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Una pagina al giorno: Una «Vita nuova» dei nostri giorni, di Siro Angeli

Deroghiamo, per una volta, dalla regola finora seguita, di trattare in questa rubrica solo pagine di prosa italiana moderna e contemporanea, per occuparci di un poeta carnico pochissimo conosciuto a livello nazionale, ma che meriterebbe maggiore attenzione da parte della critica e del pubblico: Siro Angeli.

Riportiamo alcune poesie dalla sua raccolta «L’ultima libertà»(Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1962, pp. 46-59), che hanno la dolcezza lieve e quasi impalpabile degli stilnovisti e, a tempo stesso, la vera e profonda intensità d’ispirazione che è propria della grande poesia d’ogni tempo; o, per dir meglio, che è fuori e al di là del tempo.

«XIV

Per le strade di Assisi

si diradavano i passi

e le voci dei vivi,

le voci delle chiese;

ritornavano gli echi

e le ali nei nidi;

nel sangue dei gerani

fuori dalle finestre

spente si raggrumavano

i nidi sui davanzali;

e valicando le Orse

e Betelgeuse, di là

da Sirio, di là da Vega,

per turbinanti spirali

di nebulose, forse

la preghiera dei ciechi

oltre Alfa e Omega

era giunta al Signore.

XV

Era silenzio, e tu

stavi chiusa in te sola,

di me ignara, a occhi bassi.

Nella notte di Assisi

l’erba spuntava dai sassi

e dalle crepe dei muri.

Suggeriva pretesti

Innocenza, se amore

con lei preso ad un laccio

aiutava (non più

ora valevano vesti

a celare l’impaccio)

i tuoi gesti indecisi.

Ti restava il mio nome

fra lo sguardo e la gola

a tenerci divisi.

Come senza confine

notte e cielo gremivano

ogni respiro del vento

che urgeva contro gli scuri

e attraverso gli ulivi

fuggiva per le colline,

così intera nel giro

d’ogni istante la mia,

la tua vita affluiva,

e da un vuoto sgomento

veniva portata via.

XVI

Nella stanza di Assisi

Non restava più niente

A tenerci divisi:

felicità solamente,

che esitava, lasciando

al suo fuoco la breve

distanza dal tuo fianco

al mio fianco tra offerta

e difesa coi sogni

consumarsi, per poco

ancora intatti serbando

i giorni di settembre

nella sua luce di neve,

come ogni altro colore

vive e muore nel bianco;

ed eri così smarrita

nelle iridi, e certa,

così sottile di vita

eri, mentre, talvolta

dal mio tremore (nel battito

delle vene alle tempie

anche le ore tremavano

e le foglie agli ulivi),

fuori di dove e quando

innocente pativi

amore la prima volta,

in aprile, ad Assisi.

* * *

Nel sonno a cui riversa

Ti arrendi, che da questa

Realtà ti cancella,

niente di me ti resta;

o sei di me cosciente

come la gola è della

vena che lievemente

pulsando l’attraversa.

* * *

Immobile parvenza

che il silenzio consuma

sei, quando amore ha tregua;

e non sai quale incanto

nasce che in levità

di piuma scioglie quanto

in noi la terra aggruma.

Sempre così vorresti,

libera anche dal peso

che hanno parole e gesti,

durasse intimità:

non più sul filo teso

del desiderio, ignara

e abbandonata come

al tuo corpo si adegua

la veste, e lo ripara:

l’intimità che senza

transito col tuo nome

annoda la tua essenza.

* * *

Intorno a lei sicura

dentro il suo sonno quale

vivente sepoltura

compici le coperte

e le lenzuola fanno!

In esatta misura

tra luce ed ombra nella

vicenda del respiro

la forma si modella

perché ti appaia vera.

Nel docile raggiro

dei panni si cancella

di quanto le abbisogna

perché sia passeggera

parvenza che si sogna.

E al dubbio che ti assale

(forse non è che inganno

del desiderio agli occhi)

le mani a farsi certe

già trepidando vanno.

Più lievi della vista

le sfiorano i ginocchi;

e il cuore ti trasale,

sorpreso che resista

l’immagine che tocchi.

