MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME VIII CAPITOLO 542



DXLII. I giudei nella casa di Lazzaro.

   19 dicembre 1946.

   542.1Per quanto affranta di dolore e di fatica, Marta è sempre la signora che sa accogliere e ospitare, dando onore con quella signorilità perfetta della vera signora. Così, ora, dopo avere condotto in una delle sale la comitiva, impartisce ordini perché siano portati quei rinfreschi che sono d’uso e gli ospiti abbiano quanto può essere di conforto.
   I servi circolano mescendo bevande calde o vini pregiati e offrendo frutta bellissime, datteri biondi come topazi, uva secca, una specie del nostro zibibbo, di una perfezione di grappoli fantastica, miele filante, tutto in anfore, calici, piatti, vassoi preziosi. E Marta sorveglia attenta perché nessuno resti trascurato, ma anzi, a seconda dell’età, e forse anche dell’individuo, i cui umori le sono ben noti, regola l’offerta dei servi. Così ella ferma un servo, che si dirige ad Elchia con un’anfora colma di vino e un calice, e gli dice: «Tobia, non vino, ma acqua di miele e succo di datteri». E a un altro: «Certo Giovanni preferisce il vino. Offrigli il bianco dell’uva passita». E personalmente al vecchio scriba Canania offre latte caldo, che abbondantemente dolcifica con il biondo miele dicendo: «Gioverà alla tua tosse. Ti sei sacrificato per venire, sofferente come sei, e nella rigida giornata.

   542.2Sono commossa di vedervi così premurosi».
   «Dovere nostro, Marta. Eucheria era della nostra stirpe. Una vera giudea che ha onorato noi tutti».
   «L’onore alla venerata memoria della madre mia mi tocca il cuore. Ripeterò a Lazzaro queste parole».
   «Ma noi vogliamo salutarlo. Un così buon amico!», dice, falso come sempre, Elchia che si è avvicinato.
   «Salutarlo? Non è possibile. È sfinito troppo».
   «Oh! non lo disturberemo. Non è vero, voi tutti? Ci basta solo un addio, dalla soglia della sua camera», dice Felice.
   «Non posso, non posso proprio. Nicomede si oppone ad ogni fatica ed emozione».
   «Uno sguardo all’amico morente non lo può uccidere, Mar­ta», dice Callascebona. «Troppo ci dorrebbe non averlo salutato!».
   Marta è agitata, titubante. Guarda verso la porta, forse per vedere se Maria viene a darle aiuto. Ma Maria è assente.
   I giudei osservano questa sua agitazione, e Sadoc, lo scriba, lo osserva a Marta: «Si direbbe che la nostra venuta ti agita, donna».
   «No. No, affatto. Compatite al mio dolore. Sono mesi che vivo presso chi muore e… non so più… non so più muovermi come un tempo nelle feste…».
   «Oh! non è una festa! Non volevamo neppure che tu ci onorassi così! Ma forse… Forse ci vuoi celare qualche cosa, e per questo non ci mostri Lazzaro e ci interdici la sua camera. Eh! Eh! Si sa! Ma non temere! La camera di un malato è asilo sacro a chiunque, credilo…», dice Elchia.

   542.3«Non vi è nulla da celare in camera di nostro fratello. Nulla vi è nascosto. Essa accoglie soltanto un morente al quale sarebbe pietà risparmiare ogni ricordo penoso. E tu, Elchia, e tutti voi siete ricordi penosi per Lazzaro», dice Maria con la sua splendida voce d’organo, apparendo sulla soglia e tenendo scostata la tenda porpurea con la mano.
   «Maria!», geme Marta supplichevole, per frenarla.
   «Nulla, sorella. Lasciami dire…». Si rivolge agli altri: «E per levarvi ogni dubbio, un di voi — sarà un solo ricordo del passato che torna a dar dolore — venga meco, se la vista di un morente non lo disgusta e il fetore delle carni che muoiono non lo nausea».
   «E tu non sei un ricordo che dà dolore?», dice ironico l’erodiano, che ho già visto non so dove, lasciando il suo angolo e mettendosi di fronte a Maria.
   Marta ha un gemito. Maria ha uno sguardo d’aquila inquieta. I suoi occhi balenano. Si raddrizza altera, dimenticando la stanchezza e il dolore che le curvavano la persona, e con una espressione di regina offesa dice: «Sì. Io pure sono un ricordo. Ma non di dolore come tu dici. Sono il ricordo della Misericordia di Dio. E, me vedendo, Lazzaro muore con pace, perché sa di rendere il suo spirito nelle mani dell’infinita Misericordia».
   «Ah! Ah! Ah! Non erano queste le parole di un tempo! La tua virtù! A chi non ti conosce potresti porla in vista…».
   «Ma non a te, non è vero? Invece proprio a te la pongo sotto gli occhi, per dirti che si diventa come coloro che si praticano. Allora, sventuratamente, io avvicinavo te ed ero come te. Ora avvicino il Santo e divengo onesta».
   «Cosa distrutta non si ricostruisce, Maria».
   «Infatti il passato, tu, voi tutti, non potete più ricostruirlo. Non potete ricostruire ciò che avete distrutto. Non tu che mi fai ribrezzo. Non voi che avete offeso, al tempo del dolore, il mio fratello, ed ora, per bieco scopo, volete mostrare che siete i suoi amici».
   «Oh! Sei audace, donna. Il Rabbi ti avrà scacciato molti demoni, ma mite non ti ha fatta!», dice uno sui quarant’anni.
   «No, Gionata ben Anna. Non mi ha fatta debole. Ma più forte, dell’audacia di chi è onesto, di chi ha voluto tornare onesto e ha distrutto ogni legame col passato per farsi una nuova vita.

