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3 Giugno 2006Questo articolo è un estratto dal Capitolo Sesto del libro "Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d. C.", Lalli editore, Poggibonsi (Siena), 1984, pp. 153-194.
(N. B. Il libro è da tempo esaurito. Per chi fosse eventualmente interessato, è possibile rivolgersi all’Associazione Eco-Filosofica).
- [INVASIONE FLAVIANA DELL’ITALIA.**
Al momento della loro adesione al movimento flaviano, le legioni danubiane non si trovavano più ad Aquileia, ma erano tornate indietro, nei loro rispettivi quartieri abituali. I loro capi avevano tenuto una conferenza generale a Poetovio in Pannonia, similmente a quanto avevano fatto i generali d’Oriente a Berito, per concordare la condotta strategica da assumere. Molti di essi peroravano la strategia dell’attesa, suggerendo che Muciano stava arrivando da Bisanzio, e che sarebbe stato opportuno attenderlo, per iniziare una guerra con tutte le forze riunite. Facevano notare inoltre che, con Vespasiano padrone dell’Egitto, Vitellio si sarebbe trovato presto in difficoltà, sia per il rifornimento alimentare di Roma e della Penisola, sia per il pagamento del soldo alle truppe. E quale più desiderabile prospettiva, che quella di ridurre il partito nemico alla resa, senza provocare altro spargimento di sangue e senza attirare su Vespasiano l’odiosità di nuove devastazioni belliche in Italia, dopo quelle — crudelissime — della guerra civile fra Otone e Vitellio?
A questi prudenti consigli, Antonio Primo si oppose risolutamente, sostenuto da uomini altrettanto temerari e spregiudicati, quali Arrio Varo e Cornelio Fusco. Secondo la sua tesi, attendere sarebbe stato più pericoloso che attaccare subito: non lavorava infatti il tempo a favore di Vitellio, almeno quanto non facesse a favore di Vespasiano? Non avrebbe consentito all’avversario di ricevere nuovi, imponenti rinforzi dai paesi transalpini, dalla Spagna, dalla Gallia, dalla Britannia e soprattutto dalla Germania, donde il movimento vitelliano aveva avuto principio? Non esponeva le indifese coste dell’Acaia agli attacchi della poderosa flotta vitelliana? E, infine, non avrebbe dato agio a Cecina e Valente di riorganizzare le loro forze, oggi guaste dall’indisciplina e dai disagi del clima, domani nuovamente formidabili, e anche superiori di numero?
Queste argomentazioni, esposte con vigore e convinzione, per quanto audaci finirono per strappare il consenso dell’assemblea e, soprattutto, dei soldati, più che mai impazienti di battersi. Di attendere l’arrivo di Muciano non si fece più parola; le cinque legioni danubiane si raccolsero e iniziarono celermente la marcia verso l’Italia. Superarono Emona, valicarono senza trovare ostacoli la catena delle Alpi Giulie, raggiunsero e oltrepassarono Aquileia. Le città venete orientali — Concordia Sagittaria, Opitergium, Altinum — accolsero a braccia aperte e con manifestazioni di giubilo le truppe di Antonio Primo. Valicato il Sile, esse scesero lungo una duplice direttrice d’invasione, la via Popilia e la via Postumia, e sempre senza combattere arrivarono fino a Padova. Ad Ateste, ai piedi dei Colli Euganei, seppero che non lungi di lì tre coorti vitelliane e una unità di cavalleria erano impegnate nella costruzione di un ponte di barche sul fiume Tartaro. Le truppe di Antonio Primo, mossesi velocemente, piombarono sul nemico cogliendolo di sorpresa, e gl’inflissero la perdita di numerosi morti e prigionieri; tuttavia, la loro avanzata subì una sosta forzata perché i vitelliani avevano fatto in tempo ad interrompere il ponte.
Queste prime operazioni avevano visti impegnati, come al solito, solo reparti scelti delle legioni danubiane, armati alla leggera. Il grosso delle legioni VII "Galbiana" e XIII "Gemina" arrivò a Padova solo dopo il combattimento sul fiume Tartaro e vi si accampò alcuni giorni, per riorganizzarsi dopo la lunga marcia da Poetovio. La sosta, come al solito,venne turbata dagli abituali fenomeni di inisciplina, così caratteristici di questa guerra. Giova inoltre ricordare che l’esercito di Antonio Primo era affiancato da unità ausiliarie di barbari Iazigi, e perfino dal nipote del re dei Quadi e dal figlio del re dei Suebi — arruolati, gli ultimi specialmente, più che altro in pegno di neutralità da parte dei rispettivi popoli, durante la forzata assenza delle legioni dalla frontiera danubiana. Era dunque, l’esercito di Primo, come quelli calati in Italia sotto il comando di Cecina e Valente, un esercito misto, semibarbarico, che non provava alcun sentimento di riverenza o particolare soggezione per le contrade civilissime della Penisola, in cui stava avanzando. Gli stessi legionari che lo componevano, in conseguenza del fatto che gli eserciti limitanei del I secolo cominciavano a trasformarsi in vere armate stanziali, dovevano presentare un aspetto ben poco "romano" nel senso tradizionale della parola. Il loro successivo comportamento a Cremona e, poi, nella stessa Roma, fa fede del basso livello di "romanizzazione" di queste truppe, fra le quali l’elemento italico doveva essere rappresentato in ben modesta misura. Anche questa volta, dunque, l’ingresso di un esercito in armi nella Penisola dovette assumere i caratteri di una vera e propria invasione barbarica, e fu solo la circostanza che tra Aquileia e Verona la popolazione si mostrasse favorevole a Vespasiano che ritardò lo scoppio delle solite atrocità. Ma oltre Verona gli invasori gettarono la maschera e mostrarono il loro vero volto di brutali saccheggiatori, interessati più a sfogare il loro risentimento di provinciali e di semibarbari contro le ricche contrade italiche, che a combattere per un preciso ideale politico.
La conquista della regione veneta occidentale fu completata dai flaviani con un ulteriore balzo fino a Vicenza e a Verona, patria di Cecina la prima, ottima base d’operazioni e piazzaforte di prim’ordine la seconda, non solo per il controllo della via Postumia, ma anche per sbarrare la valle dell’Adige, da cui potevano eventualmente scendere in Italia rinforzi dalle Germanie per il nemico. Fino a questo punto il grosso delle forze vitelliane non era minimamente intervenuto per contrastare l’ingresso di Antonio Primo e la serie dei suoi successi nella Venezia. Per esse, come già per le forze di Otone sette mesi prima, era adesso di vitale importanza mantenere almeno la linea del fiume Po, ben guardata da alcune robuste fortezze, e dalla quale era possibile muovere al contrattacco contro le forze nemiche, tuttora inferiori.
La situazione era, dunque, la seguente. Presso Verona stava accampato Antonio Primo con tre sole legioni al completo: la VII "Galbiana", la XIII "Gemina" e la VII "Claudiana", or ora arrivata. L’esercito vitelliano, assente tuttora Fabio Valente, era diviso in due tronconi: uno, a Cremona, forte delle legioni I "Italica" e XXI "Rapax" e alcune ali di cavalleria; l’altro nei pressi di Ostiglia, in un campo costruito nelle vicinanze del Foro Alieno, comandato da Cecina in persona e costituito da tutte le altre forze giunte da Roma.
Vi fu una scaramuccia iniziale; dall’una e dall’altra parte il morale era molto elevato, perché i legionari germanici, attaccatissimi a Vitellio, orgogliosi della propria fama e al corrente dell’inferiorità numerica degli avversari, non erano certo meno ottimisti dei flaviani circa l’esito finale della lotta. Quesi ultimi poi, proprio in presenza del nemico, si abbandonavano ogni giorno di più all’indisciplina e all’anarchia. Le campagne tutto intorno erano terrorizzate dal comportamento sfrenato delle legioni danubiane, e lo stesso accampamento era sconvolto da continue agitazioni. Un giorno lo stesso Antonio Primo dovette sguainare la spada per impedire il linciaggio di Tampio Flaviano, uno dei capi flaviani, sospettato dai soldati di intesa col nemico; e, per un istante, ci fu da temere che venisse ucciso. Comunque, alla fine, sia Flaviano sia il legato Aponio Saturnino dovettero fuggire sotto minaccia di morte delle truppe, e questo, indirettamente, favorì la posizione di Primo, che si ritrovò comandante unico e indiscusso. Egli immediatamente avviò delle trattative con Cecina, invitandolo a desistere dalla lotta e a fermare le proprie truppe, e presentandogli la causa di Vespasiano come inevitabilmente vittoriosa.
Tali approcci trovarono ottima accoglienza da parte del generale vitelliano. Già prima di uscir da Roma egli aveva avuto dei segreti abboccamenti con il prefetto Sabino, fratello di Vespasiano; inoltre nutriva una malcelata invidia nei confronti di Valente. Resta solo da aggiungere che, prima di raggiungere l’esercito sul Po (al quale aveva falsamente detto di assumere, d’accordo con Valente, l’intero comando) aveva compiuto una sosta poco chiara a Ravenna. Colà pare si fosse incontrato con Lucilio Basso, prefetto d’ entrambe le flotte di Ravenna e di Miseno, il quale — come lui — nutriva sospetti e ingiustificati risentimenti nei confronti dell’imperatore. L’oggetto dei loro colloqui segreti può solo essere oggetto di ipotesi; sta di fatto che poco dopo vi fu una insurrezione tra i marinai della flotta, che giurarono fedeltà a Vespasiano e rovesciarono le immagini di Vitellio e poi, in mezzo a una spaventosa confusione, condussero le navi nel porto di Adria.
La notizia dell’ammutinamento della flotta ravennate giunse a Cecina mentre si trovava nel campo di Foro Alieno, in faccia al nemico. Senza por tempo in mezzo, egli decise di giocare il tutto per tutto: raccolti i centurioni, disse loro che la causa di Vitellio era perduta; che, dopo la defezione della flotta, essi rischiavano di restar privi di vettovaglie, e concluse facendo rovesciare le effigi dell’imperatore e invitandoli a passare, con lui, dalla parte di Vespasiano. Ma il traditore aveva fatto male i propri calcoli. Quando la notizia si sparse per il campo, i soldati inferociti insorsero contro di lui, lo misero in catene e decisero che mai avrebbero abbandonato la lotta così vergognosamente. Essi erano sinceramente affezionati a Vitellio; inoltre non si sentivano affatto battuti e non avevano alcuna intenzione di cedere le armi a un nemico inferiore di numero, e che per di più disprezzavano. Si scelsero quindi due nuovi comandanti, purtroppo in nulla simili a Cecina o Valente in quanto ad abilità strategica; rialzarono le statue di Vitellio e, massacrati alcuni disgraziati marinai, capitati lì per caso e ignari del tradimento della flotta, levarono il campo dirigendosi su Cremona.
Era loro intenzione ricongiungersi con le altre due agguerrite legioni colà accampate e col resto della cavalleria, e dare quindi battaglia al nemico incautamente avanzatosi fin là. Ma Antonio Primo fu subito informato dei loro movimenti e, a sua volta, si mise in marcia a tappe forzate, per tagliare la strada al primo esercito vitelliano, e impedirgli il congiungimento col secondo. Ne nacque la famosa "corsa su Cremona", che i flaviani — più ordinati e veloci — vinsero, superando la distanza fra Verona e Bedriaco in soli due giorni, e venendo a cadere sulla Postumia, proprio davanti alla colonna nemica (fine ottobre del 69).
