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Il mito della Terra Australe

Sulla scorta di antiche teorie geofisiche risalenti fino a Tolomeo, i geografi del Rinascimento sono convinti che esista, nell’emisfero australe, un vasto continente la cui massa farebbe da necessario "contrappeso" meccanico alle terre emerse di quello boreale. Pertanto, dopo i viaggi di Bartolomeo Diaz e di Cristoforo Colombo, che hanno dischiuso all’Europa le immensità oceaniche tanto dell’Occidente che dell’Oriente, cartografi impazienti cominciano a rappresentare la supposta "Terra Australis Necdum Cognita" (si noti quel "necdum": non ancora!) con maggiore o minore abbondanza di particolari. Così il mappamondo di Oronzio Fineo del 1531; così quello di Giacomo Gastaldi del 1550; quello di Abramo Ortelio del 1570; infine, quello di Gerardo Mercatore del 1589. Strano a dirsi (e la cosa ha stuzzicato la fantasia di alcuni studiosi, per non dire dell’"Antartide" raffigurata nella carta dell’ammiraglio turco Piri Reis, ai primi del ‘500), talvolta queste rappresentazioni si avvicinano abbastanza alla forma e alle dimensioni del continente antartico, così come lo conosciamo oggi. In genere, però, lo raffigurano molto più esteso, tanto da raggiungere – con alcune penisole – le medie latitudini; cosa che autorizza a pensarlo abitato da popoli evoluti – e, possibilmente, ricchi. Però ci vogliono delle conferme; gli avvistamenti occasionali di isole e promontori non sono sufficienti: occorre organizzare delle vere e proprie spedizioni alla ricerca della Terra Australe.

Nel 1520 Magellano, traversando lo Stretto che porta il suo nome, ha visto – sulla sua sinistra – una vasta terra ove gl’indigeni, di notte, accendono grandi fuochi: Non sarebbe quella "Terra el Fuoco" una delle appendici settentrionali del misterioso continente? Però Francis Drake nel 1578, Schouten e Le Maire nel 1616 avvistano e doppiano il Capo Horn: dunque la Terra del Fuoco è un "semplice" arcipelago e non fa parte della Terra Australe. Ma che dire di quella "Giava la Grande" di cui si favoleggia negli ambienti della marineria olandese, e che sorgerebbe a sud o sud-est dell’Insulindia? Pare che il portoghese Godinho de Eredia abbia intravisto una vasta terra, in quella zona, nel 1601; nel 1616 Dirk Hartogszoon tocca l’estremità occidentale dell’Australia e la crede una parte della Terra Australe. Ma Abel Tasman, nel 1642-43, si spinge fino alla Gran Baia Australiana, all’isola che prenderà poi il suo nome e, infine, alla Nuova Zelanda: dunque, nemmeno l’Australia fa parte del continente australe. Dove bisognerà cercarlo, allora? Senza dubbio, nel centro dell’Oceano Pacifico: quell’immenso Mare del Sud che Vasco Nunez de Balboa ha visto per la prima volta, da una collina del Darién, nel 1513, e che i venti alisei rendono possibile esplorare con relativa facilità, partendo dalla costa occidentale. La mano passa quindi agli Spagnoli, saldamenti insediati tanto in Messico che in Perù: da Acapulco e dal Callao parte una serie di audaci spedizioni, il cui scopo è raggiungere – una buona volta – l’elusivo continente e strappargli le sue supposte ricchezze.