   542.4Avanti! Chi viene da Lazzaro?». È imperiosa come una regina. Li domina tutti con la sua franchezza, spietata anche contro se stessa. Marta, invece, è angosciata, con le lacrime negli occhi che fissano supplichevoli Maria perché stia zitta.
   «Verrò io!», dice con un sospiro di vittima Elchia, falso come una serpe. Escono insieme.
   Gli altri si volgono a Marta: «Tua sorella!… Sempre quel carattere. Non dovrebbe. Ha tanto da farsi perdonare», dice Uriel, il rabbi visto a Giscala, quello che là ha colpito[94] con sassi Gesù.
   Marta, sotto la sferza di queste parole, ritrova la sua forza e dice: «L’ha perdonata Iddio. Ogni altro perdono non ha valore dopo quello. E la sua vita attuale è d’esempio al mondo». Ma l’audacia di Marta presto cade e si muta in pianto. Geme fra le lacrime: «Siete crudeli! Verso lei… e verso me… Non avete pietà né del dolore passato, né del dolore attuale. Perché siete venuti? Per offendere e dare dolore?».
   «No, donna. No. Unicamente per salutare il grande giudeo che muore. Non per altro! Non per altro! Non devi prendere a male le rette intenzioni nostre. Abbiamo saputo da Giuseppe e Nicodemo dell’aggravamento e siamo venuti… come essi, i due grandi amici del Rabbi e di Lazzaro. Perché volete trattarci in maniera diversa, noi che amiamo il Rabbi e Lazzaro come essi? Non siete giuste. Puoi forse dire che essi, con Giovanni, Eleazar, Filippo, Giosuè e Gioachino, non sono venuti a sentire di Lazzaro, e che anche Mannaen non è venuto?…».
   «Non dico nulla. Ma stupisco che voi sappiate tutto così bene. Non pensavo che anche l’interno delle case fosse sorvegliato da voi. Non sapevo che vi fosse un precetto nuovo oltre i seicentotredici: quello di indagare, di spiare nell’intimo delle famiglie…

