MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

A A A

VOLUME IV CAPITOLO 264



CCLXIV. Una giornata di Giuda Iscariota a Nazareth.

   27 agosto 1945.

   264.1 La casa di Nazaret sarebbe la più indicata alle elevazioni dello spirito. In essa pace, silenzio, ordine. La santità pare trasudi dalle pietre di essa, si esali dalle piante dell’orto, piova dal cielo sereno che le fa da cupola celeste. In realtà emana da Colei che l’abita e che si muove lesta e silenziosa con le sue movenze giovanili intatte, il passo leggero che aveva quando vi entrò sposa e lo stesso sorriso mite che placa e accarezza.
   Il sole, in quest’ora mattutina, investe la casa sul lato destro, quello che si appoggia alla prima ondulazione del colle, e solo le cime degli alberi ne beneficiano, per primi gli ulivi messi a fare da presa alla terra del balzo con le loro radici, i superstiti, contorti, poderosi ulivi dalle rame più grosse tutte alzate al cielo come invocassero la sua benedizione o pregassero essi pure da quel luogo di pace, i superstiti ulivi dell’uliveto di Gioacchino, un tempo numeroso di piante che proseguivano la loro passeggiata di pellegrini oranti fino ai campi lontani dove l’uliveto e i campi finivano in pascoli, ora ridotti a poche piante rimaste nel confine della mutilata proprietà di Gioacchino. Poi ne beneficiano il mandorlo e i meli, alti e potenti, che aprono sul brolo l’ombrello dei loro rami; terzo ne beve i raggi il melograno; ultimo il fico contro la casa, quando già il sole carezza i fiori e le verdure ben curati nelle aiuole rettangolari e lungo le siepi disposte sotto la pergola carica di grappoli.
   Le api ronzano, gocce d’oro volanti su tutto quanto può dar loro succhi dolci e profumati. Vi è un piccolo tralcio di caprifoglio che ne è preso di assalto, e così una siepe di fiori a forma di campanule messe a pannocchia, di cui ignoro il nome, che stanno chiudendosi — devono essere fiori notturni — dal profumo intensissimo. Le api si affrettano a suggerli, questi fiori, prima che essi pieghino i petali nel sonno della corolla.

   264.2 Maria va lesta dai nidi dei colombi alla piccola fontana che cola presso la grotticella, da questa alla casa, nelle sue faccende, e pur nel suo lavoro trova modo di ammirare i fiori o i colombi che minuettano per i sentieri o fanno un girotondo di voli sopra la casa e l’orto.
   Rientra Giuda Iscariota, carico di piante e talee. «Ti saluto, Madre. Mi hanno dato tutto quanto volevo. Ho fatto una corsa perché non soffrano. Ma io spero attecchiranno come il caprifoglio. L’anno che viene avrai il giardino simile ad un canestro fiorito. E così ti ricorderai del povero Giuda e della sua sosta qui», dice estraendo con cura da una borsa delle piante colla loro radice avvolta in terra e in foglie umide e, da un’altra borsa, delle talee.
   «Io ti ringrazio, Giuda. Proprio tanto. Non puoi credere come io sia felice di avere quel caprifoglio presso la grotticella. Da piccola, là in fondo a quei campi, allora nostri, ce ne era una ancor più bella, ed edere e caprifogli la vestivano di rami e fiori, facendole da cortina e da riparo ai gigli minuscoli che crescevano fin dentro alla grotta tutta verde del ricamo sottile dei capelvenere. Perché là era proprio una sorgiva… Nel Tempio io pensavo sempre a quella grotta e, te lo dico, quando pregavo davanti al Velo del Santo, io vergine del Tempio, non sentivo Dio in maniera maggiore. Anzi devo dire che là risognavo i dolci colloqui dello spirito mio col mio Signore… Il mio Giuseppe mi fece trovare questa, con un filo d’acqua per utile, ma più per darmi la gioia di una grotticella copiata su quella… Era buono Giuseppe, fino nelle più minute cose… E ci aveva messo un caprifoglio, e l’edera che vive ancora, mentre il primo è morto negli anni di esilio… Poi ce lo aveva ripiantato. Ma è morto tre anni or sono. Ora tu lo hai rimesso. Ha attecchito, vedi? Sei molto bravo come giardiniere».
   «Sì. Quando ero fanciullo amavo tanto le piante, e la mamma mi insegnava a curarle… Ora torno fanciullo al tuo fianco, Madre, e ritrovo la passata capacità. Per farti piacere. Sei tanto buona con me!…», risponde Giuda, lavorando da esperto a collocare le sue piante nei posti più adatti. E va a porre, presso la siepe dei fiori notturni, dei grovigli di radici che non so se siano di mughetti o di altri fiori. «Qui ci stanno bene», dice ribattendo con uno zappetto la terra sulle radici sepolte. «Non vogliono molto sole. Non me li voleva dare il servo di Eleazar. Ma ho tanto insistito che me li ha dati».
   «Anche quei gelsomini d’India non li volevano dare a Giuseppe. Ma egli fece dei lavori senza mercede per procurarmeli. Hanno prosperato sempre più».
   «Ecco fatto, Madre. Ora li innaffio e tutto andrà bene». Innaffia e poi si lava le mani alla fonte.