* * *

A dirmi che non è soltanto immagine,

il volume del letto lieve avalla

intorno a lei, per poco ancora illesa

dalla ama lucente che ha già infranto

i vetri e balenando nella tenebra

della stanza si spunta alle pareti..

Incontro alla sua anima che dorme

come il bianco nel folto della neve

in tenera compagine di forme

insieme col mio nome, lenta avanza

la mano sulla trama del lenzuolo,

ostacolo soave se il tremore

dell’attesa prolunga, se dà volo

celeste alla speranza, se del bene

immeritato che mi attende fa

più cocente il rimorso. Così breve

distanza mi separa dal suo fianco;

ma se giungessi a lei da più lontano

del raggio che in quest’attimo le sfiora

la veste suggerendo sulla spalla

la curva della carne, e in volto alfine

le si posa esitante sillabandole

sulle palpebre il giorno, non più grato

mi sarebbe approdare alla struggente

sua certezza di rose senza spine.

I

Se tu al mio dormiveglia sogno duri

dentro il sonno profondo della stanza

– e a durare ti aiuta il batticuore –

dallo specchio che vera ti suggella

amore non m tenti, lasci in ore

dilatarsi gli istanti, muti in quella

fra la terra ed il cielo la distanza

che la mano a varcare si avventuri.

II

Ripetono che presto aggiornerà

antelucane rondini. Dai prati

riporteranno l’alba alla città

con fili d’erba ai nidi cominciati.

Di quanta vita ingorgherà il momento

che con la luce giungerà a dividerci

qualcosa giorno ed anno vincerà?

Forse mi chiederò in trasalimento

se a me accadde o se un altro fu che vide

dormirgli a lato la felicità.

III

Già i primi raggi sfiorano randagi

le cimase, attraverso stridi e voli

si sorprendono volti da presagi

a un varco di persiane. Affinità

di colore nel buio li dirama

a una neve di tende e di lenzuoli

vivi del tuo respiro. Ma più in là

intimità d’essenza li conduce,

in tenebra più folta, oltre la trama

delle tue lunghe ciglia. Se ti desti

da più remoti abissi a me altra luce

balenerà, con raggi più celesti.»

Nato a Cavazzo Carnico il 27 settembre del 1913 e morto a Tolmezzo il 22 agosto del 1991, Siro Angeli – poeta, drammaturgo, attore cinematografico – è considerato il più illustre uomo di cultura della Carnia del XX secolo. E che sia stato un grande, non c’è dubbio; anche se il resto dell’Italia non se n’è accorto. Ma succede a quegli intellettuali, schivi e riservati, che decidono di restare fedeli alle loro piccole patrie, alla terra che li ha visti nascere e li ha nutriti.

Compiuti gli studi classici presso il liceo «Jacopo Stellini» di Udine (quello che, durante la prima guerra mondiale, aveva ospitato lo Stato Maggiore di Cadorna), allievo di Attilio Momigliano e Luigi Russo alla Normale di Pisa, si laurea nella città toscana nel 1939 con una tesi su Agnolo Firenzuola.

Amico di poeti come Giorgio Caproni e Alfonso Gatto, esordisce nella poesia nel 1937 con il volume «Il fiume va» (Udine, Edizioni La Panarie), recensito favorevolmente da Diego Valeri; e, nello stesso anno, porta sulle scene il suo primo dramma per il teatro, «La casa», prima parte del trittico carnico completato, poi, con «Mio fratello il ciliegio» (1937) e «Dentro di noi» (1939).

Altre raccolte di poesia in lingua italiana sono: «Erba tra i sassi» (Venezia, Le Tre Venezie, 1941); «Il grillo della Suburra» (Bologna, Segnacolo, 1960; seguiranno una seconda edizione per la Casa editrice Barulli di Roma nel 1975 e una terza per l’editore Scheiwiller di Milano, nel 1990); il già citato «L’ultima libertà» (Milano, Mondadori, 1962); «Màtia Mou» (Padova, Rebellato, 1976); «Da brace a cenere» (Roma-Bari, Lacaita, 1986).