Nel 15426 Alvaro de Saavedra, che aveva a ccompagnato in Messico il suo parente Hernan Cortés, riceve l’incarico di svelare l’arcano. Egli salpa verso Occidente, raggiunge la Nuova Guinea (un’appendice della Terra Australe?), poi le Molucche; nel viaggio di ritorno, una tempesta lo trascina a picco con l’intero equipaggio. Tanto non basta a scoraggiare altri animosi, stimolati anche dal miraggio dell’oro: e nel 1542 Ruy Lopes de Villalobos ripete l’impresa. Scopre le isole Caroline, poi giunge nell’arcipelago che Magellano aveva chiamato di San Lazzaro, ribattezzandolo Filippine in onore di Filippo II di Spagna. Nel 1565, sempre partendo dal Messico, Miguel Lopez de Legaspi replica il viaggio e inizia la conquista militare di quest’ultimo arcipelago; scopre in seguitoi le Marianne e – cosa più importante di tutte – mettendosi sulla via del ritorno più a nord dei suoi predecessori, scopre dei venti favorevoli che gli permettono di superare l’ostacolo degli alisei. Intanto, nel Pacifico sud-occidentale, si segnala il pilota Juan Fernandez, che scopre le isole oggi chiamate col suo nome nel 1563, e l’arcipelago Desventuradas nel 1574. Nel 1576 egli salpa ancora, questa volta per un viaggio più audace: dirà d’aver raggiunto, dopo un lungo viaggio verso Occidente, una vasta terra solcata da grandi fiumi e abitata da indigeni civili, vestiti di stoffa. Qualcuno gli crede, ma è probabile che quella terra sia esistita solo nella sua fervida fantasia: in ogni caso, è quasi certo che egli non può aver raggiunto la Nuova Zelanda (senza contare che i Maori non vestivano abiti di stoffa). Sempre nel 1567 salpa dal Callao un’altra spedizione, quella di Alvaro Mendana de Neira, che dal viceré peruviano Lope Garcia de Castro ha sollecitato e ottenuto importanti finanziamenti. Dopo aver avvistato le Isole Ellice, Mendana giunge alle Isole Salomone, così chiamate perché gli Spagnoli sono certissimi di trovarvi molto oro: quello stesso che un tempo lontano era servito per realizzare le colonne del Tempio di Gerusalemme. Ma il metallo prezioso non si trova né a Isabel, né a Malaita, né a Guadalcanal; gl’indigeni, trattati assai male, sono ostili: non resta che tornare indietro. Sfruttando i venti favorevoli scoperti dal Legaspi, Mendana raggiunge la California e, costeggiando, scende fino a rientrare in Perù. Ma egli è un uomo tenace: sconfitto per il momento, per vent’anni sogna la rivincita. Nel 1595, con ben quattro navi, un esperto pilota – Pedro de Quiros – e la moglie sposata nel frattempo, Isabel de Barrebos, salpa ancora una volta verso Ovest, per trovare il mitico continente e fondarvi una colonia. Tuttavia non riesce a ritrovare, come vorrebbe, le Salomone (il motivo è che ha seguito, senza avvedersene, una rotta più meridionale del primo viaggio) e giunge, invece, alle isole Santa Cruz.. Anche questa volta, però, la spedizione è sfortunata; dopo numerose traversie, Mendana muore di stenti; la colonia si reimbarca e l’abile Quiros riesce a portare in salvo i superstiti a Manila.

Il colpo di grazia per il mito della Terra Australe giunge coi viaggi di James Cook. Dal 1772 al 1775 egli circumnaviga il globo alle alte latitudini australi e si spinge fino a 71°10′, cioè – primo uomo nella storia -oltre il Circolo Polare Antartico; e non trova che ghiacci e nebbie. "Se anche una terra dovesse estendersi ancora più a Sud – scrive nella sua relazione all’Ammiragliato britannico – oso affermare che il mondo civile non ne trarrebbe alcun vantaggio". Per alcuni anni giungono ancora notizie sporadiche di inaspettati avvistamenti di terre: ma si tratta di piccole isole – come Bouvet, scoperta nel 1739 dall’omonimo navigatore francese; oppure di isole evanescenti, che scompaiono più o meno rapidamente: tali le isole Pepys, Saxemberg e Auroras nell’Atlantico meridionale; Emerald, Nimrod e Dougherty nel Pacifico. Nel 1722 il navigatore olandese Jakob Roggeween, a bordo dell’Arena, la domenica di pasqua giunge in vista di un’isola che alcuni grandi monumenti di pietra rendono enigmatica, e la battezza col nome del giorno in cui l’ha scoperta. Il mito della terra Australe è terminato, incomincia il mito dell’isola di Pasqua.

BIBLIOGRAFIA

Danielli, G:, L’esplorazione del grande Oceano, Torino, 1965; F. Lamendola, Mendana de Neira alla scoperta della Terra Australe, in Il Polo, marzo 1990; id., Terra Australis Incognita, in Il Polo, n. 3, 1989; id., Il mistero delle Isole Auroras, in il Polo, n. 3, 2004; Newby, E. (a cura di), Il grande libro delle esplorazioni, Milano, 1976; Solmi, A., Gli esploratori del Pacifico, Novara, 1985; Spate, O. H. K., Storia del Pacifico: il lago spagnolo, Torino, 1987; Sprague de Camp. L.-Ley,W., Le terre leggendarie, Milano, 1962; Thévenin, R., I paesi leggendari, Milano, 1960; Zavatti, S., Dizionario degli esploratori e delle scoperte geografiche, Milano, 1976; id., I viaggi del capitano James Cook, Milano, 1960; id., L’esplorazione dell’Antartide, Milano, 1974.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by NastyaSensei from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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