   264.3 Maria lo guarda, così diverso da suo Figlio e anche così diverso dal Giuda di certe ore di burrasca, lo scruta, pensa, gli va vicino e, posandogli una mano sul braccio, gli chiede dolcemente: «Stai meglio, Giuda? Nel tuo spirito, voglio dire».
   «Oh! Madre! Tanto meglio! Sono in pace. E tu lo vedi. Trovo gusto e salvezza nelle cose umili e nello stare con te. Non dovrei mai uscire da questa pace, da questo raccoglimento. Qui… come è lontano il mondo da questa casa!…». E Giuda guarda l’orto, le piante, la casetta… Termina: «Ma, se stessi qui, non sarei mai l’apostolo. Ed io lo voglio essere…».
   «Per quanto, credilo, meglio ti sarebbe essere un’anima giusta ad un ingiusto apostolo. Se tu comprendi che il contatto col mondo ti turba, se tu comprendi che le lodi e gli onori dell’apostolo ti fanno male, rinuncia, Giuda. Meglio per te essere un semplice fedele nel mio Gesù, ma un fedele santo, ad un apostolo peccatore».
   Giuda china il capo pensieroso. Maria lo lascia alle sue meditazioni ed entra in casa, alle sue faccende.
   Giuda sta fermo qualche tempo, poi passeggia su e giù sotto la pergola. Ha le braccia conserte, il capo chino. Pensa, pensa e passa a monologare e gestire da sé… Un monologo incomprensibile. Ma i gesti sono di chi è in un gran contrasto di idee. Sembra che supplichi e che respinga, o si compianga, o maledica qualcosa, passando da un’espressione interrogativa ad una spaurita, angosciata, fino a prendere il viso dei momenti peggiori, col quale si ferma di botto a metà sentiero rimanendo così qualche tempo, con un viso da vero demonio… E poi si porta le mani al viso e fugge sul balzo degli ulivi, fuor della vista di Maria, e piange col viso celato fra le mani, finché si calma e resta seduto colla schiena appoggiata a un ulivo, come sbalordito…

   264.4 …E non è più mattina, ma è la fine di un tramonto potente.
   Nazaret apre le porte delle sue case, chiuse per tutto il giorno al feroce calore estivo del giorno, e giorno d’oriente per giunta. E donne, uomini, bambini escono negli orti o per le vie ancora calde ma non più assolate, in cerca d’aria, alla fonte, ai giuochi, alle loro conversazioni… in attesa della cena. Gran saluti, chiacchiericcio, risate e gridi, rispettivamente fra uomini, donne e bambini.
   Anche Giuda esce e si avvia alla fonte con le brocche di rame. È visto e indicato dai nazareni col nomignolo di «il discepolo del Tempio». Cosa che, giungendo alle orecchie di Giuda, suona come una musica. Egli passa salutando con affabilità, ma anche con un che di riserbo, che se non è ancora sussiego superbo è molto prossimo parente di questo.
   «Sei molto buono con Maria, Giuda», gli dice un nazareno barbuto.
   «Ella merita questo ed altro. È veramente una grande donna di Israele. Voi felici che vi è concittadina».
   La lode alla donna di Nazaret seduce molto i nazareni, i quali si ripetono l’un l’altro ciò che Giuda ha detto.
   Questo, intanto, giunto alla fonte, attende il suo turno e spinge la sua cortesia a portare le brocche ad una vecchierella, che non finisce di benedirlo, e a prendere l’acqua per due donne impicciate a farlo per un poppante che hanno fra le braccia.
   Socchiudendo il loro velo esse mormorano: «Dio te ne compensi».
   «L’amore di prossimo è il primo dovere di un amico di Gesù», risponde con un inchino l’Iscariota. E si empie le sue brocche tornando poi verso casa.

