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Dall’abisso dell’uomo all’abisso di Dio nel pensiero di Henri de Lubac

Vogliamo svolgere alcune riflessioni in margine a un’opera del grande teologo cattolico Henri de Lubac (Cambrai, 1896-parigi, 1991), Sur les chemins de Dieu (Paris, Edition Montaigne, 1956; tr.it. di M.Morganti, Sulle vie di Dio, Alba, Edizioni Paoline, 1959). Si tratta della terza edizione di una piccola opera precedente, De la conaissance de Dieu, apparsa nelle Editions du témoignage chrétien (1945 e 1948). Gli anni in cui fu composta, con un’Europa che usciva dalla bufera della seconda guerra mondiale e tentava di ricostruire le proprie macerie morali e materiali, può dire molto circa il contesto storico e il clima spirituale in cui essa vide la luce. Da questo punto di vista la si può utilizzare con altre opere di altri teologi cattolici, ad esempio con le riflessioni che Romano Guardini, nell’area tedesca, andava svolgendo su Il potere (Die Macht), opera della quale ci siamo specificamente occupati. Tuttavia, non si dovrebbe mai dimenticare che l’afflato di Henri de Lubac non è solo teologico, ma anche mistico; e, in tal senso, il suo libro trascende il piano dell’immediatezza storica e si fa testimonianza viva e sofferta dell’eterno anelito dell’anima umana verso Dio. «Inquietum estcor nostrum, donec requiescat in Te, Domine»,potremmo ripetere con S. Agostino.

Come ha scritto J. Defever in Nouvelle revue théologique (1956, pp. 979-980),

"l’Autore di questo libro(…) è mosso dalla fervida convinzione della Presenza,nel cuore stesso dell’abisso che è l’uomo, di Colui la cui abissale ricchezza riempie senza mai saziare le aspirazioni di quanti Lo cercano. Egli vuole mettere i lettori – credenti e non credenti con preferenza per gl’intellettuali – sulle vie che conducono a Lui, per aiutarli a scoprire Dio nell’affermazione spontanea che costituisce il fondo e la forza viva dello spirito umano. Per questo moltiplica e varia i punti di vista e gli aspetti (…)

"Tuttavia egli mira costantemente a presentarci la stessa verità dell’Assoluto inconcepibile e ineffabile e a provocare sempre la medesima risposta all’iniziativa divina. Più che alle istanze dello specialista, de Lubac cede a quelle dell’apostolo, preferendo il suggerimento alla dimostrazione ,anteponendo alla dissertazione l’invito pressante alla riflessione e al dono di sé».

L’opera è suddivisa in sette capitoli, che sono, nell’ordine: 1. Origine dell’idea di Dio; 2, L’affermazione di Dio; 3, La prova di Dio; 4, la Conoscenza di Dio; 5, La ineffabilità di Dio; 6, La ricerca di Dio; 7,L’attualità di Dio; e un’introduzione, intitolata Abyssus abyssum invocat, che inizia con una domanda perentoria:

"Ha ragione Mosé o Senofane? Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, o non è piuttosto l’uomo che fa Dio a immagine propria? Tutte le apparenze stanno per Senofane, e tuttavia è Mosé che dice il vero. E, in fondo, Senofane ne conviene. Poiché egli non parla del medesimo Dio ,né della medesima immagine, ed è per questo che la disputa pare sempre aperta .L’intenzione di Senofane ,tuttavia, non è di negare la divinità, ma, al contrario, di richiamarvi l’uomo, che si smarrisce tra gli dei che si è creati. Un cristiano in questo non può che approvarlo. Egli deve annoverare questo ‘intellettuale rivoluzionario’ nel numero di coloro che ‘schiuso la via’ alla verità. Il suo disprezzo per gli dei antropomorfi riveste un significato eminentemente positivo, e in realtà la sua voce risveglia nell’uomo una complicità segreta. Essa vi suscita una forza, prima mal definita, che lo condurrà molto oltr ela negazione dei suoi dei."

Così, fin dalle prime righe, de Lubac ci scaraventa in medias res: e subitoci si presenta con quel suo piglio vivace e ponderato al tempo stesso, frutto di intense meditazioni ma anche di una naturale simpatia umana verso tutto ciò che è vita; e quell’entusiasmo senza precipitazione, quella sicurezza sgombra di arroganza, quella trasparenza di pensiero che permette di guardare sino al fondo delle cose, senza per questo perdere la visione d’insieme. Infine, e più importante di tutto, in quel parallelo fra Mosé e Senofane, in quel giudizio lusinghiero verso il filosofo pagano, noi percepiamo quel vivo calore umano, quella capacità di valorizzare l’altro, il diverso, quella straordinaria disponibilità a cogliere tutto ciò che unisce e a tralasciare, per quanto possibile, gli scogli delle differenze di forma, ma non di sostanza: il tutto in uno spirito precorritore rispetto alle istanze del Concilio Vaticano II, dell’ecumenismo, dell’apertura alle sfide del mondo moderno.

L’uomo, dice de Lubac, creato ad immagine di Dio, anela a ricongiungersi a Lui, a comprenderne il mistero, a profondere i tesori della sua ragione per cercare di colmare l’abisso che lo separa dal suo Creatore. Ma è Dio stesso che si fa incontro all’uomo, che gli si rivela nella sua infinita sollecitudine e amorevolezza.

"Abbia dunque l’uomo l’audacia della sua ragione! Non disprezzi il potere che è in lui, ma non se ne inorgoglisca! Nel più alto uso della sua facoltà di conoscere non si mostri né esitante né sacrilego! Qualunque siano i meandri del suo pensiero, sappia egli infine risalire alla Sorgente, sappia raggiungere il Focolare!

"Prima di tutto (…) Dio si rivela incessantemente all’uomo, imprimendo di continuo in lui la propria immagine. È questa operazione divina che costituisce l’uomo nel suo centro. È essa che lo fa spirito, essa che lo fa ragionevole. Ne deriva che, a rigore, non vi sarebbe necessità per l’uomo di un’altra rivelazione per conoscere il suo Dio: fuori di ogni intervento soprannaturale, questa ‘rivelazione naturale’ sarebbe sufficiente. Diremo, per non esagerare, che vi basta per principio. Il peccato non l’ha soffocata completamente, poiché, se l’anima umana non si conosce oggi d’una conoscenza attuale e afferrabile che attraverso gli atti posti da essa, ha tuttavia di se medesima una certa ‘conoscenza abituale’ , reale sebbene oscura e involuta, costante sebbene sempre fuggitiva, che le viene dal fatto ch’ella è sempre presente a sé stessa. Presenza dell’anima a se stessa, grazie a cui potrà manifestarsi, come in uno specchio, la presenza di Dio all’anima."

Eccesso di ottimismo antropologico? Semipelagianesimo? Smodata fiducia nella capacità dell’uomo di salvarsi da solo o, comunque, di giungere da solo alla Rivelazione? Niente affatto; piuttosto, gioiosa consapevolezza che Dio è sempre presente nel mistero dell’anima: e, dunque, quando l’anima è presente a sé stessa, lì essa incontra Dio. L’abisso misterioso dell’anima diviene, così, la porta attraverso cui ci si apre dinanzi l’abisso – di per sé incommensurabile – della presenza divina: abyssus abyssum invocat.

  1. ORIGINE DELL’IDEA DI DIO.

"Le teorie sull’origine dell’Idea di Dio sono numerose. Da un secolo si sono moltiplicate. La maggior parte di esse non spiega nulla, o fanno svanire, senza neppure avvedersene, quello stesso che vogliono spiegare. Vi sono confuse le discipline più diverse, e l’apriorismo che le comanda presuppone che si tratti di un’illusione. l’ateismo è al punto di partenza, e domina tutta la trattazione: come stupirsi quindi che si trovi al punto di arrivo? La conclusione abituale, formulata più o meno esplicitamente, è, in realtà, che ogni idea di Dio va respinta, perché ormai si sa «per mezzo di quale meccanismo l’umanità abbia fabbricato questa idea, e come questo meccanismo sia un inganno». Ma c’è qui una pura petizione di principio.