2. LA SECONDA BATTAGLIA DI BEDRIACO.
Un caso singolare volle che le sorti della guerra fra Vitellio e Vespasiano fossero decise sul medesimo campo di battaglia che aveva visto lo scontro risolutivo fra Vitellio e Otone. Il mattino del 27 ottobre gli esploratori di Antonio Primo riferirono al loro comandante che l’esercito vitelliano di Cremona era in marcia e si stava avvicinando. Poichè l’avanguardia nemica era descritta come debole e avanzava palesemente senza sospetti, l’audace Arrio Varo con la cavalleria volle attaccarla senza nemmeno attendere l’autorizzazione di Primo. Com’era da immaginarsi, i vitelliani, colti di sorpresa, dapprima si sbandarono, ma la cavalleria flaviana spintasi troppo avanti andò a incappare nel grosso della formazione nemica, e fu volta essa stessa in fuga precipitosa. Così la battaglia, iniziatasi sfavorevolmente per i flaviani a causa della sconsideratezza di Varo, stava già per trasformarsi in una catastrofe, poiché la cavalleria in preda al panico, rifluendo in disordine, fu sul punto di scompaginare completamente le legioni che tenevano dietro. Come se non bastasse, mentre i vitelliani procedevano per la Postumia in formazione compatta, le truppe danubiane si trovavano ancora sparpagliate in una vasta zona all’intorno, moltre di esse impegnate in un disordinato saccheggio della regione.
Fu allora che balzò in evidenza Antonio Primo con tutto il suo sangue freddo e la sua temerarietà. Mandate delle staffette a richiamare i reparti dispersi, si gettò nel folto della mischia, rianimando con l’esempio le truppe vacillanti, arrestando a mano armata i fuggiaschi, richiamandoli e impugnando personalmente un vessillo, dopo aver abbattuto il portinsegna che stava fuggendo. Il suo comportamento intrepido infuse nuovo coraggio tra i soldati, che serrarono le file e tornarono in linea con rinnovato ardore. I vitelliani, che ormai si stavano disunendo nella certezza della vittoria, non seppero resistere al contrattacco, e furono volti completamente in fuga.
Non vi fu però il tempo di sfruttare a fondo il successo, perché subito dopo, a quattro miglia da Cremona, i flaviani videro sopraggiungere le due legioni I "Italica" e XXI "Rapax" che avanzavano sulla Postumia in perfetto ordine di battaglia. Fu un momento critico: ma i flaviani, per nulla intimoriti, si raccolsero nuovamente e piombarono con tutto lo slancio della vittoria sui sopraggiunti. I vitelliani, che erano usciti dalla città dopo le prime notizie sullo scontro di cavalleria a loro favorevole, rimasero sgomenti per quell’attacco violentissimo e si trovarono stretti tra la fanteria di fronte e la cavalleria sul fianco. Infine, l’intervento degli ausiliari della Mesia diede loro il colpo decisivo, e li volse disordinatamente in fuga verso Cremona.
Antonio Primo aveva dunque già sostenuto due duri combattimenti nel giro di poche ore ed era uscito vittorioso da entrambi, però con l’esercito spossato e in vicinanza dell’accampamento nemico, ben protetto e appoggiato alle robuste mura di Cremona. I suoi soldati, come al solito, nonostante la stanchezza erano desiderosi di proseguire l’attacco e si illudevano di poter conquistare di slancio non solo il campo vitelliano ma la città stessa, e Primo dovette faticare non poco per trattenerli da quella nuova, sconsiderata audacia.
Fu proprio allora, quando già cominciavano ad allungarsi le ombre della sera, che sopraggiunse l’intero esercito vitelliano ch’era stato al comando di Cecina. Marciando a sud del Po, si era portato da Foro Alieno a Ostiglia e fin quasi a Cremona, coprendo cento miglia in quattro giorni. Entrambi gli eserciti erano stremati: l’uno per la battaglia, l’altro per la marcia; eppure non esitarono a gettarsi l’un contro l’altro con furia selvaggia. Il vantaggio del numero era dalla parte dei vitelliani: sei legioni al completo contro cinque, senza contare la I "Italica" e la XXI "Rapax" che s’erano ritirate a Cremona; ma ad essi difettava un comando unificato ed energico, mentre i flaviani erano condotti con ardimento eccezionale da Antonio Primo. Questi era stato informato del sopraggiungere dell’armata nemica solo all’ultimo momento, in tempo tuttavia per impartire le disposizioni per la nuova battaglia: fu una vera fortuna che, con la sua autorità, fosse riuscito a dissuadere i soldati dall’assalto del campo nemico, poiché in tal caso difficilmente, presi tra due fuochi, avrebbero potuto adesso evitare una disfatta. E fu del pari una fortuna che l’esercito di Ostiglia fosse giunto sul posto soltanto a sera: appena qualche ora prima, avrebbe certamente rovesciato le sorti della lotta davanti a Cremona. I soldati vitelliani che lo comandavano, informati della sconfitta toccata ai loro commilitoni, intendevano far pernottare l’esercito nerll’accampamento sotto la città, e attaccare battaglia l’indomani, con forze fresche e riposate. Ma quando, nell’oscurità crescente, i due eserciti avversari entrarono accidentalmente in contatto, essi mutarono i propri piani e ordinarono l’attacco generale.
Ancora una volta, in questa guerra civile venivano trascurate le più elementari regole della tattica, puntando invece entrambi gli eserciti sull’entusiasmo delle truppe, sempre impazienti di battersi. I vitelliani, del resto, s’illudevano di poter facilmente avere la meglio su di un nemico meno numeroso e anche più stanco di loro; ma presto si accorsero di aver commesso un grave errore di calcolo.
Dalle nove di sera del 27 al mattino del 28 ottobre si combattè senza tregua, con violenza inaudita, sui due lati della via Postumia. Era lo stesso terreno della battaglia di aprile, fitto di vigneti, intersecato da fossi e canali, disseminato di alberi da frutto e di siepi, reso ancor più surreale dall’oscurità della notte, ove era necessario scambiarsi la parola d’ordine per non colpire gli amici. Gli ausiliari barbari dell’una e dell’altra parte combatterono in prima fila, e con le loro pelli ferine e con le aste lunghissime conferivano un aspetto ancor più selvaggio alla scena.
Nella enorme confusione della battaglia notturna cominciò a delinearsi un certo vantaggio per i vitelliani. Una gigantesca balista apriva dei vuoti paurosi tra le file dei flaviani e più tremendi ne avrebbe fatti, se alcuni coraggiosi non l’avessero assalita e messa fuori uso a prezzo della vita. Finalmente spuntò la luna su quel tragico scenario, e la sua luce spettrale rinnovò la mischia con raddoppiato furore: ma il favore, questa volta, era dalla parte dei flaviani, perché la luce lunare, cadendo alle loro spalle, illuminava in pieno i vitelliani, mentre lasciava i loro avversari nel seno di una complice oscurità. Tuttavia le sorti della battaglia erano ancora sospese e, forse, i flaviani non sarebbero mai riusciti a spuntarla se, al sorgere del sole, i soldati della III legione "Gallica" non avessero salutato, secondo l’uso siriaco, la comparsa dell’astro. Il clamore rivolto a oriente fece nascere la voce, subito alimentata dall’astutissimo Primo, che l’esercito di Muciano stava sopraggiungendo. Questa semplice diceria bastò a decidere le sorti della giornata, riaccendendo un’estrema scintilla di vigore negli esausti flaviani e gettando il panico tra i loro nemici. I vitelliani tuttavia non cedettero di schianto, ma durante la notte il loro fronte si era enormemente allungato, sì che adesso non disponevano di riserve con cui manovrare in profondità, e, per giunta, le loro retrovie erano ingombre di carri e veicoli abbandonati alla rinfusa. Primo rinnovò allora l’attacco con forze concentrate, riuscì a sfondare la debole linea nemica e avanzò oltre velocemente, prima che i vitelliani riuscissero a ricostituirla.
Allora fu la rotta; una rotta così tragica e caotica, che vi si videro delle scene raccapriccianti. Un soldato della VII legione colpì a morte il proprio padre, che militava nella XXI "Rapax" e poi, riconosciutolo, gli si gettò sopra piangendo e invocando gli dèi. Infine l’intero esercito vitelliano, o ciò che di esso restava, trovò un momentaneo rifugio nell’accampamento fortificato davanti a Cremona.
3.LA DISTRUZIONE DI CREMONA.
In quel momento le sorti delle truppe flaviane si trovavano paurosamente sospese come su un filo di rasoio. Infatti, nonostante le tre vittorie consecutive, esse avevano ora di fronte le poderose fortificazioni di Cremona ed erano oltre modo spossate dalle marce, dai combattimenti e dalla mancanza di cibo e di riposo. Davanti c’erano i vitelliani, vinti ma non disfatti, solidamente trincerati e decisi ad una resistenza ad oltranza; dietro, l’aperta campagna, senza valli ove ristorarsi e senza difese ove proteggersi. Se si decideva di sospendere la lotta per far riposare le truppe e tornare all’attacco con forze fresche, sarebbe stato necessario tornare indietro fino a Bedriaco, dando modo al nemico di riorganizzarsi e sprecando, così, i principali frutti della vittoria. Le truppe erano esauste, eppure chiedevano di battersi nuovamente; del resto, non erano esausti anche i vitelliani?
Fu così che, al mattino del 28 ottobre, Antonio Primo accondiscese a proseguire l’azione senza concedersi alcuna sosta, e condusse le sue cinque legioni in un assalto concentrico contro l’accampamento nemico. Era un’altra pazzia; ma ormai, giunti a quel punto, dopo aver vinto grazie a una serie di follie tattiche, tanto valeva giocare la carta dell’audacia sino in fondo. Si riaccese una lotta furibonda sulle palizzate del vallo; i vitelliani, battendosi con la forza della disperazione, erano già sul punto di stroncare quell’attacco sconsiderato, quando i capi flaviani – per farla finita una volta per tutte e infondere un’ultima scintilla di energia nei soldati – additarono loro la città di Cremona, promettendo libertà di saccheggio. Tanto bastò perché i legionari pannonici e mesii e le truppe ausiliarie si slanciassero con impeto rinnovato contro le opere difensive, le sbrecciassero, le oltrepassassero menando strage. Travolti gli ultimi difensori, i flaviani arrivarono così, di slancio, fin sotto le mura dellà città.
Qualunque altro comandante, in condizioni normali, non avrebbe certo osato assalire una città fortificata senza disporre di macchine da guerra e con truppe ormai tanto provate: ma Antonio Primo, da quel giocatore d’azzardo che era, proseguì l’azione a dispetto di tutto. Ed ebbe fortuna! I flaviani avanzarono contro le mura in formazione a testuggine, proteggendosi solamente con la barriera degli scudi e incuranti dei proiettili d’ogni genere che piovevano loro addosso. Non disponevano né di torri d’assedio, né di baliste o catapulte, e forse nemmeno di arieti dalla punta di ferro. Fu semplicemente un attacco alla disperata, imposto – senza alcun piano preciso – dalla furia incontenibile dei soldati e dalla loro brama di saccheggio.
Dall’alto delle mura di Cremona si difenevano strenuamene sia i soldati vitelliani, sia la popolazione cittadina e la numerosa folla cosmopolita affluitavi colà per la fiera, e rimastavi bloccata con le merci e i denari dal furore della guerra civile. Allora Antonio Primo, contando più che altro sulla stanchezza e sulla sfiducia crescente dei difensori, ricorse a un estremo espediente. Fatte portare delle fiaccole, ordinò di appiccare il fuoco alle magnifiche ville patrizie, sparse per la campagna subito fuori delle mura.
Quello spettacolo diede il colpo di grazia al già vacillante morale dei Cremonesi. Cecina, il traditore, fu sciolto dalle catene dai suoi stessi soldati, che lo supplicarono adesso di intercedere per loro presso il nemico vittorioso. Era uno spettacolo penoso, scrive Tacito, vedere quei valorosi umiliarsi così dinanzi a colui che li aveva traditi, e che era stato la causa principale della loro disfatta. Rami d’ulivo e bende vennero sventolati dai bastioni della città: e così Cremona – le mura ancora intatte, una guarnigione numerosa e bene armata – si diede senza colpo ferire nelle mani di un nemico, che mai sarebbe riuscito a conquistarla di slancio, ma solo dopo un lungo e difficile assedio.