   264.5 Lo fermano, mentre torna a casa, il sinagogo di Nazaret con altri invitandolo a parlare il sabato prossimo. «Sono più di due settimane che sei con noi e non hai fatto altra lezione che quella di una grande cortesia per noi tutti», si lamenta il sinagogo che è con altri anziani del paese.
   «Ma se vi è non gradevole il parlare del vostro maggior figlio, può mai esservi gradevole il mio di suo discepolo, e giudeo per giunta?», risponde Giuda.
   «Il tuo sospetto è ingiusto e ci addolora. Noi siamo schietti nell’invito. Tu sei discepolo e giudeo. È vero. Ma tu sei del Tempio. Perciò puoi parlare. Perché nel Tempio è dottrina. Il figlio di Giuseppe è solo un legnaiuolo…».
   «Ma è il Messia!».
   «Lo dice Lui… Sarà poi vero? Oppure sarà un suo delirio?».
   «Ma la sua santità, nazareni! La sua santità!». Giuda è scandalizzato dall’incredulità dei nazareni.
   «È grande. Ciò è vero. Ma da questo a essere il Messia!… E poi… Perché ha un parlare così duro?».
   «Duro? No! A me non sembra duro. Ma piuttosto, ecco, questo sì, è troppo sincero e intransigente. Non lascia coperta una colpa, non esita a denunciare un abuso… e ciò spiace. Mette il dito proprio al centro delle piaghe. E ciò fa male. Ma è per santità. Oh! certo! Per questa sola che fa così. Io gliel’ho detto più volte: “Gesù, tu ti nuoci”. Ma non vuole darmi retta!…».
   «Tu lo ami molto e, dotto come sei, potresti guidarlo».
   «Oh! dotto no… Ma pratico, questo sì. Del Tempio, sapete!?
   So gli usi. Ho amici. Il figlio di Anna è come un fratello per me. Anzi, se volete cose dal Sinedrio, dite, dite… Ma ora lasciatemi portare l’acqua a Maria, che mi aspetta per la cena».
   «Torna dopo. Sulla mia terrazza c’è fresco. Staremo fra amici e parleremo…».
   «Sì. Addio».

   264.6 E Giuda va a casa, dove si scusa con Maria di aver tardato perché trattenuto dal sinagogo e dagli anziani del paese. E termina: «Vorrebbero che io parlassi sabato… Il Maestro non me lo ha ordinato. Tu che ne dici, Madre? Guidami tu».
   «Parlare al sinagogo… o parlare nella sinagoga?».
   «L’uno e l’altro. Io non vorrei parlare con nessuno e a nessuno, perché so che sono contrari a Gesù e anche perché parlare dove solo Lui ha diritto di essere Maestro mi pare sacrilegio. Ma hanno tanto insistito! Mi vogliono dopo cena… Ho quasi promesso. E se tu credi che io possa, parlando, levare a loro quello spirito di resistenza al Maestro che è così penoso, io, per quanto mi sia grave, andrò e parlerò. Così come so fare, alla buona, cercando di essere molto longanime per le loro caparbietà. Perché ho proprio capito che ad essere duri è peggio. Eh! non incorrerò più nell’errore fatto a Esdrelon! Il Maestro se ne è tanto dispiaciuto! Non mi ha detto nulla, ma l’ho capito. Non lo farò più. Ma vorrei lasciare Nazaret dopo averla persuasa che il Maestro è il Messia e va creduto e amato».
   Giuda parla mentre, seduto a tavola al posto di Gesù, mangia ciò che Maria ha preparato. E mi fa male vedere Giuda seduto a quel posto, di fronte a Maria che lo ascolta e lo serve come una mamma.
   Ora Ella risponde: «Sarebbe bene, infatti, che Nazaret comprendesse la verità e l’accettasse. Io non ti trattengo. Va’ pure. Nessuno più di te può dire se Gesù meriti amore. Pensa quanto ti ama, e te lo mostra scusandoti sempre e accontendandoti sol che possa… Questa riflessione ti dia parole e atti santi».
   La cena è presto finita. Giuda va ad innaffiare i fiori dell’orto prima che la luce si infoschi troppo, e poi esce, lasciando Maria sulla terrazza intenta a ripiegare i panni che aveva steso ad asciugare.