L’uomo, si dice ad esempio, ha divinizzato il cielo. E sia. Ma dove ha preso l’idea del divino, per applicarla proprio al cielo? Perché è osservabile dappertutto questo movimento spontaneo della nostra specie? Perché quest’impresa di divinizzazione, sia che si tratti del cielo o di qualsiasi altra cosa? La parola stessa ‘Dio’, si dice pure, appellandosi alla filologia, non significa altro che ‘il cielo luminoso di giorno’. E va bene. Ma perché proprio questo ‘cielo luminoso di giorno’ è divenuto un dio per gli uomini? molti neppure s’accorgono che in ciò vi è un problema. (…)

"se l’idea di Dio è reale nell’uomo, nessun fatto accessibile alla storia, alla psicologia, alla sociologia o a qualche altra disciplina scientifica, è realmente la sua causa generatrice…".

Insomma gli storici, gli etnologi e gli psicologi possono tentare di spiegarci come sia sorta nelle menti umane del divino, ma non perché: il suo sbocciare nella coscienza rimane un elemento misterioso e irriducibile, e un dato strutturale che nessuna scienza può spiegare adeguatamente. Ora, questa idea può essere fondata anche mediante il pensiero. È fuorviante, comunque, la discussione se ciò debba avvenire mediante il pensiero ‘logico’ o mediante quello ‘mitico’ perché, in effetti, le due cose non si escludono a vicenda.

"In realtà l’affermazione autentica di Dio- che è molto più di un’affermazione deriva anzitutto dalla operazione profonda del pensiero, che non è ‘mitico’ né puramente ‘logico’, benché esso debba normalmente valersi delle vie della logica per formularsi, e utilizzi pure le forze dell’immaginazione per darsi un corpo, in modo che le sue costruzioni spontanee mostrano una struttura analoga a quella dei miti. Forse, per tener conto di tutti questi elementi, si potrebbe chiamarla meglio (…) un’affermazione ‘simbolica’ , o anche, con un altro vecchio vocabolo amato dai padri, ‘anagogica’."

Istinto mitico? Istinto logico? Il primo non darebbe che una divinità illusoria; il secondo, a supporlo solo, non dà, se così si può dire, che un Dio profano. L’uno e l’altro, tuttavia, sono all’opera. L’uno e l’altro collaborano, in una sinergia misteriosa, sotto la direzione d’un istinto divino."

Esistono due forme di deviazione della mente umana dalla giusta idea di Dio. La prima, naturale, nasce dal fatto che la ragione umana, emancipandosi dallo stato di necessità in cui l’uomo inizialmente si trova, tende a proseguire perla sua strada come se fosse autosufficiente; la seconda, perversa, deriva da una deviazione morale che si è verificata sin dalle origini (peccato originale). Entrambe le tendenze portano a una vera ostruzione della vita spirituale e tendono a identificare Dio con la sua creazione, generando magia e superstizione. Liberandosi dalla superstizione, l’umanità cade nell’ateismo; salvo ricadere ancora nella superstizione, e così via. Sarebbe impossibile spezzare il cerchio se Dio stesso, rompendo il circolo vizioso, non si scegliesse un confidente , con lo scopo di annunziarLo ai fratelli.

Esistono, nella storia occidentale, due specie di monoteismo. Il primo nasce dalla progressiva concentrazione delle divinità del politeismo e rappresenta, spesso, un progresso per la politica, la civiltà e il pensiero; però i vari dei, pur concentrandosi, non riescono a generare veramente Dio, quindi non vi è alcun progresso religioso. La seconda specie è diversa: nasce dalla consapevolezza che Dio è l’Altro, radicalmente uno, e che per raggiungerLo bisogna prima spezzare gli idoli.

"Solo questo secondo monoteismo è carico di forza esplosiva. Solo esso porta il progresso religioso, essendo all’origine di una trasformazione radicale nelle concezioni e nella vita religiosa. Soltanto esso, inoltre, è atto ad assumere, quando non lo promuove da se stesso, il progresso morale e il progresso sociale. Solo il Dio di questo monoteismo può essere, nel senso primo della parola, l’oggetto di una fede. Quando egli incontra il primo monoteismo non si aggrega ad esso: deve anzitutto trionfare anche di esso."

È significativo il fatto che il secondo tipo di monoteismo, quello veramente religioso, non compare negli Stati al culmine della loro potenza, negli Imperi universali, ilche smentisce la teoria marxista e quella razionalista, secondo le quali l’idea di un unico Dio sarebbe ricalcata sul modello dei monarchi imperiali dell’Antico Oriente, dai re di Babilonia e dai faraoni d’Egitto su su, fino agli imperatori romani del tardo Impero. Ad esempio,

"la religione di Zoroastro, «la meno pagana delle religioni pagane», le cui potenze divine sono, più che dei, «attributi dell’unica divinità»,nacque in un remoto angolo dell’Iran, lontano da quel focolare di cultura ch’era allora Babilonia, e prima dell’era del sincretismo, aperto in Babilonia stessa dalle conquiste di Ciro. Il Giudaismo e l’Islam smentiscono ancor di più ogni teoria dello sviluppo religioso, che ricorre ai soliti fattori estranei alla religione. Israele era un piccolo popolo, dal pensiero frusto, dall’economia rudimentale, dalla civiltà assai meno brillante di quella dei suoi grandi vicini, che a turno lo schiacciavano…".

La conclusione è semplice: lo Spirito soffia dove vuole. La verità è che l’idea di Dio nasca da un processo di evoluzione religiosa; altri, che si riveli all’umanità mediante una rivoluzione religiosa. Per Henri de Lubac, hanno torto entrambi. L’idea del Dio unico sorge nelle profondità della coscienza e, nel caso più chiaro, Dio vi si rivela, facendo scomparire gli idoli. All’origine vi è dunque un contatto, un incontro personale fra Dio e l’uomo: Abramo che lascia la sua terra per seguire la promessa divina, Mosé che riceve la Legge sul Monte Sinai…Si penda il caso di Abramo: egli non si è rivolto all’unico Dio per la nausea degli dei, anzi ha dovuto lottare duramente in se stesso per emanciparsi da quest’ultima. Nel Cristianesimo, Dio non si rivela attraverso il disprezzo per il mondo e i suoi idoli, ma, al contrario, «Egli annunzia il Regno dei Cieli dove respira già la sua anima».

  1. L’AFFERMAZIONE DI DIO.

"Se, con Sant’Agostino, si riserva il nome di credenza agli atti con cui lo spirito aderisce a verità che sorpassano i sensi e che l’intelligenza non riesce ancora a penetrare, si potrà dire che l’affermazione di Dio è sempre il risultato di una credenza. Ma si dovrà allora subito precisare che nessuna affermazione è paragonabile, in certezza, a quella credenza. Poiché prima ancora che essa fosse formulata, prima che Dio fosse nominato, era già essa che fondava tutte le altre. È ad essa, come Descartes ha ben visto ,anche se l’ha spiegato male, che si riallaccia ogni affermazione, ed è in essa che ogni certezza ha le sue basi. «In qualunque modo ce se ne interessi, diceva Leibniz, nn si può fare a meno della esistenza divina». Alla loro maniera – e non tocca qui a noi criticarla – questi filosofi riprendevano l’assioma enunciato da San Tommaso d’Aquino: «Ogni conoscente conosce implicitamente Dio in ogni conosciuto». Ogni atto umano – conoscenza o volere che sia – attribuendo al reale, su cui si esercita, una solidità e un senso, si appoggia segretamente su Dio. Dio è l’Assoluto; e non si può pensare nulla senza porre l’Assoluto riallacciandolo a questo Assoluto; non si può voler nulla senza tendere all’Assoluto, né stimar nulla senza pesarlo al peso dell’Assoluto.