Ad esse vanno aggiunte, in lingua friulana, «L’Âga dal Tajament» (Tolmezzo, Stab. Tip. Carnia, 1976) e «Barba Zef e jò» (1981); un volume di narrativa, «Figlio dell’uomo» (Milano, Edizioni Paoline, 1989); e diverse opere per il teatro. Oltre alla già citata trilogia, queste ultime comprendono: «Battaglione allievi» (1940), «Assurdo» (1942), «Male di vivere» (1951), «Odore di terra» (1957), «Grado zero» (1977).

Silvio D’Amico lo vuole poi come collaboratore della sua «Enciclopedia dello spettacolo». Trasferitosi a Roma alla fine della seconda guerra mondiale, dal 1955 al 1977 lavorava come funzionario dei servizi radiofonici del terzo programma.

Come poeta si caratterizza per un impasto originale di tradizione classica e di ermetismo novecentesco; e, nel 1976, vince il Premio nazionale letterario Pisa per la sezione Poesia.

Nel 1981 lo si vede interpretare, con dolente umanità, il tormentato personaggio di Barbe Zef nella trasposizione cinematografica del romanzo di Paola Drigo «Maria Zef» (vedi il nostro precedente articolo «Un film al giorno: "Maria Zef" di Vittorio Cottafavi, 1981», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Stabilitosi in Svizzera negli ultimi anni della sua vita, è stroncato da un ictus all’ospedale di Tolmezzo, mentre sta trascorrendo un periodo di riposo nel borgo di Cesclans, ove tuttora riposano le sue spoglie mortali.

Come si vede, si tratta di una vita intensa e di una attività poetica e drammaturgica prodigiosamente ricca e di elevato livello.

Eppure, se prendiamo in mano alcuni dei maggiori strumenti di consultazione letteraria, dalla «Enciclopedia Garzanti di letteratura» alla «Enciclopedia biografica universale» della Treccani, invano vi cercheremmo il suo nome. A parte un paio di convegni letterari, silenzio completo (le notizie biografiche qui sopra riportate sono in parte desunte dalle sue stesse opere, in parte dalla «voce» a lui dedicati su Wikipedia).

Uno stato di cose a dir poco sconcertante, se si pensa con quanta facilità, negli ultimi ani, sono stati acclamati ed esaltati diversi presunti «fenomeni» letterari che, fra qualche tempo, cadranno nel dimenticatoio, per la loro assoluta inconsistenza.

Ma Siro Angeli era fatto così, come tutti i carnici e come tutti i friulani: serio, modesto, alieno da qualsiasi intrallazzo. Non sgomitava per farsi notare dai signori critici. Inoltre, era un fervente cattolico (lo si evince dalle sue liriche: ma sempre con molto pudore); e non ci sentiremmo di escludere che, nel particolare clima ideologico vissuto dalla cultura italiana «alta» negli anni Sessanta e Settanta, ciò abbia favorito la distrazione (chiamiamola pure così, per non dire peggio) di molte eminenze della critica blasonata, affette sovente da una singolarissima forma di strabismo politico, per cui solo ciò che veniva dall’area marxista era bello e meritevole di attenzione.

Le liriche contenute bel volume mondadoriano «L’ultima libertà» e pubblicate nella collana «Il Tornasole», diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, nascono da una drammatica esperienza umana, quella del dolore per una perdita irreparabile.

La rievocazione della donna amata assume toni di una delicatezza squisita, estatica, celestiale, senza tuttavia perdere nulla del suo carattere umano, terreno, quotidiano. Piccoli gesti, strisce di luce, perfino gli avvallamenti delle coperte, delineano una presenza impalpabile eppure tangibile, di una soavità e di una grazia incomparabili. Osiamo affermare che poche volte, dopo la «Vita Nuova» di Dante Alighieri, la lirica italiana ha saputo cantare il mistero della donna con tanta rapita ammirazione, con una così struggente carica di rimpianto e, nello stesso, di speranza in un definitivo ricongiungimento.

Questa, crediamo, è l’ultima libertà di cui parla il titolo: la fede nella possibilità di ritrovare le persone amate, di là dalle vicende della carne che si corrompe e muore, in un abbraccio radioso di rasserenamento totale e di gioia inestinguibile.

Chiudendo il libro, ci si sente afferrati da un senso di trepidante magia. È come se Siro Angeli, cantando il ricordo della donna amata, avesse sconfitto la morte, un poco, anche per tutti noi.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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