   264.7 E Giuda, dopo aver salutato Alfeo di Sara e Maria Cleofe, che parlano insieme sulla porta della casa di quello[60], va diretto alla casa del sinagogo. Sono presenti anche i due cugini del Signore oltre ad altri sei anziani.
   Dopo i pomposi saluti, si siedono tutti gravemente su sedili ornati di cuscini e frescheggiano bevendo acque anisate o alla menta, che devono essere belle fresche, perché la brocca di metallo suda nel divario fra il liquido gelido e l’aria ancora calda, nonostante la brezza che agita le cime degli alberi venendo dai colli a settentrione di Nazaret.
   «Sono contento che tu abbia accettato di venire. Sei giovane. Un poco di svago fa bene», dice il sinagogo che è pieno di riguardi per Giuda.
   «Temevo di importunare venendo prima. Vi so disdegnosi per Gesù e i suoi seguaci…».
   «Sdegnosi? No. Increduli… e feriti dalle sue… ammettiamolo pure, verità troppo crude. Noi credevamo che tu ci sdegnassi e non ti invitavamo per questo».
   «Sdegnarvi io? Ma anzi! Vi capisco, molto bene… Eh! già! Ma sono convinto che la pace fra voi e Lui finirà a farsi. A Lui conviene sempre e così a voi. A Lui perché ha bisogno di tutti, e a voi perché non vi merita prendere nome di nemici del Messia».
   «E tu lo credi proprio tale?», chiede Giuseppe d’Alfeo. «In Lui non è nulla della figura regale che ci è stata profetizzata. Forse sarà perché noi lo ricordiamo falegname… Ma… Dove è in Lui il re liberatore?».
   «Anche Davide non pareva che un pastorello. Ma voi vedete che non vi fu re più grande di Davide. Neppure Salomone nella sua gloria è da tanto. Perché, infine, Salomone non fece che continuare Davide, e non fu mai ispirato come lui. Mentre Davide! Ma considerate la figura di Davide! È gigantesca! Di una regalità che sfiora già il Cielo. Non giudicate perciò le origini del Cristo per dubitare della sua regalità. Davide re e pastore. O meglio, pastore e poi re. Gesù re e falegname. O meglio, falegname e poi re».

   264.8 «Tu parli come un rabbi. Si sente in te l’educato nel Tempio», dice il sinagogo. «E potresti fare sapere al Sinedrio che io, il sinagogo, ho bisogno di aiuti del Tempio per una causa privata?».
   «Ma certo! Ma sicuro! Con Eleazzaro! Figurati! E poi Giuseppe l’Anziano, sai?, il ricco di Arimatea. E poi lo scriba Sadoc… e poi… oh! non hai che parlare!».
   «Allora domani sii mio ospite. Parleremo».
   «Ospite? No. Non abbandono quella santa e afflitta donna di Maria. Sono venuto apposta per farle compagnia…».
   «Che ha la parente nostra? La sappiamo sana e, nella sua povertà, felice», dice Simone di Alfeo.
   «Sì. E noi non la abbandoniamo. Mia madre le è sempre vicina. E anche io e mia moglie. Per quanto… Per quanto io non le possa perdonare la sua debolezza verso il Figlio. E anche il dolore di mio padre, che per causa di Gesù morì con due soli figli presso il suo letto. E poi! E poi!… Ma affanno di parentela non si bandisce dall’alto dei tetti!», sospira Giuseppe d’Alfeo.
   «Hai ragione. Si sussurra in fonda cantina, versandolo in un cuore amico. Ma così è di molti dolori! Anche io ho i miei, di discepolo… Ma non ne parliamo!».
   «Parliamone anzi. Che c’è? Del brutto per Gesù? Non approviamo la sua condotta. Ma siamo sempre parenti. E pronti a far causa con Lui contro i nemici. Parla!», dice ancora Giuseppe.
   «Del brutto? Noh! Dicevo così per dire… E poi i dolori del discepolo sono tanti! Non è soltanto dolore per il modo come il Maestro usa con amici e nemici, danneggiandosi, ma anche il vedere che non è amato. Io vorrei che voi tutti lo amaste…».
   «Ma come si fa? Tu lo dici! Ha un modo di fare… Non era così prima di lasciare la Madre», si scusa il sinagogo. «Non è vero, voi tutti?».
   Tutti approvano gravemente dicendo un gran bene del Gesù silenzioso, mite, ritirato di un tempo.
   «Chi pensava potesse scaturire da quello uno quale è ora? Tutto casa e parenti. E ora?», dice un nazareno molto anziano.
   Giuda sospira: «Povera donna!».
   «Ma insomma, che sai? Parla», grida Giuseppe.
   «Ma nulla di più di quanto tu non sappia. Credi che sia dolce per Lei essere abbandonata?».
   «Se Giuseppe fosse campato come vostro padre, ciò non sarebbe avvenuto», sentenzia un altro nazareno molto vecchio lui pure.
   «Non te lo pensare, uomo. Sarebbe stato lo stesso. Quando prendono certe… idee!», dice Giuda.