"Non è dunque solo negli atti detti di religione né secondo un’accezione grossolanamente pragmatista che God is used, come suona una nota espressione. Servirsi di Dio per dominare il flusso dell’esistenza immediata, organizzare il caos, decidere, giudicare, scegliere, fare, in una parola, un atto dello spirito, e non affondare a ogni passo nella contraddizione, ma contemporaneamente rifiutare di riconoscerLo; scartare con il pensiero Colui senza il quale il pensiero non sarebbe che psichismo; appoggiarsi su Lui nell’atto stesso con cui Lo si nega: questa è la contraddizione suprema. Tale giudizio, in realtà, si nega da se stesso e si distrugge, non semplicemente nel suo contenuto, ma come tale, spezzando la sua armatura e rifiutando la sua condizione. Contraddizione senza dubbio inavvertita, poiché non interviene tra due affermazioni oggettive, ma tra l’affermazione oggettiva e l’affermazione trascendentale; tra l’asserzione emessa e l’asserzione vissuta con il pensiero. Di conseguenza contraddizione non particolare e puramente logica- ed è per questo che essa è sempre possibile – ma contraddizione totale, vitale e spirituale. Contraddizione nell’essere che pensa. Peccato dello spirito contro lo Spirito.

"Così facevano quei pagani di Roma che, rifugiati nelle chiese per sfuggire ai colpi dei barbari, profittavano della sicurezza che loro concedeva il Dio dei cristiani, per bestemmiare contro di Lui. Per avere il diritto di negare Dio senza contraddirsi, bisognerebbe potere e, al tempo stesso, cessare di volere e di pensare. Bisognerebbe cessare di parlare.

"Non si potrebbe, senza distruggere lo spirito stesso, troncare il suo perpetuo riferimento all’Assoluto; all’Assoluto pensato come reale. Non si può sopprimere «questo primo rapporto con l’essere che le filosofie del progresso o della totalità trascurano sempre». Non si può, senza chiudersi a ogni vera filosofia, disconoscere questa ‘esperienza fondamentale’ che è la presenza non concettuale dell’essere alla coscienza, comune al filosofo e a tutti gli esseri.

"«Non avendo principio, Dio non potrebbe essere affermato in virtù di un principio distinto da Lui» (P. Scheuer)."

Abbiamo riportato per esteso questa pagina per la sua estrema pregnanza e chiarezza concettuale: questo è un esempio di rigore logico accompagnato da limpida consapevolezza del giusto rapporto che si deve instaurare fra uomo, Dio e mondo. Il lettore abbia la bontà di rileggerla: si accorgerà che vi è, in germe, la risposta all’angoscia fondamentale del mondo moderno, ossia una nostalgia dell’essere accompagnata dalla sua costante, programmatica soppressione dal livello della coscienza e della volontà. La crisi del mondo moderno è tutta qui: nella negazione o nella rimozione dell’essere, nel comportarsi come se si trattasse di un’esigenza storicamente superata, propria delle società "mitologiche", ma di cui l’homo tecnologicus non ha più bisogno, anzi da cui deve emanciparsi per non restare un eterno bambino, per divenire adulto (Freud).

Per de Lubac, la verità di Dio non è una verità qualunque, una verità fra le altre. Essa è la verità che fonda ogni altra verità, e senza la quale ogni verità diventa una verità parziale e incoerente che, se ardisce elevarsi al livello del sapere oggettivo, si deforma in una immagine caricaturale e blasfema della verità reale. Né il razionalismo né l’irrazionalismo possono darci una visione adeguata della realtà:

"Dio non è un essere particolare, che tiene il suo posto tra gli altri, all’interno o all’inizio di una serie. Dio non è il primo anello nella catena degli esseri. Contro ogni razionalismo, contro ogni disprezzo delle certezze razionali, dobbiamo riconoscere che Dio è la realtà che domina, avvolge e misura il nostro pensiero, e non il contrario. Egli è la realtà che rende il nostro pensiero così grande, sicuro di sé e assoluto nel suo atto regale di giudicare, e, nello stesso tempo, così necessariamente sottomesso.

"In breve, bisogna prendere sul serio la realtà di Dio. Bisogna riconoscere in tutto il suo valore la trascendenza di Dio."

Non si creda, però, che Dio, una volta rivelatosi nella coscienza, vi si mantenga come u a qualsiasi altra verità di ordine razionale. Lo scandalo della fede è appunto questo: un dover ogni volta disperare, ogni volta ricominciare; un vedersi sfuggire come vapore quella certezza che si credeva conquistata una volta per tutte.

"Perché lo spirito, quando ha trovato Dio, conserva ancora o scopre sempre il sentimento di non averlo trovato? Perché questo peso d’assenza, anche nella presenza più intima? Perché questa invincibile oscurità di Colui che è tutta luce? Perché questo muro o questo vuoto spalancato? Perché questo tradimento di tutte le cose, che subito dopo averci mostrato Dio, di nuovo ce Lo nascondono?

"C’è la tentazione di soccombere a questo scandalo, tanto più disperato quanto più si era creduto in un primo momento di aver trovato; tentazione di negare la luce, poiché il velo ridiventa opaco o gli occhi accecati; tentazione di stanchezza, dopo lo sforzo di un cammino che riconduce sempre al punto di partenza…

"Per altri c’è la tentazione inversa che raggiunge quella di tutti i ‘mezzi sbrigativi’: l’illusione cioè di chi si persuade che non vi sia più che da lacerare un velo sottile perché, alla fine, la Presenza appaia; che non abbia che rivolgere il suo sguardo all’interno, a fissare il punto luminoso che rischiara tutti i suoi pensieri, per godere della vista del suo Dio; che gli basti essrre perper possedere l’Essere…

"È una sottovalutazione dell’ostacolo, una serenità troppo presto acquisita, una confusione della pallida chiarezza dell’essere con la luce divina…

"Perché, Signore, tali ambiguità? Perché sorgono nell’anima tali oscillazioni e tali dispute? Perché tanti slanci contraddittori e vani? «Perché questo?»."

Questo è l’aspetto "esistenzialista", se così lo vogliamo chiamare, che rende l’opera di de Lubac così commovente e così vicina alla nostra sensibilità moderna. Dio è il fondamento di ogni conoscenza e di ogni verità, ma ciò non significa che basti riconoscerLo per goderne il possesso definitivo. Dio si offre e si nega, ci viene incontro ma si sottrae quando crediamo d’averlo con noi per sempre: vuole sempre essere riconquistato, ci elude per metterci continuamente alla prova, come un amante appassionato, ma anche esigente. Né potrebbe essere diversamente, datolo scarto ontologico fra Lui e le creature. L’unica cosa che di Lui possiamo avere costantemente è il senso di vuoto e d’inadeguatezza, in definitiva la Sua assenza; la presenza è un evento luminoso e confortante, ma mai definitivo. Per questo l’umanità è e sarà sempre in cammino, come i nomadi del deserto, come la cerva che anela ai rivi delle acque: assetata di Lui, della Sua pienezza, del Suo splendore, mai però del tutto appagata, anzi spesso turbata e confusa, incerta sulla strada da seguire, timorosa di cader vittima di qualche miraggio. L’essere che sentiamo arderci nel cuore e straziarlo con la nostalgia dell’Assoluto, non è ancora l’Essere capace di placare ogni ansia, di spegnere ogni sete. Siamo tuttora in cammino, umanità pellegrinante che si affida alla guida di una Stella cometa che, spesso, si sottrae alla vista fra le nubi di un cielo mutevole.

La filosofia è lo sforzo del pensiero di risalire a quella sorgente perenne, a quel bene infinitamente prezioso verso cui ogni cosa tende. Ma, prima di articolare un qualunque ragionamento, essa muove da quel centro immobile che è in fondo alla coscienza, a quell’idea di Dio che precede ogni altra nostra idea formulata concettualmente, compresa l’idea stessa del divino. Perciò la nostra umanità, per ritrovarsi nel suo senso più profondo, deve preventivamente dire sì a quella scintilla divina che è già entro di essa; deve affermare Dio prima ancora di organizzare ed elaborare qualsiasi ragionamento sulla Sua esistenza.

