MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME II CAPITOLO 121



CXXI. I discorsi dell’Acqua Speciosa: Non proferire invano il mio Nome. La visita di Mannanen.

   1 marzo 1945. […].

   121.1 I discepoli sono tutti sossopra. Paiono un alveare stuzzicato, tanto sono agitati. Parlano, sbirciano fuori, guardano in tutti i sensi… Gesù non c’è. Infine decidono su quanto li agita e Pietro ordina a Giovanni: «Vai a cercare il Maestro. È nel bo sco sul fiume. Digli che venga subito o dica quel che si deve fare». Giovanni va via di galoppo.
   L’Iscariota dice: «Io non capisco perché tanto orgasmo e tanta scortesia. Io sarei andato e l’avrei accolto con tutti gli onori… È un onore il suo, per noi. Dunque…».
   «Non so niente io. Lui sarà diverso dal suo parente di latte… Ma… chi sta con le iene ne prende odore e istinto. Del resto, tu vorresti via quella donna… Però bada a te! Il Maestro non vuole, e io sono a sua tutela. Se la tocchi… io non sono il Maestro… Tanto per tua norma».
   «Ih! chi è mai?! La bella Erodiade, forse?».
   «Ma non fare lo spiritoso!».
   «Sei tu che me lo fai fare. Le hai fatto intorno la guardia reale come ad una regina…».
   «Il Maestro mi ha detto: “Bada non sia disturbata e rispettala”. Io lo faccio».
   «Ma chi è? Lo sai?», chiede Tommaso.
   «Io no».
   «Su, dillo… Tu lo sai…», insistono in vari.
   «Vi giuro che non so nulla. Il Maestro certo lo sa. Ma io no».
   «Bisogna farglielo chiedere da Giovanni. A lui dice tutto».
   «Perché? Cosa ha di speciale Giovanni? È un dio tuo fratello?».
   «No, Giuda. È il più buono di noi».
   «Potete risparmiarvi la fatica», dice Giacomo di Alfeo. «Ieri mio fratello l’ha vista, mentre rientrava dal fiume col pesce che gli aveva dato Andrea, e l’ha chiesto a Gesù. Lui ha risposto: “Non ha volto. È uno spirito che cerca Dio. Per Me non è altro e così voglio sia per tutti”. E ha detto quel “voglio” in una tal maniera… che vi consiglio a non insistere».
   «Andrò io da lei», dice Giuda di Keriot.
   «Provati se sei capace», dice Pietro, rosso come un galletto.
   «Mi fai la spia con Gesù?».
   «Lascio quel mestiere a quelli del Tempio. Noi del lago il pane lo guadagniamo col lavoro e non con la delazione. Non avere mai paura di una spiata da Simone di Giona. Ma non mi stuzzicare e non permetterti di disubbidire al Maestro, perché ci sono io…».
   «E chi sei tu? Un povero uomo come me».
   «Sissignore. Anzi più povero, più ignorante, più rozzo di te. Lo so e non me ne accoro. Mi accorerei se fossi pari a te nel cuore. Ma il Maestro mi ha dato questo incarico e lo faccio».
   «Pari a me nel cuore? E che c’è nel mio cuore da farti schifo? Parla, accusa, offendi…».
   «Ma insomma!», scatta lo Zelote e con lui Bartolomeo. «Ma insomma, smettila Giuda. Rispetta i capelli di Pietro».
   «Rispetto tutti, ma voglio sapere che c’è in me…».
   «Subito servito… Lasciatemi parlare… C’è superbia, tanta da empire questa cucina, c’è falsità e c’è lussuria».
   «A me falso?».
   Si interpongono tutti, e Giuda deve tacere.

   121.2 Simone, pacato, dice a Pietro: «Scusa, amico, se ti dico una cosa. Lui ha dei difetti. Ma anche tu ne hai alcuni. E uno è non compatire i giovani. Perché non tieni conto dell’età, della nascita… di tante cose? Vedi, tu agisci per amore verso Gesù. Ma non ti accorgi che queste dispute lo stancano? A lui non lo dico (e accenna a Giuda) ma a te, maturo e onesto tanto, faccio questa preghiera. Egli ha tante pene per i nemici. Ma dargliene noi pure! Ha tanta guerra intorno. Ma perché crearne anche nel suo nido?».
   «È vero. Gesù è molto triste e anche smagrito», dice Giuda Taddeo. «La notte lo sento che si volta e si gira sul suo lettuccio e sospira. Sere fa mi sono alzato e ho visto che piangeva pregando. Gli ho detto: “Che hai?”. E Lui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Voglimi bene. Come è faticoso essere il ‘Redentore’!”».
   «Anche io l’ho trovato col segno del pianto nel bosco del fiume», dice Filippo. «E alla mia occhiata interrogativa Egli ha risposto: “Sai cosa è che fa diverso il Cielo dalla Terra, dopo la diversità della non presenza visibile di Dio? È la mancanza di amore fra gli uomini. Mi strangola come un capestro. Sono venuto qui a spargere seme agli uccellini per essere amato da esseri che si amano”».
   Giuda Iscariota (deve essere un poco squilibrato) si getta in terra e piange come un ragazzo.

