svuotate delle mucche, ne sono rimaste sempre meno, poi sono sparite anche le ultime. La piccola proprietà contadina è letteralmente scomparsa, sostituita dalle grandi aziende agricole moderne, magari di proprietà di qualche banca, o di qualche multinazionale; i vigneti in collina sono stati abbandonati anch’essi, perché troppo faticosi da lavorare, e poco redditizi; in compenso è cresciuta a dismisura la pratica dei trattamenti chimici, e la terra dei campi è divenuta sempre più secca, sempre più dura, così tagliente da ferire i piedi, mentre prima, concimata col letame, era così morbida e grassa che si poteva carezzarla, e i bambini potevano giocarci sopra a piedi scalzi…

Una delle cerimonie collettive più importanti dell’anno agricolo, poste sotto l’ala protettrice della Chiesa cattolica, erano le rogazioni: processioni religiose nelle quali si chiedeva la protezione del Cielo per la buona riuscita delle seminagioni.

Così rievoca le rogazioni lo scrittore trevigiano Ferruccio Mazzariol nel suo bel libro «Il Paese dei Gelsi» (Treviso, Editrice Santi Quaranta, 1990, pp. 42-44):

«… Una volta, poi, si tenevano le sante e mattutine rogazioni, che ho sempre amato. Adesso, nei paesi del Veneto, tranne che per la Grande Rogazione di Asiago sull’Altopiano Vicentino dei Sette Comuni, non si tengono quasi più. Però l’attuale arciprete di Negrisia, grossa frazione del comune di Ponte [di Piave], si è provato lodevolmente a ripristinarle.

Le mattutine rogazioni si snodavano all’alba, partendo dalla parrocchiale; subito entravano trionfalmente nella campagna, al canto salmodiante delle litanie dei Santi. Molti camminavano scalzi, per non rovinare le scarpe a causa della rugiada. Don Pietro Zanetti, pievano di Ponte per quasi quarant’anni, si fermava ad ogni capitello, ad ogni altarino innalzato o ai crocicchi o in mezzo ai campi, scacciando peste, fulmini, "tempestate" e diavoli. Lo seguivano i contadini e i non-contadini, con il cappello in mano, dietro la schiena; le donne, allora, portavano naturalmente il velo paolino, che era un amabile e anche civettuolo "chador" cattolico.

Erano le Rogazioni una grande festa popolare e apostolica; incantevole, folclorica, attraversata dai segni e dai gesti di una fede simpatica. Ci sono andato diverse volte, alzandomi alle quattro, con il mio amico Floreno; talvolta, dopo l’edificazione del capitello della Grasseghella, le aspettavo davanti a casa mia, dove la tappa era obbligatoria.

Il canto si alzava alto e commovente, tutto un popolo contadino e sapienziale chiamava la Chiesa e i Santi a essergli solidali contro le avversità naturali (e atmosferiche), contro le malattie, ma anche contro i mali spirituali della vita. Li chiamava con la preghiera e la magnificenza di un "viaggio" pieno di umanità e comunione. Io sognavo in quelle occasioni, perché è in fondo nel sogno che si può sperimentare, oltre il visibile, l’appartenenza al regno del Signore. Anche i contadini sognavano, come dei grandi poeti di Dio e della natura, in quelle tre mattine delle Rogazioni che precedevano il radioso giorno del’Ascensione.

Più avanti, dopo la Domenica di Pentecoste e la Domenica dedicata alla Santissima Trinità, giungeva la festa del Corpus Domini, che cadeva di giovedì (nel mese di giugno più che nel mese di maggio).

Essa mi è molto cara per la fastosa processione del Corpus Domini, che era un tripudio di festoni floreali, di canti, di piccoli altari posti all’ingresso delle viuzze o nei cortili delle case.

Suggestive composizioni floreali, che si richiamavano a motivi e raffigurazioni eucaristiche, stavano adagiate sopra la polvere, o sull’asfalto; splendevano meravigliosi i calici d’oro con l’Ostia bianca (intarsiata di petali di giglio), lievemente innalzata. Anche i molti Cuori di Gesù si offrivano smaglianti e teneri allo sguardo incantato.