"Soltanto dopo aver posto una prima affermazione di Dio – affermazione ancora implicita, insita in ciascuno dei nostri giudizi d’esistenza po di valore e per conseguenza coestensiva a ogni nostra attività spirituale, congenita allo spirito – noi possiamo tentar di raggiungerla, nella nostra vita cosciente, facendo opera di logica per mezzo di un ragionamento. Soltanto dopo essere giunti al possesso dell’idea di Dio contenuta in questa affermazione implicita, noi possiamo cercare di rappresentare qualche cosa per la sola via che ci si offre: la via dei concetti. È la fase prima e sotterranea ,inavvertita ma determinante, della vita dello spirito. Prima di ogni ragionamento esplicito come prima di ogni concetto oggettivo e per permettere al proprio soggetto il loro uso indispensabile, Dio deve essere già presente allo spirito, nel quale va segretamente affermato e pensato. Prima di esservi ‘identificato’ con qualche atto cosciente, deve esistere nello spirito una certa ‘abitudine di Dio’."

  1. LA PROVA DI DIO.

"Per molti Dio è un’opinione, o, se si consente a parlare di certezza nei suoi riguardi, non si tratta -precisiamo quasi a maniera di scusa – che d’una certezza di sentimento, strettamente personale.

"Per noi, egli è oggetto di prova. Su questo punto, del resto, la Chiesa cattolica s’è pronunziata più d’una volta, aiutando la ragione di quelli che si fidano di essa a riprendere fiducia in sé, stimolandola contro il pericolo della ‘rinunzia metafisica’: l’insidia del nostro tempo.

"Il movimento che ci porta fino a Dio al di là della creazione ‘visibile’ e ‘invisibile’ appoggiandosi su di essa, non è soltanto uno slancio del cuore, tutt’al più ammantato da un’opinione intellettuale. Per quanto personale possa essere -e debba essere – in ciascuno di noi esso ha valore universale. Una demonstratio ne può tracciare l’itinerario ,analizzarne il meccanismo essenziale, determinarne l’energia, distinguervi tappe, valevoli per tutti gli spiriti.

"Però, come ci sono diverse specie di oggetti, così ci sono diverse specie di prove.

"Tutte le volte che una prova non si limita a sviluppare il contenuto racchiuso in un concetto, ogni volta ch’essa segna un progresso reale raggiungendo un oggetto del tutto nuovo, il dinamismo dell’intelligenza che elabora questa prova implica una finalità. Lo spirito si trova allora ‘commisurato’ all’oggetto in questione, dal quale già in anticipo specificato. Il legame che unisce l’uno all’altro non ha nulla di accidentale. Ciò significa che un tale oggetto, precisamente in cagione della novità di cui sarà portatore, si trova già presente allo spirito con una misteriosa presenza, come con una presenza in germe. Afferrarlo al termine del processo logico, captarlo per così dire in una rete di forme oggettive, sarà dunque, in un certo senso, ‘riconoscerlo’. Dimostrare ,in questo caso, significa rendersi conto’, si ‘scopre’ ciò che era.

"Quanto più ciò è vero nel caso della prova di Dio! Il finalismo, essenziale all’intelligenza che penetra in un nuovo dominio, è allora doppiamente unico. Infatti, in tutti gli altri casi, noi consideriamo ancora un oggetto del nostro mondo, del mondo della nostra esperienza, ancorché esso si trovi ancora al di là delle conquiste attuali della nostra esperienza. Al contrario, quando si tratta di Dio, a proposito del quale le parole stesse di oggetto e di esistenza assumono un significato trascendente, si tratta di quell’Essere che è la sorgente del mio essere, «più me stesso di me». Quanto più alto di tutti gli altri, e quanto più intimo!".

Per de Lubac, non vi è eterogeneità fra lo slancio mistico dell’anima verso Dio e la ricerca razionale del filosofo: entrambi tendono verso un centro fondamentale, un "contenuto latente" dell’anima che si ha quasi paura di turbare.

In fatto di prove dell’esistenza di Dio, la migliore è sempre quella classica: Aliquid est, ergo Deus est. E Dio non è il primo anello di una catena, ma la ragione sufficiente di tutto l’esistente. Bellissime le riflessioni del Nostro sul concetto del divenire su quello di progresso, bandiera di una modernità che ha smarrito il senso dell’essere.

"Il Divenire, di per sé, non ha senso; scorre, svanisce senza realmente divenire. È un altro nome dell’assurdo. Ora, senza una Trascendenza, cioè un Assoluto presente, già stabilito al centro della realtà che diviene, non dipendente da essa, essendo questo Assoluto che la lavora, l’attira, la polarizza, la fa veramente avanzare, non vi può essere indefinitamente che divenire, ameno che una catastrofe non venga a mettere una fine violenta a tutto, e che l’assurdo non ritrovi da ultimo, se così si può dire, la verità del suo essere, divenendo senza equivoco il nulla…

"Ogni divenire è causato dall’Essere. Ogni divenire è orientato verso l’Essere. Il divenire non può essere pensato che all’Essere.

"L’idea di Progresso, che magnifica il divenire e in qualche modo l’ipostatizza, è una delle più vane che gli uomini abbiano forgiato. Poiché il progresso divinizzato non è soltanto, come giustamente fu scritto, una ‘corsa senza timore’ bensì è una corsa senza meta, anzi una corsa che si svia senza neanche realmente correre. Sopprimere il termine è sopprimere la direzione della corsa. È far «balenare agli occhi dell’individuo straziato e asservito un di là astratto che gli sfugge a misura che egli crede di accostarvisi». È sopprimere il progresso.

"«Far sparire la perfezione assoluta è far sparire ogni idea di perfezionamento».Nessun superamento reale senza asse né termine; nessun progresso reale senza ‘passaggio al limite’. "

Per de Lubac, se vi è divenire, se vi è progresso possibile, allora deve anche esserci compimento. Diceva il grande poeta Paul Claudel: «Togliete la fine del mondo (che ne è pure il principio) e non v’è più séguito nelle cose, ma solo il caos che vi getta nella disperazione e a cui il vecchio Tathagata preferiva il nulla». Contro la disperazione del Caos finale, del fallimento assoluto, vi è un punto alfa che è anche il punto omega, e quel punto è Dio.

Illuminanti anche le riflessioni dell’Autore sulla distorsione del razionalismo, laddove egli bene distingue fra le istanze della ragione, che sono legittime e naturali, e quelle, appunto, del razionalismo, che smarriscono completamente il senso iniziale della ricerca umana, che è sempre, per essere veramente tale, ricerca dell’essere.

"Tutto il male viene dall’illusione iniziale, cioè dalla persuasione, non vagliata dalla critica, che non vi sia che da progredire nella conoscenza del mondo cominciando dai suoi primi dati, senza ritorno riflessivo, che l’occhio dello spirito deve prolungare in qualche modo indefinitamente lo sguardo dei sensi, anche quando sembra, con la scienza, passarlo al vaglio ,per scoprire l’essere sotto la sua apparenza, che bisogna ammassare l’oggetto, confuso con l’essere, come un tesoro, scavarlo per trovarvi l’alimento, custodirlo per bearsene. In una parola, tutto il male viene dall’illusione che non vi è mai altro se non sistemarsi meglio, se non ingolfarsi più a fondo in questo mondo…"

Sia il Sapere assoluto, delirio di onnipotenza del razionalismo, sia l’Intuizione assoluta, vaneggiamento (secondo de Lubac) di un mondo che si dissolve da sé medesimo, ripugnano alla retta via dello spirito. Ma allora, verso dove dobbiamo muovere i nostri passi, che cosa cercare, su che cosa fondarci?

"Lo spirito umano potrebbe assimilarsi a una pianta. Il fine della pianta è, assimilando gli elementi che attinge dal di fuori, quello di vivere, di divenire se stesso. Il fine dello spirito, facendosi autonomo intendimento per assimilare il sensibile, non è di perdersi negli elementi che da ogni parte gli si offrono, né di costruire con esso l’edificio perfetto del sapere: è di divenire se stesso, è di vivere. E la sua vita è il possesso di sé -e di ogni cosa – nella luminosa dipendenza da Dio."