Quello che seguì allora fu una vergogna senza nome, una infamia che mai sarebbe stata cancellata dagli annali delle legioni. Mentre Antonio Primo riusciva a stento a salvare la popolazione da un massacro generale, i suoi soldati – senza più curarsi di ordine né di disciplina – si gettarono al saccheggio indiscriminato. Quattro giorni durò l’obbrobrio: quattro giorni interminabili, eterni, che videro flaviani e vitelliani, vincitori e vinti, alleati di un momento nella devastazione della città. Particolarmente inaspriti dal ricordo dell’umiliazione inflitta, proprio a Cremona, ai reduci otoniani della prima battaglia di Bedriaco, i legionari del Danubio frugarono casa per casa alla ricerca delle ricchezze nascoste, torturarono gli abitanti, violentarono le donne, incendiarono tutto quel che non poterono portar via, compresi gli edifici pubblici ed i templi. Gli ausiliari barbari sfogavano il loro odio nativo contro la civiltà romana con ferocia non minore di quella dimostrata dai loro antenati Cimbri e Teutoni al tempo di Caio Mario. E i legionatri gallici e illirici, rozzi contadini reclutati tra le frange più misere della popolazione, con gioia selvaggia derubavano, percuotevano e assassinavano i patrizi, gli ottimati: rappresentanti di quella civiltà urbana che, ai loro occhi, era sempre vissuta a spese del mondo rurale e proletario. Si ebbe insomma un primo saggio di quegli odii sociali che, scoppiati nuovamente alla scomparsa della dinastia antonina e poi, di nuovo – per cinquant’anni – alla scomparsa di quella severiana, provocheranno la grande trasformazione sociale del mondo antico, attraverso l’anarchia del III secolo. Che la ferocia sfogata dai soldati-contadini e dai barbari arruolati nell’esercito romano contro la borghesia commerciale di Cremona non fosse un episodio isolato, del resto, è provato dal comportamento che terranno quelle medesime truppe nella presa di Roma, sette settimane più tardi.
Quando Tacito afferma che, nell’inferno di Cremona, si scatenò un esercito "ch’era un mosaico di lingue e di costumi", non fa che sottolineare il carattere "straniero", rurale, semibarbarico di quell’orda devastatrice. Se la civiltà greco-romana fu essenzialmente un fenomeno urbano, è certo che negli eserciti contadini non italici, dalla metà del I secolo in poi, si manifestò la doppia tendenza rivoluzionaria – anti-cittadina in campo economico-sociale, e larvatamente anti-romana in campo politico-culturale, originata dalla mancata assimilazione del mondo rurale transalpino, specialmente celtico e germanico – e, in una certa misura, perfino di quello italico. E così come la crisi del 68-69 significò la fine del predominio politico dell’alta aristocrazia romana e l’avvento di una nuova dinastia, di origini borghesi e italiche, ma non urbane, essa segnò pure il definitivo tramonto della base tradizionale della forza militare dello Stato romano, le milizie di origine italica e, particolarmente, dei pretoriani, per spalancare le porte della scena politica agli eserciti provinciali, quali campioni dei ceti contadini extra-italici, finora sottoposti a una politica di tipo semi-coloniale a esclusivo vantaggio dell’Italia e di Roma.
Quando i quarantamila soldati flaviani, finalmente sazi di rapina, si lasciarono alle spalle l’infelice città di Cremona, essa non era ridotta che a un cumulo di rovine fumanti. La distruzione fu così totale che solo un tempio dedicato alle dèa Mefite rimase in piedi in mezzo all’universale rovina, fatto tanto eccezionale da passare alla memoria dei contemporanei. Uno dei primi provvedimenti di Vespasiano, rimasto vittorioso al termine della guerra civile, sarà proprio quello di far ricostruire la sventurata città padana, sia come gesto pratico di riparazione, sia come atto simbolico di riconciliazione nazionale destinato a cancellare, per quanto possibile, anche il ricordo di vicende tanto tragiche e vergognose.
4. DA CREMONA A NARNI.
Dopo la battaglia presso Bedriaco e la presa di Cremona, la situazione di Vitellio si fece, quasi di colpo, disperata. È pur vero che – da un punto di vista strettamente militare – la sconfitta non appariva in alcun modo irreparabile. Vitellio disponeva ancora delle sedici coorti pretorie e delle quattro urbane, di alcune unità di cavalleria e di una nuova legione di marinai di recentissima formazione, la II "Adiutrix", dunque di forze almeno equivalenti a quelle che aveva schierato Otone, a suo tempo, in difesa dell’Italia. Tali forze erano certamente sufficienti per organizzare una linea difensiva e, forse – come ha osservato taluno studioso moderno – anche bastanti per organizzare una controffensiva a raggio limitato. Inoltre, se è vero che l’imperatore aveva perso, con Cecina, uno dei suoi migliori generali, gli restava pur sempre Fabio Valente, il quale oltretutto godeva di una notevole popolarità fra le truppe.
Ma il fatto è che Vitellio, in quel difficile frangente, si dimostrò assolutamente impari alle circostanze. Il primo suono di campane a morto fu recato dalla notizia che la flotta di Ravennna era passata al nemico. La notizia raggiunse Vitellio mentre si trovava d Ariccia, presso il tempio di Diana, e lo scosse al punto da indurlo a rientrare immediatamente nella capitale, da cui non sarebbe più uscito tranne che per una timida puntata all’esterno, come vedremo, quando ormai era tardi. Fabio Valente, rimessosi dalla malattia, era partito finalmente da Roma – sotto le pressanti insistenze di Vitellio – per raggiungere l’esercito, che lo aveva preceduto sulla via di Cremona. La sua marcia, macchiata da soprusi e violenze, e accompagnata da un codazzo di concubine e parassiti, pareva preannunciare il crepuscolo di un regime brutale e corrotto. Attardatosi in tal modo lungo la Flaminia, Valente seppe della defezione della flotta adriatica assai prima di giungere a Ravenna, e, arrestatosi, mandò dei messi a Roma per informare Vitellio e per sollecitare l’invio immediato di rinforzi.
L’imperatore gli mandò tre coorti e un po’ di cavalleria, che Valente utilizzò in gran parte per coprire Rimini da possibili minacce delle navi di Lucilio Basso, ma non tentò neppure di aprirsi la via verso il settentrione. Indi, dopo qualche indecisione, piegò verso l’Umbria e passò in Etruria, procedendo solo con un piccolo seguito. La notizia del tradimento di Cecina e della disfatta di Cremona raggiunse Valente in Etruria, e Vitellio a Roma. Il primo si affrettò, allora, verso il porto di Pisa, con l’intenzione di imbarcarsi per la Gallia Narbonense e procedere, poi, a una nuova leva di truppe in Germania; il secondo, per diversi giorni, non fece assolutamente nulla, limitandosi a proibire tassativamente che si parlasse in pubblico del disastro.
Sulla capitale di un regno vacillante piombò, allora, un silenzio irreale: proibito anche solo ricordare che esisteva una guerra, parve alla fine che Vitellio finisse per rassicurarsi – come se il pericolo, per il fatto di venire passato sotto silenzio, avesse anche cessato di esistere. E si arrivò a un tal punto che, quando un centurione recò all’imperatore i dettagli del disastro di Cremona, non venne creduto, e dovette uccidersi di propria mano per far capire a queglli irresponsabili la verità di cui era latore.
Il comportamento di Vitellio, in quei giorni di novembre, fu un misto sconcertante di torpore, rabbia e paura. I suoi banchetti continuavano come sempre, ma parecchi degli esponenti più in vista della classe senatoria, sospettati di parteggiare per Vespasiano, vennero mandati a morte e i loro beni furono confiscati. Pupilio Sabino, il prefetto del Pretorio sostenuto da Cecina, venne naturalmente rimosso e imprigionato. Per il resto, nonostante che le truppe e gli strati più bassi della popolazione fossero sempre dalla sua parte, Vitellio fece ben poco. Sfortunatamente per lui, proprio in quei giorni fu colpito seriamente da una malattia e dalla perdita della vecchia e saggia madre, venuta meno in buon punto perché le fosse risparmiato l’epilogo sanguinoso di quella avventura imperiale. Le uniche concrete disposizioni che diede, furono quelle relative all’occupazione dei valichi dell’Appennino da parte di alcune coorti pretorie – essendo divenuta indifendibile, per la sconfitta di Cremona e la diserzione della flotta, la linea del Po. La stagione invernale si avvicinava ed egli, forse, cullava l’illusione di poter tenere a bada le forze di Antonio Primo, con l’aiuto del terreno montuoso e dell’inverno, almeno fino a quando Valente fosse stato in grado di tornare alla riscossa con un secondo esercito germanico per la via delle Alpi, la stessa percorsa vittoriosamente un anno prima.
Tuttavia, se le maggiori speranze di Vitellio riposavano ormai sull’audace ma disperato piano di Valente, esse erano destinate a naufragare nel più misero dei modi. Salpato dal Porto Pisano, dapprima Valente era era sbarcato tra Monaco e Nizza, ove il procuratore delle Alpi Marittime, Mario Maturo, lo aveva ammonito circa la pericolosità di proseguire il viaggio da solo e in mezzo ai continui voltafaccia dei governatori locali, ansiosi di abbandonare la causa di Vitellio prima che fosse troppo tardi. A Fréjus, infatti, il procuratore della Gallia Narbonense, Valerio Paolino, si era già dichiarato per Vespasiano e stava armando i provinciali. Valente allora, rinunciando all’idea di spingersi all’interno, riprese il mare, ma fu gettato dalla burrasca sulle Isole Stècadi, al largo di Marsiglia. Quivi cadde in potere delle navi nemiche e fu da Paolino spedito in Italia, ad Antonio Primo, che lo fece giustiziare nel carcere di Urbino poco tempo dopo. Nessun aiuto alla causa di Vitellio, dunque, sarebbe mai più giunto dalle province renane; e questo rendeva la sua fine solamente una questione di tempo.
Dopo aver forzato la linea del Po, le legioni danubiane si erano spinte fino alla radice dell’Appennino, fiancheggiate dalla flotta ravennate, che operava efficacemente lungo la costa. Né Muciano, né Vespasiano erano adesso desiderosi che Primo avanzasse troppo rapidamente verso Roma. Vespasiano era stato raggiunto dalla notizia della battaglia di Cremona mentre si trovava ad Alessandria d’Egitto e stava interrogando la divinità nel tempio di Serapide circa l’esito della guerra. Muciano, invece, era stato ulteriormente ritardato nella sua marcia verso l’Italia da un improvviso attacco dei Daci, che avevano attraversato il basso Danubio profittando della guerra civile in corso, e che lo aveva costretto a distogliere una legione per fronteggiarlo. L’attacco venne respinto abbastanza facilmente, ma Muciano aveva così perduto dell’altro tempo prezioso, ed era sempre più inquieto all’idea che Primo potesse spingersi fino a Roma senza fermarsi ad attenderlo. La tragica sorte di Cremona, i cui abitanti erano stati tratti schiavi come un gregge dalle soldatesche scatenate, non solo aveva atterrito le popolazioni italiche e spento ogni velleità di resistenza, ma aveva vivamente impressionato tanto Vespasiano che Muciano, i quali erano ben più attenti di Primo alle implicazioni politiche di un tal modo di condurre la campagna.
Essi si trovavano ora in un crudele imbarazzo: da un lato, non osavano ordinare esplicitamente a Primo di fermarsi, perché sapevano che le nevi avrebbero tra poco bloccato i passi dell’Appennino e, se egli non li avesse superati al più presto, sarebbe stato necessario rimandare di un altro anno la conclusione della guera; dall’altro, cominciavano a diffidare delle sue segrete ambizioni, e desideravano assolutamente evitare che egli si spingesse fino all’Urbe e vi entrasse con la forza. Infatti, essi erano più che mai preoccupati per la brutalità dei metodi impiegati dalle truppe di Primo a danno della popolazione, e avevano ragione di temere che episodi come quello di Cremona gettassero una luce sinistra sugli inizi del principato di Vespasiano, che ambiva a presentarsi invece quale restauratore della pace, dell’ordine e del diritto – un po’ come Augusto, dopo la vittoria su Marco Antonio.