   264.9 Un servo porta delle lucerne e le posa sul tavolo, perché la notte è senza luna per quanto il cielo sia tutto un brillio di stelle. E col lume vengono portate altre bevande, che il sinagogo vuole offrire subito a Giuda.
   «Grazie. Non mi trattengo oltre. Ho dei doveri verso Maria», dice alzandosi.
   Anche i due figli di Alfeo si alzano dicendo: «Veniamo con te. È la stessa via…», e con grandi saluti l’adunanza si divide, rimanendo col sinagogo i sei anziani.
   Le vie sono ormai deserte e silenziose. Dall’alto delle case scendono parlottii sommessi di voci gravi. I bambini dormono già nei loro lettini e mancano perciò i loro trilli di uccellini allegri. Con le voci, dall’alto delle case più ricche, scendono piccoli bagliori di lumi ad olio.
   I due figli di Alfeo e Giuda camminano per qualche metro in silenzio, poi Giuseppe si ferma prendendo per un braccio Giuda e dice: «Senti. Ho compreso che tu sai qualche cosa ma che non hai voluto parlare in presenza di estranei. Ma ora con me devi parlare. Io sono l’anziano della casa e ho il diritto e il dovere di sapere tutto».
   «E io sono venuto qui nell’intento di dirvelo e di tutelare il Maestro, Maria, i vostri fratelli e il vostro nome. È una cosa molto penosa a dirsi e ad udirsi. Penosissima a farsi. Perché sembra una spiata. Ma vi prego di capirmi bene. Tale non è. È solo amore ed è saggezza. Io so molte cose, che voi pure non ignorate del resto. Le so dai miei amici del Tempio. E so che sono un pericolo per Gesù e anche per il buon nome della famiglia. Io ho cercato di farlo capire al Maestro. Ma non ci sono riuscito. Anzi! Più io lo consiglio e più Lui fa peggio, facendosi criticare e odiare sempre più. Ciò perché Lui è tanto santo che non può capire cosa è il mondo. Ma insomma è triste cosa vedere perire una cosa santa per l’imprudenza del fondatore».
   «Ma insomma, cosa c’è? Di’ tutto. E noi provvederemo. Non è vero, Simone?».
   «Certamente. Ma mi pare impossibile che Gesù faccia cose imprudenti e contro la sua missione…».
   «Ma se questo bravo giovane, che pure ama Gesù, lo dice!?
   Vedi tu come sei? Sempre così! Incerto. Titubante. Mi lasci sempre solo al momento buono. Io contro tutta la parentela. Non hai neppure pietà del nostro nome e del povero fratello nostro che si rovina!».
   «No! Rovinarsi no! Ma si menoma, ecco».
   «Parla, parla!», insiste Giuseppe, mentre Simone tace perplesso.
   «Io parlerei… Ma vorrei essere sicuro che voi non mi nominerete con Gesù… Giuratelo».
   «Sul santo Velo lo giuriamo. Parla».
   «E neppure a vostra madre, e tanto meno ai fratelli dovete dire quanto vi dico».
   «Sta’ certo del silenzio».
   «E tacerete con Maria? Per non darle dolore. Come io faccio, in silenzio, è dovere di provvedere anche per la pace di questa povera madre…».
   «Taceremo con tutti. Te lo giuriamo».