Dio, per de Lubac come per S. Tommaso, è naturalmente conosciuto da tutti, ma non tutti lo riconoscono. Così, ad es., quando Pietro sta venendo verso di me, è Pietro quell’essere che io mi vedo venire incontro, anche se ancora non so che è lui. Ora, la meraviglia sta proprio nel fatto che, quando vedo Dio per la prima volta, io lo riconosco. Per es., quando conosco che è Dio colui che può rendere felice lamia anima, io conosco al tempo stesso che Dio coincide con quella felicità che sempre inseguo nella mia vita, riponendola però nel possesso di oggetti ingannevoli.

Anche la prova ontologica di Anselmo d’Aosta presenta un limite intrinseco: l’esistenza non è un predicato, non è una perfezione dell’essenza. Da un punto di vista esclusivamente intellettuale, la "prova" di S. Anselmo non afferma altra cosa che la capacità del pensiero di affermare se stesso, come quella cosa che non può essere sorpassata, il limite estremo oltre il quale il pensiero stesso non può andare. Ma Dio non è u oggetto come lo sono gli altri.

"Egli non può essere, se è, che l’oggetto totale e la Verità totale, che investono tutto lo spirito. Ora, respingendo una verità particolare, si accoglie solamente una assurdità, mentre respingendo la Verità totale s’introduce nel contempo in se stessi l’assurdità"

Citando Maritain, l’Autore afferma che la conoscenza di Dio è "doppiamente naturale", frutto di una appercezione dell’essere, e decisamente più profonda di ogni processo logico scientificamente sviluppato. Dopo aver passato velocemente in rassegna la posizione di alcuni filosofi moderni nei riguardi delle prove dell’esistenza di Dio, de Lubac conclude:

"Checché alcuni ne pensino, in tale questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto! Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra epoca. L’uomo a Dio preferisce se stesso, sviando il moto che lo conduce a Lui o, non potendolo, accanendosi a interpretarlo falsamente. S’immagina così di aver liquidato le prove; si affida alle critiche e non sa spingersi più oltre. Si allontana da ciò che rischierebbe di convincerlo. Se tornasse il gusto, siamo sicuri che le prove ricomparirebbero presto agli occhi di tutti più chiare della luce del giorno, com’esse sono effettivamente se ben si guarda alla loro anima.

E conclude citando una bella similitudine di Origene:

"Ogni terra possiede acque, ma il Filisteo, i cui gusti sono terrestri, non sapeva trovare acqua in tutta la terra. Egli non sa trovare in qualsiasi anima la ragione e l’immagine di Dio."

  1. LA CONOSCENZA DI DIO.

"il creato, attraverso il quale Dio si rivela, non è solo la sua opera, ma è la sua creatura; non è solo una cosa che Dio ha tratto dal nulla, nella sua potenza, ma, proprio per questo, è un essere che non è e non vive se non della vita e dell’essere che riceve incessantemente dal suo Autore. O piuttosto (…) l’universo non vive e non esiste che in Dio. In Eo vivimus et sumus.

"Dio, che è ‘il suo proprio essere,’ è al tempo stesso ‘l’essere di tutti’. Incomprensibile, inaccessibile, egli è nel contempo intimo e vicino. ‘Principio e radice di ogni creatura’ è l’Essere presente per eccellenza.

"Dappertutto dunque, attraverso il mondo, Dio viene a noi, ed il suo Essere ci incalza. Noi dovremmo poterlo incontrare dappertutto e riconoscerlo ovunque; sia che consideriamo il ‘gran mondo’ o il’ piccolo mondo’, il cosmo che ci circonda o il nostro proprio spirito, tutto il reale che ci si offre è, per tutto se stesso e anzitutto per la sua sola esistenza, il simbolo o il segno di Dio.(…)

"Dio non è mai venuto direttamente senza un segno; ma attraverso il mondo, sebbene oscuramente, Dio si manifesta dappertutto. Ogni creatura è, per se stessa, una teofania. Tutto è pieno di tracce, di impronte, di vestigia, di enigmi. Da ogni parte escono i raggi della Divinità. Tutto stilla dell’unica Presenza. «Per un occhio puro e uno sguardo attento tutte le cose diventano trasparenti» (P. Claudel). "

ma allora, si potrebbe chiedere, come va che noi non riusciamo a vedere quella Presenza, oppure la scorgiamo così raramente e confusamente? Qui torniamo al tema affrontato nell’ultima parte del capitolo precedente: la modernità ha perduto il "gusto di Dio", si è autocentrata, disconoscendo il suo legame strutturale con il proprio Creatore. Si è dotata di un sapere scientifico che, perfettamente lecito in sé, ha preteso di procedere di causa in causa, senza più riconoscere la sua dipendenza ontologica dalla Causa prima, che rende possibili stesse operazioni del pensiero e che fonda ogni conoscenza certa. La scienza ha voluto sostituirsi alla contemplazione dell’Essere, col risultato che è divenuta d’impaccio alla verità non meno dell’ignoranza. Nemesi terribile di una ragione che, inorgoglitasi di sé stessa, e delle proprie conquiste, si è accecata di fronte alla più evidente delle verità: la presenza del divino che permea e sostanzia tutto il nostro piano di realtà.

"Se in noi la scienza fa torto alla contemplazione quanto l’ignoranza; se lo sguardo del nostro spirito si arresta alla scorza del mondo, se non vi scorge nulla di sacro o se al contrario vede il mondo ‘pieno di dei’, l’errore è dovuto a qualche malattia del nostro sguardo. Infatti – e non è che fin troppo vero – il mondo ci nasconde Dio molto più di quanto non ce lo riveli. Tutte le cose sono per noi divenute opache. "

Dio, dunque, si rivela e al tempo stesso si vela attraverso le cose da Lui create: mistero struggente, che strappa a de Lubac una pagina che è, al tempo stesso di altissima poesia e di profonda meditazione filosofica:

"Se Dio si sottrae, è proprio nella sua presenza. La sua trascendenza non ha alcun carattere di una relegazione fuori del mondo: essa è tutto il contrario di un’assenza. Ogni creatura Lo rivela con l’essere stesso che prende a prestito da lui, gridando che essa non è lui. È il mistero che non cessa, nella sua oscurità, di essere luce; il vuoto a cui esso obbliga è la forma della sua Pienezza.(…)

"Il Dio nascosto, il Dio misterioso, non è il Dio lontano, il Dio assente: è sempre il Dio vicino."

E ancora, citando H. Paissac, dal saggio Le Dieu de Sartre (1950):

"Le cose vogliono dire Dio, e non lo dicono; nessuno può dirlo, se non Lkui stesso. Anche lo spirito vuol dire Dio e non vi giunge mai. Ma esso afferma la propria esistenza, come la presenza di un limite inafferrabile verso cui fugge incessantemente il mondo desideroso di esistere:, come un ostacolo meraviglioso che non si vede ancora, ma che un segnale previsto annunzia e disegna in anticipo. Lo spirito porta solamente nei recessi della sua struttura come un presentimento del fine, poiché pur esso è costruito e lanciato nel senso di Dio e può prenderne coscienza. Ma questa coscienza non è quasi nulla, se le cose del mondo non vengono a far segno."

Una prima maniera di conoscere Dio è quella che si realizza nell’etica, anche indipendentemente dal sentimento legato ad una religione specifica. Quanto, però, all‘imperativo categorico di Kant, al tu devi come fondamento della legge morale, de Lubac osserva che, certo, il riconoscimento della legge morale è una forma di religiosità anche se viene da un ateo, ma ad una condizione.

"Se, nella conoscenza del dovere, Dio è già in qualche modo conosciuto, anche da colui che non sapesse vederlo e che si credesse ateo, si può dire, nell’adempimento di questo dovere, Egli è già, in qualche modo, trovato e posseduto.