Le missive equivoche e titubanti che gli giungevano dai suoi superiori non ebbero alcun effetto sulla determinazione di Antonio Primo di spingersi avanti quanto più velocemente possibile, e con un nuovo balzo si portò sino a Fanum, all’imbocco della via Flaminia. Da lì, mandò in avanscoperta alcuni reparti di cavalleria, per esplorare il territorio e saggiare lo spirito combattivo del nemico. Vitellio, come si è detto, aveva schierato le coorti pretorie e la II legione "Adiutrix" a difesa dei valichi dell’Appennino, e, quando seppe che l’esercito flaviano si avvicinava, per rialzare il morale dei propri soldati uscì da Roma e si recò al campo di Mevania, sempre sulla Flaminia. Qui lo raggiunse la notizia che la flotta di Miseno, cioè del Tirreno, aveva seguito l’esempio di quella ravennate, ed era passata al partito di Vespasiano. Allora si lasciò travolgere dal panico, lasciò senza ordini e senza capi i suoi bravi soldati, che ancora credevano in lui ed erano disposti a combattere strenuamente, e rientrò a precipizio nella capitale. Colà distaccò una delle coorti urbane e un contingente di gladiatori, li pose al comando di Claudio Giuliano, ex comandante della flotta di Miseno, e li spedì contro i marinai che si erano ribellati. Ma non appena Giuliano raggiunse le forze che avrebbe dovuto combattere, si pronunciò invece per Vespasiano, unì ad esse le proprie truppe, e si attestò a Terracina.
Vitellio, che forse era tornato al fronte per confortare con la propria presenza le truppe sempre più demoralizzate, ripiegò da Mevania fino a Narni, ove lasciò i due prefetti del pretorio, e ritornò ancora una volta a Roma. Quivi affidò a suo fratello Lucio un esercito di ben sei coorti e cinquecento cavalieri per condurre una decisa offensiva contro i ribelli di Terracina. Mentre egli disperdeva così le sue magre forze in una operazione secondaria e non urgente, l’esercito di Antonio Primo, avanzando con circospezione, trovò i passi dell’Appennino insperatamente sgombri di difensori e, avendo come soli avversari il freddo e la neve, li valicò in massa, scendendo nelle valli dell’Umbria e attestandosi davanti all’esercito vitelliano che difendeva Narni. Così, senza lotta, cadeva il maggiore ostacolo per i flaviani sulla via di Roma, e insorgevano contemporaneamente le popolazioni dei Sanniti, dei Marsi e dei Peligni, schierandosi al fianco del probabile vincitore. In Campania parecchie città e contrade – la grande Pozzuoli, prima tra esse – si univano ai marinai della flotta di Miseno e alle truppe di Giuliano. E in Spagna e in Gallia i vari governatori provinciali e comandanti militari, appresa la disfatta vitelliana di Cremona e l’avanzata di Antonio Primo nel cuore dell’Italia, uno dopo l’altro passavano dalla parte dei flaviani vittoriosi.
Così, tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 69, di tutto il vasto dominio di Vitellio non restava più – come il relitto di un grande naufragio – che l’angusta sezione della Penisola compresa fra Narni a settentrione, Terracina a mezzogiorno, il Tirreno a occidente e i monti della Sabina a oriente. E anche quel relitto continuava a sprofondare, lentamente ma inesorabilmente, giorno dopo giorno.
5. SITUAZIONE POLITICA A ROMA.
Che la situazione fosse disperata, in Roma lo si poteva ormai arguire da numerosi segnali, nonostante la ferrea censura imposta sulle notizie dal fronte, e il terrore che induceva la maggior parte dei senatori a parlare in pubblico il meno possibile.
Quando Vitellio, su richiesta dei soldati, s’era recato a Mevania, proprio come Otone nel marzo precedente, una parte del Senato era uscita con lui dalla capitale, ma il ritorno precipitoso dell’imperatore nella capitale aveva lasciato capire anche ai più ciechi che l’ora della fine si stava avvicinando. Un sintomo evidente di questa consapevolezza si aveva nelle riunioni del Senato, ove molto si tuonava all’indirizzo di traditori come Cecina, ma non si faceva mai ad alta voce il nome di Vespasiano. Da parte sua, Vitellio moltiplicava le sue prodigalità nei confronti dei soldati e della plebe e procedeva alla leva in massa fra il popolo, armando perfino gli schiavi e i gladiatori per rimpiazzare le agguerrite coorti cedute a Lucio Vitellio, e preparandosi all’estrema difesa della capitale.
Tuttavia è difficile dire fino a che punto queste iniziative partissero da Vitellio, che ci viene descritto dalle fonti storiche antiche come totalmente rassegnato e incapace di agire, anzi perfino dimentico d’essere imperatore, se altri non glie lo avessero rammentato. Questa, naturalmente, è una vera esagerazione, perché proprio in quei giorni egli si decise ad assumere ufficialmente il titolo di Cesare, che in gennaio, a Colonia, aveva detto di rifiutare per sempre. Probabilmente Vitellio, come aveva fatto il suo idolo Nerone in circostanze altrettanto sfortunate, da quel debole che era, passava da un estremo di abbattimento a un soprassalto di fiducia immotivata, incoraggiata, quest’ultima, dal contegno bellicoso dei pretoriani e del popolino, e dalle inutili piaggerie di qualche ministro di corte. Ma che la partita fosse ormai perduta, egli stesso doveva intuirlo sempre più chiaramente, se alla fine si risolse a entrare in trattative con il prefetto urbano Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, per cercare in extremis una soluzione diplomatica alla guerra, che sapeva di non poter più vincere.
La posizione reciproca dei due uomini, invero, non mancava di curiose coincidenze. Vitellio, dopo la sua vittoria su Otone, non solo aveva confermato Sabino nella prefettura urbana, ma ve lo aveva lasciato anche dopo la proclamazione di Vespasiano da parte degli eserciti d’Oriente. Vi erano stati altri casi di parenti schierati su opposti versanti nella guerra civile, o per scelta o per puro concorso di circostanze imprevedibili. Questa volta, però, l’eccezionale importanza della carica – militare, oltre che onorifica – rendeva la permanenza di Sabino alla prefettura urbana un qualcosa di veramente singolare e profondamente ambiguo. Egli, fino ad allora, aveva servito la causa di Vitellio con lealtà ed efficienza: aveva consegnato all’imperatore l’infelice Dolabella; aveva ceduto una delle sue coorti urbane per la prima, fallita spedizione contro i ribelli di Miseno. Aveva però anche, a quel che pare, avuto dei segreti abbocccamenti con Alieno Cecina, avanti la partenza di questi da Roma. Abboccamenti il cui scopo era stato ampiamente dimostrato, stando almeno alle apparenze, dal successivo comportamento dello stesso Cecina. Se così fu, bisognerebbe concludere che ancor prima della battaglia di Cremona, quando la forza militare del partito vitelliano appariva ancora formidabile, Sabino era già intimamente persuaso che la vittoria finale sarebbe toccata a suo fratello, e si stava attivamente adoperando per affrettarla. Senonchè, tutto quanto sappiamo dei rapporti esistenti tra i due fratelli prima dello scoppio della guerra civile, non sembra avvalorare la tesi di una loro concordia né, di conseguenza, che Sabino già nell’autunno del 69 tramasse per favorire la vittoria di Vespasiano.
Sabino serviva lo Stato romano da ben trentacinque anni, era stato per sette anni governatore della Mesia e per altri otto, a intervalli, prefetto dell’Urbe; il suo patrimonio era più consistente di quello del fratello maggiorela stima di cui godeva fra i senatori; e quando Vespasiano, un tempo, si era trovato in difficoltà economiche, egli aveva acconsentito a saldare i suoi debiti, ma in cambio aveva preteso l’ipoteca di alcune sue proprietà. Per di più, mentre Vespasiano era spronato da una segreta ambizione (e fin dalla morte di Nerone teneva un occhio rivolto alle cose di Roma), Sabino già vecchio e stanco, spregiatore del potere e di ulteriori responsabilità, che tanto a lungo aveva già sperimentato, non mostrava alcuna impazienza di gettarsi nell’agone della lotta politica. Egli ci viene descritto come un uomo di animo dolce, giusto e disinteressato; e, in effetti, pare che se l’alta carica da lui ricopeta non lo avesse coinvolto nel pieno delle contese civili, egli per parte sua vi si sarebbe mantenuto volentieri estraneo.
Dopo la disfatta dei vitelliani a Cremona, la posizione di Sabino divenne ancor più complicata. Mano a mano che una vittoria di Vespasiano si faceva sempre più probabile, egli finiva fatalmente per diventare, quasi suo malgrado, il punto naturale di richiamo del partito flaviano all’interno dell’Urbe, e per attirarsi, per ciò stesso, i sospetti e le inimicizie dei più zelanti sostenitori di Vitellio. Quest’ultimo, da parte sua, aveva buoni motivi per lodare la propria previdenza nel non essersi tagliata una sì comoda via di ritirata dietro le spalle, e, nel pessimismo che cominciava a dominarlo, finì naturalmente per accostarsi al suo prefetto allo scopo di sondare le possibilità di una cessione pacifica del potere.
Dopo che le truppe di Antonio Primo ebbero forzato i passi dell’Appennino e si furono avvicinate a Roma, i colloqui fra Vitellio e Sabino dovettero assumere un ritmo particolarmente frequente. Gli incontri avvenivano in terreno neutrale, di solto nel tempio di Apollo e alla presenza di pochissimi intimi, che pure non erano ammessi ad ascoltare la conversazione. Di conseguenza, possiamo almeno dire che tutte le voci poi diffusesi circa i termini di un accordo segreto, non possono essere accolte che con beneficio d’inventario. Quel che realmente si dissero i due, e sin dove si spinsero, è un segreto che ben presto si sarebbero portati entrambi nella tomba, Tuttavia, nel corso di quei colloqui una cosa appariva evidente, e fu ampiamente notata: l’aspetto dimesso e abbattuto dell’imperatore e, per converso, l’atteggiamento bonario e comprensivo del prefetto. Era perciò evidente che Sabino non intendeva far pesare inutilmente il fatto incontestabile che le armi di Vespasiano stavano vincendo, e desiderava lasciare socchiusa la porta affinchè si giungesse a un trapasso incruento dei poteri da Vitellio a Vespasiano. Si disse, in seguito, che Vitellio avrebbe accettato di lasciare il potere in cambio della vita e di una somma di cento milioni di sesterzi, nonché di una villa in Campania per trascorrervi indisturbato una splendida esistenza privata; voci che, per ler ragioni anzidette, è impossibile giudicare se, e in quale misura, si possano considerare attendibili.
Verso la metà di dicembre la situazione militare precipitò nuovamente, e impresse alle trattative segrete un carattere particolarmente drammatico. L’esercito vitelliano schierato in Umbria, a protezione della capitale, aveva fino a quel momento mantenuto una certa parvenza di coesione e di combattività, quantunque la lenta ma continua ritirata attraverso la Penisola, non giustificata sul piano strategico da una vera sconfitta – ché anzi, dopo Cremona, praticamente le armi erano rimaste nel fodero – ne avesse intaccato il morale. Tuttavia i soldati semplici continuavano a nutrire un forte attaccamento alla causa del "loro" imperatore, e la presenza dei due prefetti del pretorio li rincorava, tanto che essi mostravano una determinazione a battersi di gran lunga superiore a quella dei loro esitanti ufficiali. Le loro principali speranze, allora, si appuntavano sul ritorno di Fabio Valente dalla Germania, con un nuovo e formidabile esercito, per passare alla lor volta all’offensiva. Questo erano riusciti a far credere loro i comandanti, ed era ormai quasi il solo, esile filo che ancora li tenesse abbracciati a una causa disperata.
Una prima, dura scossa alle loro residue speranze venne dalla caduta improvvisa di Interamna, caposaldo avanzato della piazzaforte di Narni, che i flaviani avevano occupato con una manovra inattesa, e incontrando pochissima resistenza nella scoraggiata guarnigione. Ma quando, poi, la testa di Fabio Valente – giustiziato, come si disse, nel carcere di Urbino – venne mostrata loro, attraverso le linee, dai flaviani esultanti, le speranze dei vitelliani ricevettero un colpo decisivo. Le diserzioni si moltiplicarono e presero un ritmo incessante, finchè i due prefetti scesero con tutto l’esercito nella pianura sottostante Narni e, alla presenza dell’armata nemica schierata al completo, si arresero con l’onore delle armi.