La processione si svolgeva dopo la Messa prima, che negli anni del dopoguerra era celebrata alle 5 del mattino. Le suore ci vestivano da paggetti, coadiuvate dai chierici giuseppini, all’interno della casa della dottrina. Prendevamo posto nella processione, quasi davanti al baldacchino, ornato e ricamato di disegni, drappelloni e fregi rutilanti e delicati. Due a due, io con Floreno, tenevamo il cestello dei fiori di campo, raccolti verso il tramonto del mercoledì. Noi bambini eravamo in mezzo a due file interminabili di uomini e di giovani.

Sotto il baldacchino, alzato da giovanotti nerboruti e pii, stava l’arciprete che teneva in mano, sfolgorante, il grande Ostensorio con il Santissimo Sacramento. Ai lati facevano buona guardia quattro carabinieri in alata uniforme. Dietro al baldacchino seguiva una gran folla di donne e ragazze. Al passaggio della processione del Corpus Domini, chi si trovava lungo il ciglio della strada s’inginocchiava.

Ai balconi delle case erano esposti tappeti e arazzi per salutare, con giubilo, il Signore realmente presente nell’Eucaristia; intanto noi spargevamo con bravura e parsimonia i fiori del nostro cestino, partecipando a un evento indimenticabile che era insieme realtà e sogno.»

Eppure, non possiamo permettere che tutto quel meraviglioso patrimonio di umanità, di saggezza, di spiritualità, vada perduto per sempre; e non possiamo limitarci a rimpiangerlo, o a rievocarlo in pagine pur belle e commoventi, come quella che abbiamo ora riportato. È nostro preciso dovere fare in modo che quella lezione, così tragicamente ammonitrice, non vada smarrita nel nulla: dobbiamo riflettere su quanto è accaduto e trarne una morale, una morale per il nostro presente, che ci aiuti a vivere con più senso di responsabilità e di giustizia, e che ci dia almeno un poco di speranza per il nostro ormai così incerto domani.

E la lezione potrebbe essere questa: che a Dio non la si fa. Certo, vendere l’anima al Diavolo assicura dei vantaggi temporanei, ma per lo più apparenti; e poi ci si trova a dover pagare un prezzo salatissimo, un prezzo esorbitante, che non solo ci renderà schiavi per tutta la vita, ma che ci costringerà a lasciare in eredità la nostra schiavitù ai nostri figli e a molte altre generazioni che verranno dopo di noi e dopo di essi.

Oggi si assiste ad un fenomeno- per il momento limitato -, specialmente fra i giovani, di ritorno alla terra; di ritorno all’agricoltura biologica; di rifiuto degli idoli del consumismo, della tecnologia, della chimica. Certo, è un inizio ed è una cosa incoraggiante, di buon auspicio: ma non è la cosa più importante. La cosa più importante è che la lezione del passato sia stata appresa; altrimenti, ricominceremo daccapo a ripetere gli stessi errori, oggi come ieri, domani come oggi, in una spirale perpetua, senza fine e senza senso, i cui costi verranno scaricati sempre più avanti nel tempo, a carico di generazioni sempre più lontane, ipotecate dalla nostra follia ancora prima di essere venute al mondo.

E chi siamo noi per assumerci una simile responsabilità? Noi non abbiamo il diritto (visto che ci piace tanto parlare di "diritti") di fare un torto simile a coloro che verranno. E non possiamo neanche cavarcela, né assolverci in anticipo, proclamando che non faremo più figli, proprio per risparmiare loro di dover vivere in un mondo abbandonato dalla Grazia. Troppo comodo: noi non abbiamo il diritto di decidere una cosa simile: interrompere il fiume della vita. Il fiume della vita non appartiene a noi, noi ne siamo solamente i custodi, come lo sono state le generazioni che ci hanno preceduto. Meglio faremmo, perciò, a pentirci del male fatto, e a rivolgere l’anima a Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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