"Ciò non si può tuttavia dire che ad una condizione precisa. Vi sono infatti due modi di riconoscere il dovere e di conseguenza di adempierlo. Affinché la conoscenza e il possesso di Dio che comportano la conoscenza e l’adempimento del dovere non restino puramente implicite, bisogna che il dovere sia riconosciuto non come una legge puramente formale, alla maniera kantiana, ma come l’esigenza del Bene. Solo allora l’astrazione della ‘Legge naturale’ è superata e cede il posto al Dio reale, anche in chi non sa ancora nominarLo."

Eppure, per quanto sforzi faccia la mente umana per avvicinarsi all’idea di Dio, essa si vede sempre, continuamente respinta. Può bensì formulare delle prove razionali, mai il dubbio torna a risorgere, insistente; perché la ragione non si accontenta delle dimostrazioni puramente formali; essa, e con lei tutto il nostro spirito, hanno sete di un certezza assoluta, radicale, ed anelano a una prova che non sia soltanto logica, ma esistenziale. In un passo di sapore quasi esistenzialista, e che sembra riecheggiare la polemica di Kierkegaard contro l’astrattezza del sistema hegeliano in nome dei diritti e delle esigenze della vita concreta, de Lubac rivendica la necessità di un possesso dell’idea di Dio che non soddisfi unicamente il pensiero logico, ma che recepisca il bisogno di concretezza della vita spirituale. Ma l’essere umano, con le proprie forze, non potrà mai giungere a tanto: ed allora, nello scacco apparente dei suoi sforzi verso Dio, che Dio stesso muove in suo soccorso, e sopperisce alla sua limitatezza con generosità sovrabbondante. Egli allora offre all’uomo il dono dello Spirito, che è accessibile a tutti e non solo, come accade sul piano della ricerca filosofica, ai sapienti

"Non sembra dunque che l’uomo debba oscillare incessantemente tra questi due poli, senza trovare mai un porto sicuro dove fissare la propria inquietudine? La ragione può restare serena, con la sua prova intatta: ma l’uomo, l’uomo che ragiona, è perplesso. Il problema teorico in linea di diritto ,può venire risolto, le apparenze contrarie, sormontate: resta però un problema pratico, fondamentale, il problema dell’uso dell’idea di Dio nella vita spirituale.

"Allora, o meraviglia!, interviene il Dono di Dio, secondo dono, perché il primo dono, la prima premura non era altro che lo spirito, l’affermazione stessa.(…) La sua azione appartiene ad un altro ordine, che viene ad assicurare allo spirito, senza togliergli lo slancio, il possesso tranquillo del suo oggetto. Viene a porre un termine al suo turbamento. Spiega senza sforzo una situazione che sembrava inestricabile, proprio perché esso è «di un altro ordine, quello soprannaturale» Esso introduce in noi come una nuova dimensione la vita di carità, facendoci partecipare alla vita stessa di Dio, fornisce per ciò stesso come un contenuto spirituale alla nostra idea di Dio.(…)

"Anche dopo che la logica ci ha costretti ad affermare che Egli esiste, il suo mistero resta inviolato. La nostra ragione non penetra in Lui. (…)

"Spiriti creati, siamo uno slancio verso l’Assoluto! (…) E in questo stesso slancio, l’Assoluto ci si fa conoscere."

  1. LA INEFFABILITA’ DI DIO.

"Ecco che cosa è Dio: un infinito di intelligibilità. L’incomprensibile è il contrario dell’intelligibile. Più si penetra nell’infinito e più si comprende che esso ci sorpassa, e che non lo afferreremo mai.(…)

"L’infinito non è una somma di elementi finiti, e quello che ne comprendiamo non è dunque un lembo sottratto, per così dire, a ciò che resterebbe da comprendere. L’intelligenza dunque non distrugge e neanche intacca il mistero:, essa non lo diminuisce in nulla, non ‘ha mordente’ su esso, ma lo approfondisce. Essa entra in lui, e lo scopre sempre meglio come tale."

Ed ecco una immagine plastica che rende, meglio di ogni ragionamento, per mezzo di una similitudine, la natura dello sforzo dello spirito umano, che si protende con tutte le sue forze verso la conoscenza di Dio:

"Lo spirito, che si sforza di ‘comprendere’ Dio, non è paragonabile all’avaro, che che ammucchia una quantità di oro – una somma di verità – sempre più considerevole. E neppure rassomiglia all’artista, che riprende sempre da capo un abbozzo per renderlo ogni volta meno imperfetto e per riposarsi finalmente nel godimento estetico della sua opera. È piuttosto come il nuotatore, che per tenersi sui flutti, avanza nell’oceano costretto a respingere una nuova onda a ogni bracciata. Esso scarta, incessantemente, le rappresentazioni che si riformano sempre, ben sapendo che lo portano, ma che arrestarsi significherebbe perire."

In questo capitolo, de Lubac si cimenta veramente con uno dei temi filosoficamente più difficili che si possano dare: tentare di esprimere l’ineffabilità di Dio, ossia una contraddizione in termini. Eppure, egli afferma, il fatto che Dio sia ineffabile non significa che di Lui non sia possibile affermare nulla: Dio, infatti, è l’Ineffabile, non l’Inconoscibile. Ma i concetti umani, tutti i concetti umani, sono inadeguati a coglierne l’essenza e ancor più ad esprimerla; per cui – con S.Alberto magno – «l’Innominabile è il più bello di tutti i suoi nomi, poiché lo pone di colpo al di sopra di tutto ciò che si potrebbe tentare di dire di Lui». Ora, se l’essere è, in quanto tale, indefinibile, anche il movimento con cui lo spirito cerca di coglierlo nel suo palpito segreto è al di sopra (o al di sotto) di ogni processo logico analizzabile.

E qui, citando mistici cristiani come Angela da Foligno e Mestro Eckhart, ma anche avvicinandosi (forse inconsapevolmente) a certe concezioni orientali e specialmente buddhiste, Henri de Lubac tenta di esprimere l’Ineffabile con un audace sforzo concettuale che ci porta, smarriti, fin sulle soglie di un abisso strano, impensato, ove ogni punto di riferimento abituale pare scomparso e la nostra mente vacilla davanti a intuizioni che sono troppo al di là sia del pensiero razionale che di quello immaginativo.

"In realtà, Colui che chiamiamo l’Essere e che altri, correggendosi però subito, non hanno temuto di chiamare paradossalmente il ‘Nulla assoluto’, il ‘Niente’, ‘il puro e nudo Nulla’, il ‘Nulla eterno’, non è rappresentato, a rigor di termini, dal concetto di essere più che da qualsiasi altro concetto. Si può certamente dire – e talvolta si dovrà anche dire per non svegliare l’errore in intelligenze non provvedute – che i nomi che diamo a Dio, e anzitutto il nome di ‘Essere’ ce Lo rappresentano in qualche modo, sebbene assai imperfettamente. Ma se si vuole andare sino all’estremo dell’esattezza non si potrà [non: nota nostra] aggiungere che l’essenza divina non ha in noi una rappresentazione propriamente detta e che non vi è un sol nome che, applicato a Dio, Lo possa significare ‘quidditivamente’

Noi riceviamo, incessantemente – dice ancora de Lubac – una ragione superiore a noi; partecipiamo a una Luce che viene molto dall’alto. I nomi che tentiamo di dare a Dio, non sono che poveri balbettii della nostra ignoranza, ma Egli è altra cosa da essi.

"Non si deve dire: Dio non è buono; è incomprensibile; ma bisogna piuttosto dire: Dio è la Bontà stessa, ed è appunto tale Bontà che io non posso comprendere. Non si deve dire: Dio non è Padre, Egli è Abisso; ma si deve dire. Egli è un Abisso di Paternità."

Le due formule fondamentali che si possono adoperare per tentare di esprimere l’Ineffabilità di Dio sono: Egli è (è l’Esistere stesso); e Egli è colui che ama di essere.