La dimane di questa resa, che segnava la dissoluzione dell’esercito vitelliano settentrionale, e apriva la via di Roma alle poderose colonne flaviane, la situazione politica nella capitale era divenuta esplosiva. Dato ormai per scontato che la fine del regime vitelliano non era che una questione di giorni, forse di ore, restava solo da vedere se la città sarebbe stata presa con la forza, a prezzo di un bagno di sangue, oppure pacificamente, mediante una rinuncia spontanea da parte dell’imperatore soccombente. La posizione di Flavio Sabino, poi, era particolarmente complessa e delicata. Era chiaro che sia lui personalmente, sia Vespasiano, sia – probabilmente – lo stesso Muciano, consideravano preferibile che fosse Sabino ad ottenere la capitolazione di Roma: tanto per istintiva diffidenza nei confroni di Antonio Primo, quanto per evitare un inutile massacro.
Il prefetto urbano, per carattere e per educazione, rifuggiva all’idea di uno spargimento di sangue non necessario e desiderava indurre Vitellio a cedere il potere pacificamente, prima che fosse troppo tardi. Lo stesso Antonio Primo, ottenuta la capitolazione dell’esercito di Narni, aveva sospeso la propria avanzata e inviato messaggi a Vitellio, offrendogli un ritiro sicuro e onorevole in cambio della resa, pur avendo la possibilità di spingersi fin sotto le mura dell’Urbe in appena poche ore di marcia. Sarebbe stata un’occasione da non perdere: ma Vitellio, che tanto avventatamente aveva fatto armare il popolino, e fatto piovere sui veterani di nuova nomina promesse e benefìci, si accorgeva adesso – non senza raccapriccio – di non essere più padrone delle proprie scelte. Quanto più la situazione militare appariva disperata e senza vie d’uscita, tanto più soldati e plebe si facevano promotori di una resistenza a oltranza, e con inopportune manifestazioni di bellicismo e di lealismo tagliavano all’imperatore le ultime vie della ritirata. Sicchè si vide in quei giorni che, quand’anche non vi fosse più stato Vitellio, c’erano però ancora dei vitelliani; nato come strumento d’interessi militaristici che andavano ben oltre la sua modesta persona, Vitellio constatava ora l’impossibilità di separare il proprio destino da quello dei suoi irriducibili sostenitori.
Un simile rigurgito di bellicismo esasperato da parte dei vitelliani già votati alla disfatta era, naturalmente, gravido di conseguenze anche per il prefetto Sabino. Infatti, non solo faceva sfumare la possibilità di ottenere la resa incruenta della capitale, ma metteva in pericolo la sua stessa persona. Proprio da questa difficile situazione nacque l’idea, da parte dei sostenitori occulti del partito flaviano, di tentare un audace colpo di mano per impadronirsi di Roma e prevenire l’attacco, ormai sempre più probabile, dell’ala oltranzista vitelliana. Il dilemma di Flavio Sabino, dunque, si puù riassimere nei seguenti termini. Se continuava ad aspettare passivamente, le truppe di Antonio Primo avrebbero preso Roma d’assalto e vi sarebbe stata una strage indiscriminata – la sorte recentissima di Cremona era un monito inequivocabile; senza contare che il suo prolungato atteggiamento attendista poteva dar luogo a sospetti agli occhi dello stesso partito flaviano, dentro e fuori della capitale, come se egli non fosse così sicuro della vittoria di Vespasiano, da rompere definitivamente i ponti col partito vitelliano. Peggio ancora, qualcuno poteva pensare che egli, sfruttando i suoi buoni rapporti personali con Vitellio, pensasse a garantirsi l’incolumità fisica, barattandola con quella del vacillante imperatore, e abbandonando al loro destini i flaviani presenti a Roma, o sospettati di essere tali, sui quali certo si sarebbe abbattuta – tragico colpo di coda – l’ira del partito avversario agonizzante. Perciò, se voleva precedere Primo, evitando un massacro insensato e assicurandosi la gloria della conclusione del conflitto, avrebbe dovuto convincersi dell’impossibilità di un accordo pacifico; mobilitare le coorti urbane, i vigili, i servi e tutti i senatori simpatizzanti per Vespasiano; e dare il colpo di grazia al regime ormai morituro.
La città era piena di partigiani del partito flaviano; il nerbo dell’esercito vitelliano era impegnato fuori Roma, a Terracina; e forse era ancora possibile sorprendere i difensori, prima che il popolino venisse interamente armato e fosse pronto a combattere. Ma da questa soluzione, che con sempre maggiore insistenza gli prospettavano i suoi amici, Sabino istintivamente rifuggiva. Non avendo compreso che Vitellio non era ormai più un imperatore, ma "solo un motivo di guerra", egli rimase aggrappato tenacemente, fino all’ultimo, alla chimera di una cessione pacifica del potere da parte di quest’ultimo.
Fino a che non fu troppo tardi.
- [L’INCENDIO DEL CAMPIDOGLIO.**
Verso la metà di dicembre, informato della capitolazione di Narni, Aulo Vitellio uscì dal palazzo imperiale, sul Palatino, vestito a lutto, e scese mestamente la grande scalinata, attorniato da servi miseramente vestiti, mentre il popolo e i soldati si raccoglievano ai piedi del colle. Allora pronunciò un discorso insincero e lamentoso, dicendo di voler deporre — per il pubblico bene — quel potere che in gennaio, a Colonia, era stato forzato ad accettare.Le sue parole furono accolte da un silenzio glaciale; poi un sordo mormorìo si levò dalla folla, e divenne un clamore confuso. Tutti protestavano davanti a quella scena fantastica e pietosa, di un imperatore ridotto a chiedere pietà per i suoi parenti e ad abbandonare il potere senza lotta e senza gloria. Vitellio, accompagnato dal giovane figlio, cercò di dirigersi verso il Foro, per deporre le insegne imperiali nel tempio della Concordia, ma la folla tumultuante gli presentò un muro compatto e l’imperatore, non trovando altra strada libera, dovette risalire la gradinata del Palatino e rientrare a palazzo.
Così trascorse la notte. Vitellio, probabilmente, era già arrivato ad un formale accordo con Sabino, e quindi doveva essere più che mai timoroso di una irruzione intempestiva delle truppe di Antimonio Primo in città; d’altra parte aveva avuto un primo saggio eloquente di quel fanatismo popolare, che ora minacciava di trarlo alla rovina. Per lui, ormai, si trattava di una doppia lotta contro il tempo: per concludere il trapasso dei poteri prima che l’esercito nemico penetrasse nell’Urbe, ma anche prima che i suoi irriducibili sostenitori compissero qualche gesto inconsulto e irreparabile, ad esempio scatenando una caccia sanguinosa ai partigiani occulti di Vespasiano presenti nella capitale.
Il mattino seguente Vitellio ripetè il tentativo di abdicare. Uscito dal palazzo addirittura in abito funebre, scese verso i Rostri e, di nuovo, si presentò davanti a una folla di soldati e di plebei. Con voce rotta dal pianto, lesse un discorso scritto, in tutto simile a quello del giorno precedente; ma eguale fu la reazione della folla. Tutti gli gridavano che non si perdesse d’animo, che non lo avrebbero abbandonato ma avrebbero combattuto per lui fino all’ultimo. I popolani, atterriti dalla sorte di Cremona; i nuovi pretoriani delle truppe germaniche, più che mai coscienti di giocarsi la carriera coi relativi privilegi; tutti costoro protestavano a gara la necessità di resistere e di lottare. Una così imponente manifestazione popolare rinfrancò l’animo titubante di Vitellio, o — più semplicemente — lo convinse in maniera definitiva che era ormai troppo tardi per tirarsi indietro da quel ruolo, in funzione del quale era stato innalzato all’Impero. Forse allora per la prima volta — e questo è un chiaro segno del suo non essere all’altezza della situazione — comprese, con assoluta chiarezza, che non avrebbe potuto liberarsi dall’abbraccio dei suoi sostenitori, e che il suo destino era un tutt’uno con il loro. È capitato altre volte, nella storia; per esempio a Milano, nei frenetici giorni di fine aprile del 1945, quando il capo di un partito politico che aveva governato l’Italia per vent’anni, preso nel gioco incrociato dei sospetti e dei secondi fini di sostenitori che nulla avevano ormai da perdere e di alleati prepotenti e malfidati, sprecò le ultime chances di cedere pacificamente il potere e, rotti i negoziati all’ombra della curia arcivescovile, si avviò ingloriosamente al suo ultimo appuntamento col destino.
Il fallimento del secondo tentativo di Vitellio di abdicare pubblicamente, vero o simulato che fosse, fu pure il fallimento dell’ultima possibilità di scongiurare una conclusione tragica non solo della sua personale vicenda, ma anche delle sorti della capitale. Subito dopo, infatti, come se tutti avessero compreso che non c’era più spazio per alcuna soluzione diplomatica e che la parola passava definitivamente alle armi, scoppiò il dramma. Flavio Sabino, che — dopo gli ultimi colloqui con l’imperatore — si era convinto della volontà di questi di cedere il potere, fu ulteriormente rafforzato nella sua illusione dalle prime notizie che gli erano state riportate, relative alla solenne rinuncia svoltasi nel Foro. Egli, che era rimasto nella propria casa, le accolse — come del resto i suoi seguaci — con grande ottimismo. Quasi tutti i senatori e moltissimi cavalieri, voltisi ormai apertamente dalla parte di Vespasiano, si erano affrettati nella villa di Sabino, sia per complimentarsi con lui, sia per sollecitarlo a mobilitare le coorti urbane, onde mettersi al sicuro da eventuali colpi di testa dei vitelliani più irriducibili. Sabino, però, era sempre convinto della buona fede di Vitellio e sembrava sottovalutare il pericolo che già gli incombeva sul capo. Si può forse comprendere meglio l’ingenuità del suo comportamento, supponendo che egli, uomo d’indole bonaria e poco pratica, stesse già assaporando la soddisfazione di passare alla storia come il salvatore di Roma, colui che aveva posto fine alla guerra civile consegnando la capitale a Vespasiano, e scongiurando un massacro inescusabile. Fatto sta che non radunò né le coorti urbane, né i vigili che erano posti formalmente al suo comando; ma con un modesto seguito di amici, servi e pochi soldati attraversò la città, forse per rendersi conto personalmente della situazione (18 dicembre). Fu una decisione sbagliata. La sua scorta era troppo modesta per fronteggiare un eventuale pericolo, ma troppo numerosa per passare inosservata. Avrebbe dovuto rimanersene chiuso in casa ed evitare di farsi vedere in pubblico, se voleva attendere gli eventi; oppure, se riteneva di poterli affrettare, avrebbe dovuto radunare tutte le coorti e, agendo con la massima decisione, cercar di prendere il controllo della capitale.
All’altezza del Quirinale s’imbattè in un drappello di soldati vitelliani che tornavano, esagitati, dalla pubblica manifestazione a favore dell’imperatore. Ne nacque subito una zuffa in cui i flaviani, colti alla sprovvista, furono respinti con qualche perdita. Ignaro del precipitar della situazione, Sabino si consigliò con i suoi e prese la decisione di rifugiarsi sulla cima del Campidoglio, che offriva ottime possibilità difensive; e così fu fatto. Si trovava già sulla rocca, e giù in basso i vitelliani correvano armati in tutte le direzioni, quando un buon numero di senatori e di cavalieri – sentendosi in pericolo di vita – profittarono della confusione e riuscirono a raggiungerlo, rinforzando la sua piccola schiera. Invece il grosso delle truppe urbane e dei vigili, rimasto in stato di allarme ma privo di ordini e di capi, non intervenne; e rimane per noi un mistero perché neanche in questo nuovo, drammatico frangente Sabino abbia pensato di chiamarli a propria difesa. Le possibili spiegazioni, in sostanza, crediamo possano ridursi a due sole: o s’illudeva ancora di giungere a una tregua con Vitellio, e non voleva gettare altra legna sul fuoco della violenza; oppure non si fidava della fedeltà delle coorti urbane, perché esse avevano finito per identificare la propria causa con quella di Vitellio, e nulla di buono si aspettavano — per la loro carriera e i loro privilegi — da una vittoria di Vespasiano.