   542.5Oh! scusate! Io vi offendo! Il dolore mi dissenna e voi lo acuite».
   «Oh! ti comprendiamo, donna! E perché vi pensiamo dissennate, siamo venuti a darvi un consiglio buono. Mandate a chiamare il Maestro. Anche ieri sette lebbrosi vennero a lodare il Signore perché il Rabbi li ha guariti. Chiamatelo anche per Lazzaro».
   «Non è lebbroso mio fratello», grida Marta convulsa. «Per questo lo avete voluto vedere? Per questo siete venuti? No. Non è lebbroso! Guardate le mie mani. Io lo curo da anni e non è lebbra su me. Ho la pelle arrossata dagli aromi, ma non ho lebbra. Non ho…».
   «Pace! Pace, donna. E chi ti dice che Lazzaro è lebbroso? E chi sospetta in voi un peccato così orrendo come quello di occultare un lebbroso? E credi tu che, nonostante la vostra potenza, non vi avremmo colpiti se aveste peccato? Anche sul corpo del padre e della madre e della sposa e dei figli noi siamo capaci di passare, pur di far ubbidire ai precetti. Io te lo dico. Io, Gionata di Uziel».
   «Ma certo! Così è! E ora ti diciamo, per il bene che ti vogliamo, per l’amore che avevamo a tua madre, per quello che abbiamo a Lazzaro: chiamate il Maestro. Scuoti il capo? Vuoi dire che è tardi ormai? Come? Non hai fede in Lui, tu, Marta, discepola fedele? È grave ciò! Cominci tu pure a dubitare?», dice Archelao.
   «Tu bestemmi, o scriba. Io credo nel Maestro come al Dio vero».
   «E allora perché non vuoi provare? Egli ha risuscitato i morti… Almeno così si dice… Forse non sai dove è? Se vuoi, te lo cerchiamo noi, ti aiutiamo noi», insinua Felice.
   «Ma no! Certo in casa di Lazzaro si sa dove è il Rabbi. Dillo con schiettezza, o donna, e noi partiremo a cercartelo e te lo condurremo, e staremo presenti al miracolo per gioire con te, con voi tutti», dice tentatore Sadoc.
   Marta è titubante, quasi tentata a cedere. Gli altri incalzano mentre lei dice: «Dove sia non so… Non so proprio… È partito giorni or sono e ci ha salutate come chi va via per lungo tempo… Mi sarebbe conforto sapere dove è… Almeno saperlo… Ma non so, in verità…».
   «Povera donna! Ma noi ti aiuteremo… Te lo condurremo», dice Cornelio.

   542.6«No! Non occorre. Il Maestro… Voi parlate di Lui, non è vero? Il Maestro ha detto che dobbiamo sperare oltre lo sperabile, e in Dio solo. E noi lo faremo», tuona Maria che torna con Elchia, che la lascia subito chinandosi a parlare con tre farisei.
   «Ma egli muore, a quel che sento!», dice uno di essi, che è Doras.
   «E con ciò? Muoia! Io non ostacolerò il decreto di Dio e non disubbidirò al Rabbi».
   «E che vuoi sperare oltre la morte, o dissennata?», deride l’erodiano.
   «Che? La Vita!». La voce è un grido di fede assoluta.
   «La Vita? Ah! Ah! Sii sincera. Tu sai che davanti ad un vero morire nullo è il suo potere, e nel tuo stolto amore per Lui non vuoi che ciò appaia».
   «Uscite tutti! Toccherebbe a Marta di farlo. Ma essa vi teme. Io temo soltanto di offendere Dio che mi ha perdonata. E lo faccio perciò in luogo di Marta. Uscite tutti. Non vi è posto in questa casa per quelli che odiano Gesù Cristo. Fuori! Alle vostre tane tenebrose! Fuori tutti! O vi farò cacciare dai servi come una mandra di pezzenti immondi».
   È imponente nella sua ira. I giudei se la svignano, vili al­l’estre­mo, davanti alla donna. Vero è che quella donna pare un arcangelo irato…
   La sala si sgombra e gli sguardi di Maria, man mano che uno varca la soglia passandole davanti, creano una immateriale forca caudina sotto la quale deve abbassarsi la superbia dei vinti giudei. La sala resta vuota finalmente.

   542.7Marta si accascia sul tappeto in uno scoppio di pianto.
   «Perché piangi, sorella? Non ne vedo la ragione…».
   «Oh! tu li hai offesi… ed essi ti hanno, ci hanno offese… e ora si vendicheranno… e…».
   «Ma taci, stolta femmina! Su chi vuoi che si vendichino? Su Lazzaro? Prima devono deliberare, e avanti che decidano…
   Oh! su un gulal[95] non ci si vendica! Su noi? E abbiamo bisogno del loro pane per vivere? Gli averi non ce li toccheranno. Si proietta su essi l’ombra di Roma. E su che allora? E se anche fosse che potessero, non siamo noi due giovani e forti? Non potremo lavorare? Non è forse povero Gesù? Non è forse stato operaio Gesù nostro? Non saremmo più simili a Lui, essendo povere e lavoratrici? Ma glòriati di divenirlo! Speralo! Chiedilo a Dio!».
   «Ma ciò che ti hanno detto…».
   «Ah! Ah! Ciò che mi hanno detto! È la verità. Me la dico io pure. Sono stata una immonda. Ora sono l’agnella del Pastore! E il passato è morto. Su, vieni da Lazzaro».

[94] ha colpito, con Sadoc ed altri, in 340.8.
[95] gulal (o golal, come in 583.4), parola che MV fa seguire da un punto interrogativo, come se si chiedesse cosa significa, starebbe ad indicare qualcosa da rigettare, simile allo sterco menzionato in: 1 Re 14, 10.