  1. LA RICERCA DI DIO.

Questo capitolo verte sulla contraddizione fra l’umana sete di conoscenza di Dio e la sua strutturale impossibilità di soddisfarla. In particolare, de Lubac prende in considerazione il gigantesco sforzo speculativo profuso da S. Tommaso d’Aquino, la cui ricerca è tutta una ricerca di Dio. Ora, da un lato S.Tommaso sostiene che «l’intelligenza desidera naturalmente di conoscere Dio in se stesso», dall’altro che «Noi non conosciamo Dio, ma solo il rapporto che ogni cosa ha con Lui». Sublime contraddizione, che scaturisce dal fatto che nello sforzo di S. Tommaso confluiscono le qualità del mistico e quelle del filosofo: due diverse maniere (ma provenienti dall’unità dello spirito!) per accostarsi al mistero di Dio.

S. Tommaso si è sforzato di stabilire il desiderio di "vedere" Dio per via del tutto razionale, argomentando che la ragione umana non è soddisfatta allorché giunge a conoscere un fenomeno senza conoscerne la causa. Da qui un moto incessante, un’inquietudine perenne che la sospinge a risalire da una causa all’altra, fino alla Causa suprema da cui ogni cosa deriva e che spiega il tutto, unificandolo.

"Un tale ragionamento è solido. Ma tuttavia può provare tutto quello che doveva provare? Il suo fine è, formalmente, il fine che si voleva raggiungere? L’intelligenza, che vuol comprendere l’universo, non può desistere dal cercare fino a quando non abbia incontrato la causa prima, e si può dunque dire a buon diritto che in essa v’è un desiderio congenito di conoscere questa causa. Ma da ciò a dire, come effettivamente San Tommaso dice, che essa desidera di conoscerla, non più solamente come causa degli effetti che aspira a comprendere – come il propter quid universale – ma nella sua essenza, in se stessa, senza più considerarne gli effetti, indipendentemente dai rapporti che tutto il resto ha con Essa, non ci corre un abisso?

"Indubbiamente, lo slancio mistico supera questo abisso d’un balzo. Nell’Unificante c’è l’Uno che egli discerne, e incontrando l’Unificante è all’Uno che egli aderisce.

"Ma si può dire che la sua forza gli venga dal principio che aveva messo in moto l’intelligenza alla ricerca della ‘causa delle cause’? Si può dire che questo slancio mistico seguendo semplicemente il moto della ragione vada solo più lontano nella medesima linea? Non conviene piuttosto riconoscere che, sotto il ragionamento del filosofo, si celi una dialettica anagogica il cui movente è ben altro che il desiderio generale di sapere?

"San Tommaso sembra così fallire nel suo tentativo di stabilire una continuità tra filosofia e mistica, cioè tra il dinamismo dell’intelligenza e il desiderio dello spirito. La dottrina del ‘desiderio naturale di vedere Dio’ è centrale nel suo pensiero: egli non è riuscito a unificarlo pienamente.

"Nessun altro vi riuscirebbe. Infatti ,se lo si prende a rigor di termini, il tentativo è senza dubbio impossibile. Lo slancio mistico non prolunga precisamente la ricerca metafisica, non la duplica e non la sostituisce, sebbene possa animarla e, per contrapposto, trovar in essa uno stimolante. Altra è la sua radice, altro il suo fine e parimenti diverso è il suo processo elementare. (…)

"Riconosciamo tuttavia che nella distinzione stabilita all’inizio entra qualche cosa di artificiale. Per quanto fondata, essa pone il ‘filosofo’ e il ‘mistico’ come due esseri di ragione, emette a parte due funzioni dello spirito. Ora, se è vero che le funzioni dello spirito sono diverse, non possiamo nondimeno dimenticare che lo spirito è un tutto unico.(…) La costruzione dell’oggetto intelligibile non va senza ‘nostalgia dell’Essere’. Averlo capito costituisce la grandezza di San Tommaso."

Ma se Dio è, nella sua essenza, inaccessibile allo spirito umano, noi qui sulla terra possiamo cogliere un fugace balenio della sua Luce sfolgorante: la presenza dei santi.

La seconda parte del capitolo è costituita da una serie di riflessioni brevi, intense, folgoranti, tendenti all’aforisma, talvolta di una bellezza scultorea, nella miglior tradizione di Montaigne, Pascal, perfino di Nietzsche (che viene citato). Ne scegliamo alcune, con l’intento di rendere il ritmo volutamente discontinuo, spezzato, quasi balbettante proprio di chi sa di tentare un’impresa impossibile: quella di dire l’Indicibile.

"Attraverso la muraglia più spessa del carcere più triste basta la stretta fessura d’una feritoia per attestare che c’è il sole. Lo stesso è de mondo ora opaco e pesante: basta l’incontro furtivo di un santo per attestare Dio."(…)

"Il santo non è un ideale già foggiato in noi che troviamo alla fine realizzato e vissuto, né la perfezione del tipo umano – o sovrumano – finalmente incarnato nell’uomo. La meraviglia è di un altro ordine. È una vita nuova, una sfera di esistenza che ci viene rivelata all’improvviso, non solo con profondità inaspettate, ma con risonanze insolite. È come una nuova ‘patria’ che sollecita il nostro cuore, una patria prima ignorata da noi, ma subito percepita come la più antica e la più vera. (…)

"Mentre il mistico solitario si crede identico al Principio dell’Essere, e così moltiplica all’infinito la sua solitudine, il credente si urta con l’Altro che lo rovescia e che, dopo la lotta, si unirà a lui per amore. (…)

"Per alcuni Dio è Colui che permette di dormire, è la parola rassicuratrice che dispensa da ogni ricerca. Per altri Egli è Colui che strappa dalla ‘falsa pace’ in cui, secondo Pascal, il mondo viveva prima di Cristo.(…)

"L’Inferno è opera dell’uomo, dell’uomo che si rifiuta e si vincola e al quale l’Amore diviene intollerabile. (…)

"Lo slancio mistico non è un lusso. Senza di esso la vita morale rischia di non essere altro che una rimozione, l’ascesa una aridità, la docilità un sonno, la pratica della religione un’abitudine, un’ostentazione o una paura. (…)

"Il vero problema non è di ‘cercare Dio’, poiché vi sono maniere di cercarlo che sono provocazioni: ogni ricerca in cui l’uomo si attribuisce il primo piano non è già una provocazione? Il vero problema sta nel mettersi in disposizioni tali che si possa sperare di trovarLo, senza dover, per così dire, neanche cercarLo. Bisogna giungere a comprendere che queste disposizioni stesse non possono venire che da Lui. Infatti è Lui che ci cerca e che, alla Sua ora, ci si manifesterà. (…)

"Talvolta noi crediamo di cercare Dio. Invece è sempre Dio che ci cerca, e spesso Egli si fa trovare da chi non lo cercava. (…)

"Attendere Dio è possederlo."

E ancora due citazioni, bellissime, la prima di un filosofo contemporaneo, la seconda di un grande mistico rinascimentale, come perle splendenti in una collana di squisita fattura:

«Quando sembra di toccare Dio, o quando ci si accorge che Egli è passato in noi, attraverso le nostre chimere e le nostre miserie, si resta spaventati» (M. Blondel).

«Il non poter raggiungerLo è la nostra scoperta; il fallimento stesso il nostro successo» (M. Eckhart).

  1. L’ATTUALITÀ DI DIO.

L’ultimo capitolo è dedicato a una riflessione sul ruolo di Dio nella società contemporanea, materialista e secolarizzata, che si crede emancipata da ogni residuo di trascendenza e pronta a edificare la propria autosufficienza, accettando in pieno la sfida dell’esistenza e deciso a bastare a sé stesso, essere della Terra che guarda alla Terra.