Da parte loro, i vitelliani che si erano raccolti alla base del Campidoglio agivano completamente a casaccio e di propria iniziativa. Privi di macchine da guerra per iniziare un assedio regolare, ma forniti soltanto di armamento leggero, si aggiravano bellicosi e senza ordine ai piedi del colle. Vitellio, che quasi certamente non aveva desiderato, né, tanto meno, ordinato, l’attacco, ormai non poteva far altro che assistere alla scena dalla Domus Tiberiana, rammaricandosi che l’intempestività dei suoi sostenitori gli stesse sottraendo, e nel peggiore dei modi, l’ultima possibile moneta di scambio con Vespasiano: l’incolumità di Flavio Sabino.
Quella gelida notte d’inverno cadde una pioggia insistente, fina e ghiacciata; i vitelliani rabbrividivano nei loro mantelli, e la sorveglianza attorno al Campidoglio fu allentata in misura sempre maggiore. Per concorde testimonianza dei contemporanei, quella sarebbe stata l’occasione d’oro, per Sabino e i suoi compagni, di passare attraverso le linee nemiche e abbandonare il colle avanti il ritorno della luce. Invece, non solo l’anziano prefetto non tentò di fuggire, ma — al contrario — fece venire presso di sé i propri figli e lo stesso nipote Domiziano, figlio minore di Vespasiano, che allora era un giovane di diciotto o diciannove anni (e che sarà a sua volta imperatore (dall’81 al 96, alla morte di Tito). Il fatto che essi siano riusciti a raggiungerlo sani e salvi, dimostra che attraversare la cintura dell’assedio era possibile e relativamento facile. Può darsi che Sabino, tuttavia, abbia pensato che il vero problema, se avesse voluto abbandonare il Campidoglio, non era tanto quello di superare le linee degli assedianti, quanto quello di trovare, poi, un rifugio più sicuro di quanto lo fosse l’attuale. Rientrare nella sua abitazione privata, sarebbe equivalso a un suicidio; e se è vero che lui, personalmente, poteva certo contare di rifugiarsi in casa di qualche liberto o cliente, tuttavia così facendo, avrebbe abbandonato al loro destino tutti quei cavalieri e senatori che erano corsi a raggiungerlo, proprio per averne protezione. Inoltre risulta che quella notte stessa, dal 18 al 19 dicembre, egli si fece premura di spedire un messaggero all’esercito di Antonio Primo, per informarlo della sua difficile situazione e sollecitare soccorsi.
Ormai non si trattava più di ottenere la resa di Roma prima dell’ingresso dell’esercito flaviano, onde scongiurare un bagno di sangue, ma anzi di affrettarne l’arrivo per salvare la vita di Sabino e a quanti, recandosi da lui sul Campidoglio, si erano irrimediabilmente compromessi. Pertanto non deve destar meraviglia il fatto che Sabino, pur potendolo, quella notte non abbia tentato di passare attraverso le linee degli assedianti, né che abbia fatto venire presso di sé Domiziano e i suoi stessi figli — lassù erano comunque più al sicuro che in città -, quanto piuttosto che non abbia fatto tutto il possibile per chiamare in sua difesa le truppe, di cui teoricamente era pur sempre il comandante. Se è lecito propendere per una delle due ipotesi poc’anzi formulate, si direbbe che Sabino si ostinasse a credere nella lealtà di Vitellio e nella sua volontà di richiamare i soldati, che di propria iniziativa avevano sferrato l’attacco. Ciò sarebbe confermato dal tono dell’ambasceria che il prefetto, ancora il giorno dopo, inviò all’imperatore, e dimostra, comunque, che non aveva compreso che non contava il fatto che Vitellio volesse fermare i suoi, ma che lo potesse.
All’alba del 19 dicembre la livida luce invernale rischiarò una scena singolare. La sommità del Campidoglio, coi suoi magnifici templi e palazzi, era presidiato da una folla confusa di soldati, senatori e servi, ciascuno intento a dar consigli a destra e a manca, ma, nel complesso, inetti a organizzare seriamente la difesa. Ai piedi del colle, gruppi decisi di vitelliani presidiavano gli accessi alla rocca e continuavano ad affluire dagli altri quartieri della città, alla cui animazione guerresca si confondeva, in maniera alquanto bizzarra, quella provocata dalla celebrazione dei Saturnali. E a pochi chilometri verso nord, sulla Flaminia e sulla Nomentana, erano accampati e in procinto di muoversi gli eserciti di Antonio Primo. Flavio Sabino, con molta probabilità, credeva di avere ancora un certo lasso di tempo a disposizione: la rocca era magnificamente atta alla difesa, i vitelliani non avevano baliste né scale, e nessuno pensava che il Campidoglio, in quelle condizioni, potesse venir facilmente espugnato. Si trattava solo, per i difensori, di resistere quel tanto che era ancor necessario, perché l’esercito flaviano fosse informato degli ultimi avvenimenti di Roma, e avanzasse fino in città.
Intanto il prefetto volle mandare un ambasciatore da Vitellio, tal Cornelio Marziale, sia per saggiarne le reali intenzioni sia, forse, anche per guadagnare tempo. Marziale scese dal Campidoglio senza incidenti e fu accompagnato da alcuni soldati fino al non lontano palazzo imperiale, in una atmosfera di crescente ostilità. Introdotto alla presenza dell’imperatore, gli rimproverò a nome di Sabino la sua slealtà per quell’attacco proditorio, e ne ebbe la misera risposta che Vitellio non era più in grado di farsi obbedire dai propri soldati. La conferma di ciò si ebbe subito dopo, quando lo stesso imperatore fece uscire l’ambasciatore da una porta posteriore, poichè vi era da temere che i soldati — estremamente tesi e ben decisi a respingere qualunque ipotesi di trattativa — lo avrebbero ucciso non appena uscito.
Poco dopo — si era ancora in pieno mattino — i soldati vitelliani, senz’altro attendere, sferrarono l’assalto contro il colle. Non avevano né capi, né macchine da guerra, e nemmeno un piano preciso; salivano armati delle sole spade, spinti da un furore incontenibile e dando prova di un notevole sprezzo della morte. Respinti dal clivo capitolino al di sopra dei templi di Saturno e della Concordia, tornarono all’attacco, contemporaneamente, lungo due direttrici: per il locus Asyli e su per i cento gradini della Rupe Tarpea. I difensori li bersagliavano con proiettili e arrivarono perfino ad abbattere alcune delle magnifiche statue che ornavano il tempio, per rotolarle sulla porta che stava per cadere.
Fu allora che cominciarono a levarsi le fiamme: crepitando attraverso il portico, raggiunsero le decorazioni lignee dell’esterno del tempio di Giove Capitolino, e in breve trasformarono l’antico, glorioso edificio in una torcia gigantesca. Così, mentre la confusione e il disordine paralizzavano i difensori, gli attaccanti con un ultimo sforzo irruppero sulla rocca e si abbandonarono al massacro. Dovunque era un fuggi fuggi di senatori travestiti, un impartire ordini ormai inutili, un battersi corpo a corpo con le spade e gli scudi. I pochi soldati flaviani che tennero fermo al momento all’irruzione finirono massacrati; la più gran parte, invece, riuscì a fuggire, passando — nella confusione generale — in mezzo ai nemici.
Flavio Sabino, completamente frastornato da quella soluzione di forza tragica e imprevista, non oppose alcuna resistenza e si lasciò portar giù, prigioniero, dai soldati furenti, mentre il tempio diroccato continuava a bruciare insieme agli altri edifici. Fu trascinato al cospetto di Vitellio che, accogliendolo con aria vergognosa, conscio della propria bassezza e debolezza, cercò di convincere i soldati a risparmiargli la vita. Ma il contegno pietoso dell’imperatore non fece altro che esasperare il furore di quei forsennati, che a gara crivellarono l’infelice Sabino d’innumerevoli ferite, poi gli spiccarono la testa dal busto, e infine appesero il suo corpo alle scale Gemonìe, sopra il Carcere Mamertino.
Questa fu la fine del fratello di Vespasiano, vittima della propria irresolutezza e del suo odio per la violenza, più che delle stesse circostanze. Suo nipote Domiziano, più fortunato, al momento della presa del Campidoglio era riuscito a nascondersi, con l’aiuto del custode del tempio, fino al calar della notte, mentre lo cercavano dappertutto. L’indomani, travestito da sacerdote di Iside, si confuse nella folla dei Saturnali che, imperterrita, continuava a folleggiare per la città insanguinata, e si rifugiò dapprima in casa di un cliente nel quartiere del Velabro (ai piedi del colle capitolino), indi riuscì a passare, con un solo compagno, a Trastevere, ove trovò un asilo relativamente sicuro presso degli amici. Là rimase fino a quando le truppe flaviane non ebbero conquistato la capitale a viva forza.
L’incendio e la distruzione del tempio di Giove Capitolino, pur in mezzo a tanti lutti e calamità civili, colpì profondamente i Romani come un evento simbolico e infausto. Tacito afferma che fu quella la più grave sciagura che si abbattesse sulla città dei Sette Colli, dai lontanissimi tempi di Romolo e della sua fondazione. Perfino quando si era verificata l’invasione gallica, all’epoca di Brenno e Furio Camillo, la rocca del Campidoglio era rimasta intatta e inespugnata, come un simbolo della indomita libertà dei Romani. E dopo l’ultimo incendio, avvenuto durante la guerra civile fra Mario e Silla, il tempio era rimasto intatto, orgoglioso e magnifico, come una sfida e un emblema trionfale.
Una delle primissime cure del governo di Vespasiano, dopo che si fu stabilito al termine del conflitto, fu la ricostruzione del tempio di Giove, che una suggestione così grande e quasi superstiziosa esercitava sugli abitanti dell’Urbe e su numerosi sudditi dell’Impero.
7. LA BATTAGLI A DI ROMA.
Mentre a Roma, proprio la vigilia della sua sanguinosa caduta, il regime vitelliano schiacciava nel sangue il partito avversario, a Terracina il fratello dell’imperatore, Lucio Vitellio, riportava sui marinai e i gladiatori ribelli una vittoria altrettanto sanguinosa che inutile.
Come si ricorderà, buona parte della Campania era insorta contro Vitellio, e la spedizione inviata – al comando di Giuliano – per reprimere il movimento era passata a Vespasiano, e si era asserragliata in Terracina. Lucio Vitellio, con ben sei coorti pretorie e un contingente di cavalleria, aveva posto l’assedio alla città e una notte, profittando della negligente sorveglianza degli assediati, riuscì a penetrarvi, scendendo dalla rupe sovrastante (ove sono ancor oggi le rovine del tempio di Giove Anxur). Ne seguì una terribile strage di gladiatori ma anche di inermi cittadini, e una fuga precipitosa delle navi della flotta di Miseno. Se, subito dopo aver espugnato Terracina, Lucio Vitellio fosse tornato prontamente a Roma con le sue truppe esaltate dal successo, è possibile che Antonio Primo non sarebbe riuscito a prendere d’assalto la capitale, ma sarebbe stato costretto ad assediarla — e questo, forse, avrebbe consentito una qualche forma di armistizio, benché ormai la morte di Sabino avesse creato una situazione politica di non ritorno. Invece egli perse inutilmente del tempo, mandando a chiedere a suo fratello se dovesse rientrare a Roma oppure marciare contro Pozzuoli e le altre città campane che si erano ribellate, per sottometterle. È evidente, perciò, che non doveva essere bene a conoscenza di quanto imminente fosse il pericolo che sovrastava la capitale dal lato di settentrione.