   121.3 Entra proprio in quel mentre Gesù con Giovanni: «Ma che avviene? Questo pianto?…».
   «Colpa mia, Maestro. Ho sbagliato. Ho rimproverato Giuda troppo duramente», dice franco Pietro.
   «No… io… io… il colpevole sono io. Io sono… Io ti do dolore… io non sono buono… io disturbo, metto malumore, disubbidisco, sono… Ha ragione Pietro. Ma aiutatemi dunque ad essere buono! Perché qui io ho una cosa, qui nel cuore, che mi fa fare cose che non vorrei fare. È più forte di me… e do dolore a Te, a Te, Maestro, al quale vorrei dare solo gioia… Credilo!
   Non è falsità…».
   «Ma sì, Giuda. Non ne dubito. Tu sei venuto a Me con piena sincerità di cuore, con vero slancio. Ma sei giovane… Nessuno, neppure tu stesso, ti conosce come Io ti conosco. Su, alzati e vieni qui. Poi parleremo noi due da soli. Intanto parliamo di quello per cui mi avete chiamato. Che male c’è se anche Mannanen è venuto? Non può uno, collaterale d’Erode, aver sete del Dio vero? Temete per Me? Ma no. Abbiate fede nella mia parola. Quell’uomo non viene che per onesto fine».
   «Perché non si è fatto conoscere allora?», chiedono i discepoli.
   «Appunto perché viene come “anima”, non come fratello di latte di Erode. Si è avvolto nel silenzio perché pensa che davanti alla parola di Dio nulla è la parentela con un re… Noi rispetteremo il suo silenzio».
   «Ma se lo mandasse lui, invece?…».
   «Chi? Erode? No. Non abbiate paura».
   «Chi lo manda allora? Come sa di Te?».
   «Ma per lo stesso Giovanni mio cugino. Credete che in carcere non mi avrà predicato? Ma per Cusa… ma per la voce della folla… ma per lo stesso odio dei farisei… Anche le fronde e l’aria parlano di Me, ormai. Il sasso è gettato nell’acqua immobile e il bastone ha percosso il bronzo. Le onde vanno sempre più vaste, portando all’acqua lontana la rivelazione, e il suono lo confida agli spazi… La Terra ha imparato a dire: “Gesù” e mai più tacerà. Andate, e siate seco lui cortesi come con chiunque. Andate. Io resto con Giuda».
   I discepoli vanno.