Anche in esso la scrittura procede per squarci e lampi, sempre più disarticolati e scabri, sempre più incalzanti. Sarebbe fatica vana, e tradirebbe – secondo noi – l’intenzione dell’Autore, quella di delinearne un sommario. È molto meglio trascegliere le frasi più intense, i brani più illuminanti, anche per cercare di ricrearne l’atmosfera, palpitante e visionaria ma anche percorsa da un fremito di gioiosa gratitudine per l’inestirpabile presenza di Dio, che Egli stesso ci ha piantato in cuore "come una ferita, quale segno della nostra grandezza".

"«Dio è morto!». Così ci sembra… ma presto« lo ritroveremo vivo»alla prima svolta della via. Egli si imporrà di nuovo, al di là di tutto ciò che avremo lasciato lungo la strada, di tutto ciò che non era che viatico per una tappa del nostro cammino, rifugio provvisorio prima di ripartire. E se abbiamo progredito davvero, lo ritroveremo cresciuto pure Lui. Ma sarà il medesimo Dio. Deus semper major. E cammineremo di nuovo nella sua luce…

"Dio non è mai indietro, tra i sorpassati. In qualunque direzione i nostri passi ci portino, eccolo erigersi dinanzi a noi, ecco che ci chiama, eccolo che ci viene incontro…(…)

"Negli ultimi secoli abbiamo assistito a ‘l’evaporazione razionalista di Dio. Ma era il Dio dei razionalisti. Soffiate e dissipate questo vapore. Non ne saremo turbati, anzi respireremo meglio. Il Dio vero, quello che non cessiamo di adorare, è altrove, è dovunque credete di raggiungerlo, è dovunque non lo raggiungete. (…)

"Orrore di un modo senza Dio, senza stabilità né mistero, che crede di esser chiaro a sé stesso, e va inabissandosi in un divenire senza significato e senza via di uscita, dum nil perenne cogitat! Disperazione atroce di una società sedotta dagli idoli temporali, e in cui muore soffocata la mens avida aeternitatis!

"Io paragono Nietzsche a Gesù. Gesù fu ucciso dagli uomini per aver annunciato loro il Padre che è nei cieli. Nietzsche si è ucciso da sé, la sua intelligenza si è sommersa nella notte per aver proclamato, accettato, voluto la ‘morte di Dio’.

Dal giorno di questa decisione, nonostante la sua persuasione volontaria di possedere la ‘Gaia Scienza’, l’uomo deve confessare, con Nietzsche, che questa ‘scienza’ lo agghiaccia di terrore, e resta in preda a un ‘sacro spavento’.(…)

"Io so quel che ho visto, o almeno intravisto, quando ho incontrato un santo. Ed ecco ora quelli che dicono che ormai fanno a meno di Dio e si trovano meglio. Aspetto che essi mi mostrino un nuovo tipo di santo.(…)

"Nell’uomo vi è una ferita, segno spesso segreto, ma che non si cancella, della sua grandezza."

Ancora una riflessione sulla eclisse di Dio nel mondo contemporaneo, annunziata orgogliosamente da Nietzsche e da Ivan Karamazov:

"Per la prima volta, nella nostra epoca, è sorta la persuasione collettiva, potente come un maremoto, che l’ora dell’uomo è infine suonata, l’ora dell’essere finito che basta a se stesso nella sua immanenza e nella sua finitezza, e che, nella sua immanenza e nella sua finitezza, si arroga tutte le prerogative di Dio. Follia di Kirilov, follia di Zarathustra, e follia di Feuerbach! Follia dell’«umanista» e follia del «superuomo». L’uomo, è vero, eccelle nel trasformare in ogni specie di sogni le condizioni attuali della sua miseria fisiologica o sociale. Vi è certamente molto di vero nelle psicanalisi opposte di un Marx o d’un Freud, per non citare che questi due grandi esempi paralleli. Ve n’è pure nell’idea del Comte di una prima età ‘teologica’ e in tante riflessioni analoghe dei nostri filosofi e storici. Uno dei segni della maturità di spirito è certamente quello di rinunciare alle false trascendenze, a tutte le vegetazioni parassite che esauriscono la linfa senza dare frutto sostanzioso."

Però attenzione, avverte de Lubac:la critica di Comte, Feuerbach, Marx e Freud può anche essere tranquillamente rovesciata.

"Infatti vi è pure un’illusione dell’assoluto, ma vi è ugualmente un’illusione del relativo; vi è un’illusione dell’eterno, ma vi è ugualmente un’illusione di ciò che è storico; un’illusione della trascendenza, ma pure un’illusione dell’immanenza; un’illusione mistica, ma anche un’illusione positiva. Significa che, da un lato, misconoscendo il relativo o ciò che è storico, è vero che non si ottiene che uno pseudo-assoluto, uno pseudo-eterno, una liberazione in sogno; ma, d’0altraparte, e non meno indubbiamente, la misconoscenza dell’eterno e dell’eterno non lascia in mano che uno pseudo-storico, uno pseudo-temporale, una via che non conduce alla liberazione. In breve la ‘mistificazione’ non è a senso unico.(…)

"L’idea di Dio è inestirpabile, perché in fondo è la presenza stessa di Dio nell’uomo. Sbarazzarsi di questa presenza non è possibile. L’ateo non è colui che vi sarebbe riuscito. È sicuramente l’idolatra che, come diceva Origene, «riferisce a qualsiasi cosa piuttosto che a Dio la sua nozione indistruttibile di Dio».

"Se le civiltà industriali sono naturalmente atee le civiltà agricole sono pure naturalmente pagane. La fede nel vero Dio è sempre una vittoria.

"Divenendo ognor più profane, le nostre civiltà moderne ci espongono a perdere Dio. Forse ci permetteranno di ritrovarLo a maggiore profondità, e tale riscoperta potrebbe preparare sintesi nuove, senza che debbano mai più risorgere le confusioni primitive."

Vogliamo concludere questa riflessione sulla ricerca di Dio in Henri de Lubac riportando una sua magnifica intuizione, tanto più di attualità oggi che – a quasi vent’anni dalla morte del grande gesuita – sempre più vediamo gli idoli di un consumismo senza freni né pudore e di uno scientismo ubriacato dai suoi successi, reali o apparenti, ergersi con arroganza sui troni ormai abbandonati dalle vecchie divinità. Essi vogliono imporci delle forme di tirannia che, per il fatto di essere sottilmente mascherate e abbellite, non per questo risultano meno gravose e umilianti da parte dell’uomo, questo novello Prometeo che credeva di essersi affrancato, con le sue sole forze, da ogni forma di sottomissione e da ogni sudditanza nei confronti di ciò che sta al fuori di lui e che la sua ragione non può comprendere né la sua volontà è disposta a riconoscere.

"Vi sono divinità tiranne. Vi è un Dio liberatore.

"Oggi, gli dei tiranni generalmente non assumono più il nome di divinità. Preferiscono pseudonimi, ma la loro tirannia non è minore.

"Respingere la fede in Dio, come una ‘teocrazia’ intollerabile? Ma ogni giorno che passa è una prova che ciò è a vantaggio di una ‘mitocrazia’ temibile. Ecco salire verso il cielo, che voi avete svuotato, l’armata dei miti: miti più costrittivi della fame, più dispotici di qualsiasi despota…

"Non habebis deos alienos coram Me. Questo è per sempre il ‘precetto della libertà’. Questi dei stranieri, falsi, mitici, sono dei alienatori mostri divoratori come le passioni umane, di cui tutti sono ipostasi.

"Voi avete fatto del vero Dio un loro simile, e avete creduto di respingerli tutti ugualmente, con un medesimo gesto. Ma questo gesto superbo derivava da un controsenso. E non avete visto che invece tra essi e Lui bisognava scegliere. Le divinità oscure, che il Sole di Giustizia metteva in fuga, alla sua aurora, e che teneva a distanza, tornano subito sotto altri nomi.

"Nomi antichi o nomi nuovi, nomi di divinità o pseudonimi, sotto essi si nasconde sempre qualche tratto dell’uomo che in essi si adora e che si rende così suo proprio schiavo.

"Fin dove bisognerà discendere in questa schiavitù, perché alla fine l’umanità intera gridi con una sola voce: «Io tendo le braccia al mio Liberatore»!"

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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