Antonio Primo, il giorno 18 dicembre, si trovava accampato ad Otricoli, sui confini dell’Umbria, dopo essersi messo in movimento da Narni, piuttosto stancamente. Per quanto possa sembrare incredibile, specialmente da parte di un comandante che aveva dato prova di tanta rapidità e decisione, si fermò nuovamente per lasciare che i suoi soldati celebrassero la festività dei Saturnali, iniziata il 17 dicembre e destinata, tradizionalmente, a durare alcuni giorni, anche in seno all’esercito. Il suo strano comportamento diede luogo a varie voci: secondo alcuni si stava proditoriamente accordando con Vitellio (forse incominciando a capire che, dopo la vittoria, mai avrebbe potuto aspettarsi grandi riconoscimenti da Vespasiano); per altri, sperava solo di ottenere una resa incruenta della capitale, spaventandola con la sola presenza dell’esercito ad portas. La vera ragione, probabilmente, era che Muciano, finalmente entrato in Italia, lo tempestava di lettere, chiedendogli di differire l’attacco contro l’Urbe fino al suo arrivo.
Come si è visto, un messaggero di Flavio Sabino era fuggito dal Campidoglio assediato, nella notte dal 18 al 19 dicembre, diretto al campo dell’esercito flaviano. Uscito da Roma col favore del buio e della pioggia, dovette arrivare a Otricoli non prima del mezzogiorno successivo. L’esercito danubiano sospese allora i suoi spensierati folleggiamenti, levò il campo e si rimise in moto sull’ultimo tratto della Flaminia, preceduto da un corpo di cavalleria agli ordini di Petilio Ceriale. Non trovando quasi resistenza, Ceriale si spinse incautamente fin nei pressi della capitale, e qui subì un vigoroso contrattacco della cavalleria vitelliana, che lo mise in rotta sino a Fidene. Solo nella notte dal 19 al 20 Antonio Primo, col grosso dei suoi, arrivò davanti al Ponte Milvio, all’altezza dei Saxa Rubra (un luogo che passerà alla storia, due secoli e mezzo più tardi, per la decisiva vittoria di Costantino su Massenzio, che spianerà la strada al riconoscimento giuridico e politico della religione cristiana). Qui si fermò per avere notizie più precise, e seppe così tanto dell’incendio del Campidoglio e dell’uccisione di Sabino, quanto del fatto che Vitellio aveva dato ordine di armare la plebe e perfino gli schiavi.
In città, dopo la presa del Campidoglio, la giornata del 19 era trascorsa in un’attesa febbrile. Vitellio, che non aveva voluto l’attacco contro i flaviani assediati, e che aveva anzi cercato di salvare la vita a Flavio Sabino, comprendeva che lo zelo intempestivo dei propri sostenitori aveva provocato un incidente irreparabile. Innanzitutto c’era l’odiosità dell’incendio del tempio, che molta parte della popolazione sommessamente gli attribuiva (imponendogli così fino all’ultimo, e ben oltre quanto avrebbe desiderato, la parte del Nerone redivivo). Vitellio non poteva permettere che la sua popolarità venisse offuscata da un sospetto così grave, proprio alla vigilia dello scontro decisivo; pertanto obbligò il console Quinzio Attico, catturato insieme a Sabino sul Campidoglio, ad attribuirsene la responsabilità. In secondo luogo, Vitellio era sconvolto dalla constatata impossibilità di farsi ascoltare dai soldati e, quindi, dalla inevitabilità di un duro castigo da paste di Antonio Primo, a causa dell’eccidio commesso. Per un momento il suo animo vacillò al punto che, dopo aver riunito il Senato per proclamarsi innocente del sangue sparso in città, arrivò ad offrire il proprio pugnale a ciascuno dei presenti e ai magistrati; e poiché tutti lo rifiutarono, disse di volerlo deporre nel tempio della Concordia. Ma quando un senatore, dall’animo più servile degli altri, gli gridò che "era lui la concordia" (Svetonio), lo conservò e si convinse definitivamente di esse legato alla sorte del proprio partito, qualunque fosse.
Allora ordinò di far armare il popolino e gli schiavi, e non pensò che a organizzare la difesa e a guadagnar tempo. Con l’approvazione del senato, mandò una delegazione di senatori ad Antonio Primo, e subito dopo un’altra, delle vergini vestali, entrambe per chiedere una tregua d’armi di ventiquattr’ore e una ripresa delle trattative. È molto probabile, anche se non possiamo averne la certezza, che con questa dilazione Vitellio sperasse di dar tempo a suo fratello Lucio di accorrere da Terracina, con le sue sei coorti e con la cavalleria; se poi davvero si illudesse di poter protrarre indefinitamente la difesa di Roma, questa è evidentemente un’altra questione. Dal momento in cui si era reso conto che i suoi soldati non avrebbero preteso da lui niente di meno che una resistenza a oltranza, la sua preoccupazione immediata dovette essere quella di impedire a ogni costo che i flaviani conquistassero a viva forza la città. Se fosse riuscito a respingere almeno il primo attacco, forse avrebbe potuto riallacciare i negoziati da una posizione più favorevole.
Ma tutti i suoi progetti – se ne aveva -erano destinati a naufragare miseramente. Le due ambascerie vitelliane, quella del Senato e quella delle vergini vestali, raggiunsero l’esercito flaviano probabilmente nel mattino del 20 dicembre. Entrambe furono immediatamente rimandate indietro, con la risposta che dopo l’assassinio di Flavio Sabino nessun accordo era più possibile. Subito dopo, Antonio Primo levò il campo e, incolonnato l’esercito su tre schiere, si mosse contro l’Urbe. Il rilassamento della disciplina creato dai Saturnali e le notizie dell’uccisione di Sabino e dell’incendio del Campidoglio avevano creato fra esse un clima di tale eccitazione, che il loro comandante avrebbe desiderato rimandare l’attacco al giorno dopo. Ma esse respinsero ogni ulteriore indugio, e la loro volontà prevalse.
Diversi studiosi moderni di storia romana, stranamente, hanno minimizzato il fatto che Antonio Primo entrò in Roma e ne prese possesso al prezzo di un’aspra battaglia, e di molto spargimento di sangue. Essi collegano la morte di Vitellio con il crollo del suo partito, e in certi casi hanno presentato la conquista dell’Urbe come poco più che una semplice operazione di polizia. Se si ricordano di menzionare i danni subiti dalla Città Eterna, di solito lo fanno solo a proposito dell’incendio del Campidoglio, avvenuto il 19 dicembre. Eppure basta una lettura anche frettolosa delle bellissime pagine tacitiane, per rendersi subito conto che quella del 20 dicembre a Roma fu una dura e prolungata battaglia, combattuta da entrambe le parti con una determinazione e con una furia eccezionali, "strada per strada, casa per casa", e che ad essa seguirono giorni interi di violenza, di assassinii, di saccheggio incontrastato. A noi sembra, anzi, di dover collocare la presa di Roma nel dicembre del 69 accanto agli altri famosi "sacchi" subìti dall’Urbe, a cominciare da quello gallico del 390 o 393 a. C., sino a quello visigotico del 410 d. C, ed oltre. Quando, poi, si rifletta sulla composizione etnica promiscua e sui costumi di entrambi i contendenti, barbari o semibarbari in larga misura, il paragone apparirà ancor più appropriato. E nemmeno è possibile sostenere, come pure è stato fatto, che le truppe flaviane mossero contro Roma, respingendo ogni tentativo di accordo da parte vitelliana, fiduciose di potersi impadronire della capitale quasi senza spargimento di sangue. Se tale illusione poteva ancora sussistere fino al 18 dicembre, già in quella stessa notte, con l’arrivo del messo di Sabino recante la nuova dell’incendio del Campidoglio, essa doveva esser venuta meno; e tanto più la sera del 19, allorchè giunse la notizia della strage dei flaviani avvenuta in città.
Superato il Ponte Milvio con le sue truppe, Antonio Primo penetrò in città avanzando sempre su tre colonne. La prima proseguì lungo la sponda del Tevere, la seconda e la terza scesero rispettivamente dalla Via Flaminia e dalla Salaria. I pretoriani di nuova nomina, gli ausiliari galli e germani, il popolino e gli schiavi armati frettolosamente, sostennero l’attacco nei sobborghi settentrionali e nelle loro vicinanze, apppoggiandosi al loro quartier generale situato nei Castra praetoria, vicino alla Porta Collina. Si accesero una quantità di scontri spezzati; mentre le unità attaccanti, che si erano aspettate una facile vittoria, si videro duramente impegnate e persero la loro coesione nell’intrico dei sentieri, dei giardini, dei muretti di dove erano bersagliate continuamente. Superato l’ultimo tratto della Salaria e della Nomentana, i flaviani penetrarono in città sempre combattendo aspramente, e per l’intera giornata rimasero bloccati all’altezza degli Horti Sallustiani. Quivi, nel dedalo delle siepi, delle piante, degli edifici e dei colonnati, su un terreno che – a differenza del nemico – i vitelliani conoscevano molto bene, la lotta proseguì incerta fino a quando, al cader della sera, la cavalleria flaviana, compiendo una manovra aggirante, attaccò alle spalle i difensori.
Ma ancor prima che la resistenza nei giardini di Sallustio avesse termine, le truppe del Danubio, spingendosi avanti, erano penetrate nei quartieri del centro. La prima colonna, che procedeva dalla parte del Tevere, raggiunse il Campo Marzio e vi sostenne un disperato contrattacco dei difensori. Essi erano in buona parte plebei sprovvisti di qualunque istruzione militare ed armati alla bell’e meglio, tanto che molti non avevano neppure lo scudo. Eppure, incoraggiati – probabilmente – dalla presenza fra loro di alcuni pretoriani, affrontarono i veterani di Mesia e Pannonia con una determinazione e un coraggio superiori a ogni previsione. E quando, alla fine, vennero sanguinosamente respinti dal Campo di Marte, anziché disperdersi ripiegarono oltre la zona del Pantheon e fecero nuovamente barriera a protezione dei quartieri più interni, del Campidoglio e del Foro: un comportamento degno di autentici veterani e non di truppe improvvisate. Vigorosamente premuti, però, furono di nuovo assaliti dalle truppe di Primo ormai rese furibonde, e travolti definitivamente.
Cominciò allora il massacro, mentre i clamori della battaglia si estinguevano a poco a poco. I vitelliani sconfitti, dispersi, a gruppi o isolati correvano disperatamente in cerca di scampo, si rufugiavano nei templi, nelle botteghe, nelle case. È da rilevare che per tutto il tempo della battaglia non era cessata la celebrazione dei Saturnali e che quella parte del popolo che non aveva partecipato alla lotta, quasi assistesse a uno spettacolo di gladiatori, parteggiava rumorosamente per i contendenti, senza rendersi conto che proprio la disperata resistenza vitelliana nei sobborghi, trattenendo l’invasione flaviana verso il centro della città, regalava loro quella incosciente sensazione di estraneità e di sicurezza. Quando poi la battaglia si concluse ed ebbe inizio la caccia all’uomo per le vie, quel pubblico crudele ed ebbro di sangue, facendo subito propria la causa del vincitore, prese a denunciare coloro che si nascondevano, a richiedere la morte dei difensori scampati alla strage. Bande di saccheggiatori sfondavano gli usci, frugavano le case, arraffavano e uccidevano, ansiosi di precedere le truppe flaviane che potevano arrivare da un momento all’altro. E gli odi personali, le vendette private infuriavano ovunque nel trambusto generale e nella momentanea sospensione di ogni ordine legale.
Infine, quando le ultime sacche di resistenza furono eliminate, l’una dopo l’altra; quando anche i coraggiosi difensori degli Horti Sallustiani – che ancora resistevano – furono circondati e travolti, il furore della lotta si concentrò unicamente intorno alla caserma dei pretoriani. Lì si erano raccolti tutti i più irriducibili sostenitori del regime morituro, e la loro resistenza fu talmente accanita che i flaviani, per averne ragione, dovettero far entrare in città, per la Porta Collina, le pesanti macchine d’assedio. Eppure si temette, a un certo punto, che sarebbe stato necessario rimandare l’attacco decisivo al giorno dopo. Esasperati all’idea di dover trascorrere in armi un’altra notte e resi furibondi dalle gravi perdite subite, i legionari del Danubio, con uno sforzo supremo, riuscirono a superare quella disperata difesa e penetrarono all’interno, là dove Otone era stato proclamato imperatore e la testa di Galba era stata portata in trionfo. L’ultima battaglia fu combattuta senza requie e senza pietà; e quando alfine anch’essa fu terminata, uno spettacolo tragico e sanguinoso si presentava agli occhi dei vincitori: degni di morire per una causa migliore, tutti i vitelliani giacevano supini, feriti al petto, proprio come i compagni di Catilina (secondo lo storico Sallustio) dopo la battaglia di Pistoia. Nessuno era stato ferito alla schiena, nessuno aveva cercato scampo nella fuga.
