Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola
"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)
[Precede – alle "ore 8 antimeridiane" – il capitolo 227 dell'opera L'E-VANGELO]
Stesso giorno a sera
Le martiri Flora e Maria di Cordova.
Forse per consolarmi della visione perduta1 e farmi passare l'inquietudine che mi resta addosso quando per delle cose tutte umane sono impedita di occuparmi del mio lavoro, mi si presenta ora nitidamente la visione strana2 di un sotterraneo, certo un carcere in qualche castello, e castello mussulmano, perché vedo un brutto ceffo vestito da turco o da arabo, ma mi pare più da turco dell'epoca antica, con un lungo caffettano marrone dal quale emerge una sottoveste di stoffa lucida come seta, rosso cupo, e dalle larghe brache strette al malleolo. I piedi sono calzati di babbucce senza tacco di marrocchino rosso. In testa ha un cappello a cono tronco color marrone, con un cerchio di stoffa attorcigliata a turbante color verde smeraldo. Il carcere o sotterraneo che dire si voglia – perché ha le finestre a livello di terra – è fatto in questa maniera: da un basso corridoio, in cui sbocca una scaletta ripida, si entra per una apertura ad arco tondo in una stanza bassa e fosca come una cantina. Al centro di questa vi è un macigno squadrato con al centro un grosso anello di ferro. Il terreno è battuto. E questo è il luogo, che non riesco assolutamente a raffigurare con un disegno.
In esso viene condotta una giovanetta molto bella. È legata con le mani sul dorso e viene gettata quasi giù dai 5 scalini che portano nel corridoio precedente la triste stanza, dove l'attende passeggiando inquieto il personaggio sopra descritto, il quale – mi sono dimenticata di dirlo prima – porta infilata in un'alta cintura, che gli tiene a posto la veste, una lunga scimitarra ricurva dall'elsa gemmata e il fodero damaschinato in oro.
"Per l'ultima volta te lo chiedo: vuoi tu lasciare la religione dei cani ebrei e tornare alla santa fede del Profeta?".
"No".
"Bada. Tu sai che in terra di Mori non si venera che un solo: Maometto, vero profeta di Allah! E sai che sorte attende gli apostati".
"So. Ma voi fedeli alla vostra fede, io alla mia. Voi alla vostra che è falsa, io alla mia che è vera".
"Ti farò togliere la vita fra i tormenti".
"Ma non mi toglierai il Cielo coi suoi gaudi".
"Perderai salute, vita, gioia, tutto".
"Ma ritroverò Iddio e sua Madre la Vergine Maria, e la madre mia che a Dio mi ha generata".
L'uomo batte il piede con ira e ordina la fustigazione con verghe di ferro.
Strappano le vesti dal corpo della fanciulla che appare nuda fino alla cintola, gliele rovesciano giù per i fianchi senza scioglierle le mani che restano così coperte dalle vesti. Le mettono una fune al collo come fosse un collare e l'assicurano, dopo averla fatta inginocchiare presso il ceppo squadrato, all'anello, in modo che col mento tocca il duro macigno, e poi due nerboruti aguzzini, fra quelli della scorta che l'ha trascinata lì, iniziano a percuoterla sulle giovani spalle, sul collo, sul capo, ferocemente. Ogni colpo alza una vescica piena di sangue sulle carni tenere e bianche. Il mento, quando il capo viene percosso, batte duramente sul macigno e si ferisce, e certo si picchiano fra loro i denti, dando dolore. Essendo inginocchiata lontana dal ceppo, con le mani legate sul dorso, e obbligata a stare quasi curva ad angolo retto, non può trovare sollievo in nessun modo, e oltre alle percosse la posizione stessa è tortura.
Il giudice non è ancora contento e, stando a sorvegliare la tortura con le braccia conserte come vedesse un placido spettacolo, ordina si infittiscano i colpi sul capo, "per farla più simile al suo maledetto Cristo" dice ghignando.
E i carnefici battono, battono con le verghe sottili, flessibili quasi – penso che siano di acciaio – che cadono a mazzo sulla povera testa dopo avere fischiato nell'aria. I capelli si impigliano alle verghe e vengono strappati a ciocche, quelli che restano si arrossano di sangue perché la cute si rompe e si scopre l'osso cranico, mentre il sangue cola lungo il collo, dietro le orecchie giù per il petto nudo, fermandosi alla cintura dove è bevuto dalle vesti.
"Basta!" ordina il giudice.
La slegano, la rivestono, la adagiano al suolo perché è semisvenuta.
Il giudice la percuote col piede dicendole, quando la giovane apre gli occhi (uno sguardo mite e doloroso di agnello torturato): "Apòstati?".
"No". Non è più il "no" trionfale di prima, ma nella sua nota flebile è ben sicuro.
"Ci penserà tuo fratello. E sarà peggio di me. Chiamatelo e datela a lui", e dopo averle dato un ultimo calcio il giudice se ne va…
… e la visione termina in un nuovo luogo, certo una prigione anche questa perché vi sono cortili con finestre dalle inferriate potenti, e si sentono voci, che bestemmiano e dicono cose triviali unite a canti cristiani, venire da esse.
Ora la giovane è con un'altra della sua età e vengono condotte in una sala pomposa dove rivedo il giudice di prima, circondato da altri mussulmani, servi o giudici di grado inferiore.
"Dunque ancora vi devo interrogare! È l'ultima. Ma che volete dunque?".
"Morire per Gesù Cristo".
"Morire per Gesù Cristo! Ma tu, Flora, sai cosa vuol dire la tortura!".
"So cosa voglia dire Gesù".
"Ma lo sapete che potrei tenervi per tutta la vita fra le… (io dico: donne di malaffare, ma lui ha detto un brutto nome) come siete state in questi giorni? Che porterete allora nel vostro Cielo? Fango e lordura".
Parla l'altra fanciulla: "T'inganni. Quella resta qui, da te. Io credo fermamente che per grazia del Signor nostro Gesù Cristo, di Maria Ss. sua Madre della quale porto il nome, di tutti i santi del Paradiso fra cui, ultimo, mio fratello diacono da te martirizzato, una volta salite al Cielo potremo fare sbocciare il seme gettato in tanti poveri cuori chiusi in una carne infame, e redimere così le infelici sorelle presso le quali ci hai messe sperando che ci corrompessero e che si spezzasse in noi la fermezza nella fede, mentre, sappilo, noi ne siamo uscite più pure e ferme ancora e più desiderose che mai di morire per aggiungere il nostro sangue a quello del Cristo e redimere le nostre compagne disgraziate".
"Chiamate il carnefice. Siano decapitate".
"Il vero Dio ti ricompensi di aprirci il Cielo e ti tocchi il cuore. Vieni, Flora. Andiamo cantando".
Ed escono fra la scorta cantando il Magnificat…3
Mi dice Gesù: «Hai conosciuto la storia delle martiri e vergini Flora e Maria di Cordova, al tempo che la Spagna era in mano dei Mori, nel nono secolo. Sante martiri, quasi ignorate, ma come beate in Cielo!»
[Seguono, con date del 24, 25 e 27 luglio 1945, i capitoli 228, 229 e 231 dell'opera L'EVANGELO]
1 visione perduta è quella accennata e abbozzata nel capitolo 227 dell'opera maggiore e che non è stata scritta compiutamente "in grazia alla confusione che ho avuto in casa questa mattina".
2 visione strana, di cui certamente ignora lo sviluppo. Sul manoscritto appare evidente che il titolo premesso ad essa è stato inserito successivamente.
3 il Magnificat, cantico di Maria Ss. riportato in Luca 1, 46-55.