   264.10 «Allora sentite… Gesù non si limita più ad avvicinare gentili, pubblicani e meretrici, a offendere i farisei e gli altri grandi. Ma fa ora proprio delle cose assurde. Pensate che fu in terra filistea e ci fece peregrinare portandosi dietro un caprone tutto nero. Poi ora si è messo un filisteo fra i discepoli. E prima quel bambino che ha raccolto? Non sapete che commenti ci furono? E proprio pochi giorni fa una greca, e schiava, e fuggita al padrone romano. E poi discorsi che sono discordi alla sapienza ben nota. Insomma sembra folle. E si danneggia. In Filistea si è anche intrufolato in una cerimonia di stregoni, mettendosi a tu per tu in gara con essi. Li ha vinti, ma… Già scribi e farisei lo odiano. Ma se vengono al loro orecchio queste cose, che succede? Voi avete il dovere di intervenire, di impedire…».
   «Ciò è grave. Molto grave. Ma come potevamo saperlo? Noi siamo qui… E anche ora, come potremo sapere?».
   «Eppure tocca a voi intervenire e impedire. La Madre è madre, ed è troppo buona. Voi non lo dovete abbandonare così. Né per Lui né per il mondo. Anche questo continuare a cacciare i demoni… Circola voce che Egli sia servito da Belzebù. Vedete voi se ciò gli può giovare. E poi! Ma che re potrà mai divenire se le turbe ridono già da ora o sono scandalizzate?».
   «Ma… le fa proprio queste cose?», chiede incredulo Simone.
   «Domandatelo a Lui stesso. Vi dirà che sì. Perché, anzi, se ne vanta».
   «Tu ci dovresti avvisare…».
   «Sì che lo farò! Quando vedessi qualcosa di nuovo, vi manderò un avviso. Ma mi raccomando! Silenzio ora e sempre con tutti!».
   «Lo abbiamo giurato. Quando parti?».
   «Dopo il sabato. Ormai non c’è più scopo a stare qui. Ho fatto il mio dovere».
   «E noi te ne ringraziamo. Eh! io lo dicevo che Lui era mutato! Tu, fratello, non mi volevi credere… Lo vedi se ho ragione?», dice Giuseppe d’Alfeo.
   «Io… io stento a crederlo ancora. Giuda e Giacomo, infine, non sono degli stolti. Perché non ci hanno detto nulla? Perché non provvedono, se queste cose avvengono proprio?», dice Simone d’Alfeo.
   «Uomo, non mi farai il disonore di non credere alle mie parole?!», scatta risentito Giuda.
   «No!… ma… Basta. Perdona se ti dico: crederò quando vedrò».
   «Va bene. Presto vedrai e dovrai dirmi: “Avevi ragione”.

   264.11 Ebbene. Eccoci alla vostra casa. Io vi lascio. Dio sia con voi».
   «Dio sia con te, Giuda. E… senti. Tu pure non parlare con altri di questo. Per il nostro onore…».
   «Non lo dirò neppure all’aria. Addio».
   E se ne va lesto, rientrando tranquillo in casa e salendo sul terrazzo, dove Maria con le mani in grembo contempla il cielo gremito d’astri, e al lumicino della lampadetta che Giuda ha acceso per salire la scala si vedono due righe di pianto luccicare sulle gote di Maria.
   «Perché piangi, Madre?», chiede con premura ansiosa Giuda.
   «Perché mi pare che il mondo sia gremito di insidie più che il cielo di stelle. Insidie per il mio Gesù…».
   Giuda la fissa attento e turbato.
   Ma Lei termina soave: «Ma mi rincuora l’amore dei discepoli… Amatelo tanto il mio Gesù… amatelo… Vuoi rimanere, Giuda? Io scendo nella mia camera. Già Maria Cleofe si è coricata dopo avere preparato il lievito per domani».
   «Sì. Io resto. Si sta bene qui».
   «La pace sia con te, Giuda».
   «La pace sia con te, Maria».

[60] quello (cioè Alfeo di Sara), invece di quest’ultimo (che non potrebbe certo riferirsi a Maria Cleofe), è correzione nostra.