- [LA FINE DI VITELLIO.**
Mentre i vitelliani combattevano e morivano con un coraggio meritevole di miglior fortuna, Vitellio, impaurito e irresoluto, non pensava ad altro che alla propria personale, ormai impossibile salvezza. Egli non aveva voluto quell’insensato bagno di sangue, aveva anzi cercato di evitarlo; e forse solo adesso comprendeva con chiarezza che il suo nome era stato usato come bandiera per un movimento che andava ben oltre la sua persona.
Mentre ancora la battaglia stava infuriando nei quartieri settentrionali di Roma, egli senza alcun seguito né scorta, quasi di soppiatto, era uscito dal palazzo sul Palatino traverso la porta posteriore – probabilmente la stessa per cui era uscito, la mattina del giorno avanti, l’ambasciatore di Sabino. Procedeva in lettiga, con la sola compagnia del suo cuoco e del pasticcere – gl’inseparabili ministri della sua crapula – per le vie semivuote, incalzato dal lontano clamore della battaglia. La sua intenzione era, per il momento, quella di raggiungere la casa paterna, o forse della moglie Galeria – le versioni discordano -, sull’Aventino; tenervisi celato per quel giorno, e l’indomani, placato un poco il furore della lotta, tentar di fuggire per la Porta Capena. Se vi fosse riuscito, avrebbe poi seguito la Via Appia, per le Tres Tabernae e Foro Appio, fino a Terracina, allo scopo di raggiungere suo fratello Lucio e le sue magnifiche coorti che adesso, ma troppo tardi, si pentiva di non aver richiamato in Roma subito dopo la disfatta di Giuliano. Lì pensava che, per qualche giorno almeno, sarebbe stato al sicuro; che cosa pensasse di fare poi, non sappiamo. Non comprendeva, o piuttosto non voleva comprendere, che l’unica speranza di salvarsi la vita era sfumata quando si era dimostrato incapace di far deporre le armi ai suoi partigiani e d’impedire l’assassinio di Flavio Sabino.
Arrivato sull’Aventino, il colle silenzioso e aristocratico le cui ville patrizie sembravano trattenere il fiato per il terrore della soldataglia, il rumore mano a mano smorzantesi della battaglia gli fece credere – non è dato sapere in base a quali indizi concreti – che fosse stato raggiunto un armistizio. Allora, per un attimo, si illuse nuovamente che i flaviani, sorpresi e respinti da quella inattesa resistenza, fossero disposti a riaprire i negoziati, e che egli avrebbe ancora potuto cedere il potere, trattando da una posizione di relativa forza. Agitato da tali vane speranze, si fece riportare indietro fino al Palatino, che trovò totalmente deserto, mentre anche i suoi ultimi compagni si eclissavano, lasciandolo solo. Entrò nel palazzo: era vuoto, completamente vuoto; anche la servitù che vi si trovava quand’era uscito, durante la sua breve assenza se n’era andata sino all’ultimo uomo. Il grande palazzo dei Cesari, simbolo della maestà del potere, così silenzioso e deserto produceva un’impressione irreale e alquanto sinistra. Vitellio vi si aggirava come un fantasma, imperatore sopravvissuto a sé stesso; apriva alcune porte a casaccio, solo per rabbrividire a quel silenzio e a quella desolazione. Finalmente corse a rifugiarsi nella guardiola del portiere (secondo Svetonio) o, forse, in luogo ancor più meschino – Dione Cassio parla addirittura di un canile -, dopo essersi provveduto di alcune placche d’argento per ogni evenienza, e aver barricato la porta con un letto e dei materassi e aver legato puerilmente un cane fuori della porta per fare la guardia.
Frattanto i soldati flaviani, superate le ultime disperate resistenze, irruppero sino al Palatino e penetrarono nel palazzo alla sua ricerca. Trattolo fuori del suo nascondiglio, non lo riconobbero subito e gli domandarono se sapesse dov’era Vitellio. Impari fino all’ultimo al proprio destino, l’infelice imperatore mentì e potè così ritardare di qualche minuto la fine inevitabile. Ma infine qualcuno lo riconobbe, e venne circondato dai soldati furibondi che lo coprirono d’insulti e di minacce. Mentre gli strappavano di dosso le vesti e gli mettevano una corda al collo, Vitellio piagnucolava che non lo uccidessero, che lo lasciassero in vita anche solo temporaneamente, magari in prigione, e inventò che aveva delle rivelazioni importantissime da fare riguardo alla sicurezza di Vespasiano – questione di vita o di morte. Non gli prestarono alcuna attenzione, ma sotto la guida di un tribuno di nome Placido, legategli le mani dietro la schiena, così seminudo lo spinsero giù verso il Foro e le fatali Gemonìe.
Il lento percorso attraverso tutta la Via Sacra fu estremamente doloroso e umiliante. I soldati lo spingevano, tenendogli la testa rovesciata all’indietro per i capelli, e con una spada sotto al mento lo costringevano ad esporla agli insulti del popolaccio, e perfino al lancio di immondizie e di sterco. Procedeva così tra due ali di folla, che fino al giorno innanzi lo aveva sfacciatamente adulato e aveva respinto le sue dimissioni, dicendosi pronta a morire per lui; gli gridavano che era un incendiario e un ghiottone e deridevano con lazzi volgari la sua altissima statura, il ventre prominente causato dai continui banchetti, il viso paonazzo per l’abuso del vino. I soldati gli mostravano, a loro volta, le sue statue che venivano rovesciate sotto i suoi occhi mentre il tribuno, che era stato comandante di una coorte in città, continuava ad insultarlo. Un soldato germanico che gli si era buttato addosso con la spada, forse per risparmiargli quel lungo tormento, dopo aver ferito leggermente il tribuno, venne subito abbattuto dagli altri soldati.
Ora Vitellio era costretto a volgere lo sguardo verso i Rostri, di dove aveva proclamato per due volte di rinunciare all’Impero; ora verso il lago Curzio, ove Galba era stato massacrato; ora, infine, verso le Gemonìe, ove Flavio Sabino era stato assassinato davanti ai suoi occhi. E proprio lì, in cima alle scale scavate a lato del sinistro Carcere Mamertino, il caduto imperatore venne trucidato con inaudita efferatezza, scorticato a piccoli colpi. Prima di morire ebbe un ultimo sprazzo di dignità e a Placido, che perfino allora lo insultava, rivolse queste parole non ignobili: se tamen imperatorem eius fuisse respondit (Tac., Hist., III, LXXXV): "Fui pure il tuo imperatore.". Il suo cadavere fu poi trascinato fino al Tevere con un raffio, e precipitato nel fiume; la testa mozza venne infissa in cima a una picca e come quella di Galba, come quella di Sabino fu portata in giro per tutta Roma dai soldati in tripudio.
Questa fu la fine di Aulo Vitellio, dopo cinquantasette anni di vita e nemmeno dodici mesi di regno. Era il quarto imperatore romano – il quinto includendo anche Pisone, nominato collega da Galba – che periva di morte violenta nel giro di poco più d’un anno e mezzo. Per dirla con un celebre storico inglese del Settecento, Edward Gibbon (ma riferendosi a un altro personaggio, il ministro dell’imperatore Arcadio, Rufino), "se le sofferenze di pochi istanti potessero espiare gli errori e i delitti di una intera vita", certamente si potrebbe dire che Vitellio aveva pagato sino in fondo il suo debito con la storia.
- [EPILOGO.**
Per alcuni giorni le truppe di Antonio Primo, rotto ogni freno, imperversarono per le vie della Città Eterna, rubando, violentando e uccidendo. Trovarono la morte, fra gli altri, il giovane figlio di Vitellio e suo fratello Lucio, consegnatosi spontaneamente dopo la caduta di Roma, e molti altri capi e soldati vitelliani. Dei Germani presenti in città fu fatta una caccia indiscriminata e una strage senza quartiere.
Le coorti reduci da Terracina sfilarono per le vie della città disarmate, l’aspetto mesto degli sconfitti ma l’occhio fiero dei valorosi. Fu forse l’unico spettacolo dignitoso che interruppe l’orgia di saccheggio e di violenza. Il Senato era piombato in uno stato di tale terrore, che la sera del 20 dicembre fu impossibile convocarlo, essendosi i suoi membri eclissati qua e là nelle case di clienti e liberti. Così Domiziano, che era finalmente uscito dal suo nascondiglio e si era fatto riconoscere dalle truppe, benchè acclamato subito col nome di Cesare dovette trascorrere la notte nella casa privata di suo padre Vespasiano. Solo l’indomani, 21 dicembre, il Senato potè essere convocato e si affrettò a confermargli il titolo di Cesare, insieme al diritto di abitare sul Palatino, mentre a suo padre cxonferì quello di Augusto, con tutte le prerogative connesse, compresa la tribunicia potestas: proprio come aveva già fatto con Otone la sera dell’assassinio di Galba. Si provvide anche a mandare un esercito, comandato da Lucilio Basso, a domare l’agitazione della Campania. Capua venne punita per la fedeltà a Vitellio, e vi si acquartierò per l’inverno una intera legione, la III; invece Terracina, semidistrutta dai vitelliani per la sua adesione al partito di Vespasiano, non ebbe premio alcuno.
Gli eccessi vergognosi delle truppe flaviane in Roma ebbero finalmente termine con l’arrivo di Muciano alla testa delle sue truppe fresche e non ancora guastate dall’indisciplina. Egli provvide a trasferire altrove le soldatesche di Primo, e si comportò in tutto e per tutto come il vero luogotenente di Vespasiano. Per volontà di quest’ultimo celebrò il proprio trionfo per la vittoria riportata sui Daci lungo il basso Danubio; mentre Antonio Primo, assai di malavoglia, dovette lasciarsi mettere in disparte con una modesta ricompensa. Muciano, che tutti a Roma trattavano come il vero liberatore dalle recenti sciagure, si affrettò ad iniziare i lavori per la ricostruzione del Campoglio e del tempio di Giove, e riportò l’ordine e la legalità nella capitale sconvolta da tante violenze. Più tardi si sarebbe segnalato nella guerra contro i Batavi e i Celti, ribellatisi – ancor regnante Vitellio – al comando del valoroso Giulio Civile.
Vespasiano, per il momento, si trattenne in Egitto, ed informò con deferenza il Senato, a mezzo di lettere, che non sarebbe venuto a Roma prima della fine dell’estate. Ma subito fecero buona impressione il suo tono semplice e schietto, il suo rispetto per la forma e la tradizione: in una parola, la sua immagine di principe serio e amante del pubblico bene, ma senza ostentazione e senza ipocrisia. Moderato apparve anche quel suo non volersi affrettare verso la capitale ancora immersa nel lutto, quasi volendo lasciare che il tempo lenisse almeno in parte le recenti ferite, prima di presentarsi ai cittadini dell’Urbe.
Antonio Primo, dopo qualche tempo, sempre più geloso di Muciano, partì dall’Italia e si recò direttamente dall’imperatore, ad Alessandria, ma ebbe la delusione di venir ricevuto da Vespasiano con un certo tono di freddezza. Troppo importante era stata la parte da lui giocata nello svolgimento della guerra contro Vitellio; troppo ingombrante e troppo indipendente, oltre che macchiata da atrocità veramente barbariche a danno delle popolazioni italiche.
Finalmente, nell’autunno, mentre Tito – con le legioni di Giudea – proseguiva l’ultima fase dell’assedio di Gerusalemme, Vespasiano lasciò l’Oriente per venire a Roma. Si chiudeva, così, uno dei più travagliati e sanguinosi capitoli nella millenaria storia di Roma; se ne apriva un altro, completamente nuovo, ricco di speranze e animato da un ardente desiderio di ricostruzione morale e materiale.
La drammatica crisi politica del 68-69 era veramente finita.
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