   121.4 Gesù guarda Giuda ancor lacrimoso e chiede: «Ebbene? Non hai nulla da dirmi? Tutto Io so di te. Ma voglio saperlo da te. Perché questo pianto? E soprattutto perché questo squilibrio che ti tiene sempre così malcontento?».
   «Oh! sì, Maestro. Lo hai detto. Io sono di natura geloso. Tu lo sai certo. E soffro a vedere che… a vedere tante cose. Questo mi rende inquieto e… ingiusto. E divento cattivo mentre non lo vorrei, no…».
   «E non piangere di nuovo! Di che sei geloso? Abituati a parlare con la tua vera anima. Tu parli molto, anche troppo. Ma con che? Con l’istinto e con la mente. Segui tutto un faticoso e continuo lavoro per dire ciò che vuoi dire: parlo di te, del tuo io, perché per quello che devi dire degli altri e agli altri non ti poni redine e confine. Ugualmente non poni redine e confine alla tua carne. Essa è il tuo cavallo pazzo. Sembri un auriga al quale l’intendente delle corse abbia dato due cavalli pazzi. L’uno è il senso, l’altro… vuoi udire quale è l’altro? Sì? È l’errore che non vuoi domare. Tu, auriga capace ma imprudente, ti fidi della tua capacità e credi sia sufficiente. Vuoi giungere primo… non perdi tempo a mutare almeno un cavallo. E anzi li aizzi e sferzi. Vuoi essere “il vincitore”. Vuoi l’applauso… Non sai che ogni vittoria è certa quando è conquistata con costante, paziente, prudente lavoro? Parla con la tua anima. È da lì che voglio venga la tua confessione. O devo dirti Io quello che hai dentro?».
   «Trovo che anche Tu non sei giusto e non sei fermo, e ne soffro».
   «Perché mi accusi? In che ho mancato agli occhi tuoi?».
   «Quando io volevo portarti dai miei amici Tu non hai voluto dicendo: “Preferisco stare fra gli umili”. Poi Simone e Lazzaro ti hanno detto che era bene mettersi sotto la protezione di un potente e Tu hai accettato. Tu dài preferenza a Pietro, a Simone, a Giovanni… Tu…».
   «Che altro?».
   «Null’altro, Gesù».
   «Nuvole!… Vesciche nella spuma dell’onda. Mi fai pena, perché sei un miserabile che ti torturi potendo gioire. Puoi dire che è lussuoso questo luogo? Puoi dire che non ci fu una grande ragione che mi spinse ad accettarlo? Se Sionne fosse meno matrigna ai suoi profeti sarei qui, nascosto come un che teme la giustizia umana e che si rifugia in un luogo d’asilo?».
   «No».
   «E allora? Puoi dire che a te non ho dato missioni come agli altri? Puoi dire che fui acerbo con te quando anche hai mancato? Tu non fosti sincero… Le vigne!… Oh! le vigne! Che nome avevano quelle vigne? Tu non fosti compiacente con chi soffriva e si redimeva. Tu non fosti neppur rispettoso verso di Me. E gli altri hanno visto… Eppure una sola voce si è alzata a difesa, e sempre. La mia. Gli altri avrebbero diritto di esser gelosi perché, se c’è stato uno protetto, sei tu».
   Giuda piange avvilito e commosso.

   121.5 «Io vado. È l’ora in cui sono di tutti. Tu resta. E medita».
   «Perdonami, Maestro. Non potrò aver pace se non ho il tuo perdono. Non essere triste per causa mia. Sono un ragazzo cattivo… Amo e tormento… Così con la madre… Così con Te… Così con la sposa se domani avessi una sposa… Sarebbe meglio morissi!…».
   «Sarebbe meglio ti ravvedessi. Ma sei perdonato. Addio».
   Gesù esce e accosta l’uscio.
   Fuori è Pietro: «Vieni, Maestro. È già tardi. E c’è tanta gente. Fra poco scende la sera. E Tu neppure hai mangiato… Quel ragazzo è causa di tutto».
   «Quel “ragazzo” ha bisogno di voi tutti per non essere più causa di queste cose. Vedi di ricordartelo, Pietro. Se fosse tuo figlio lo compatiresti?…».
   «Uhm! Sì e no. Lo compatirei… ma… gli insegnerei anche qualcosa, anche se già uomo, come a un monello cattivo. Già, fosse mio figlio, non sarebbe così…».
   «Basta».
   «Sì, basta, Signore mio. Ecco là Mannanen. È quello con quel mantello quasi nero tanto è rosso scuro. Mi ha dato questo per i poveri e mi ha detto se può restare a dormire».
   «Che hai risposto?».
   «La verità: “Abbiamo letti solo per noi. Vai al paese”».
   Gesù non dice nulla. Però lascia in asso Pietro e va da Giovanni, al quale dice qualche cosa.

   121.6 Poi raggiunge il suo posto e inizia a parlare.
   «La pace sia a voi tutti e con la pace vi venga luce e santità.
   È detto: “Non proferire invano il mio Nome”.
   Quando è che lo si nomina invano? Solo quando lo si bestemmia? No. Anche quando lo si nomina senza rendersi degni di Dio. Può dire un figlio: “Amo il padre e l’onoro” se poi, a tutto quello che il padre da lui desidera, oppone opera contraria? Non è dicendo: “padre, padre” che si ama il genitore. Non è dicendo: “Dio, Dio” che si ama il Signore.

   121.7 In Israele in cui, come ieri l’altro ho spiegato, vi sono tanti idoli nel segreto dei cuori, vi è anche una ipocrita lode a Dio, lode alla quale non corrispondono le opere dei lodatori. In Israele vi è anche una tendenza: quella di trovare tanti peccati nelle cose esteriori, e a non volerli trovare, là dove realmente sono, nelle cose interiori. In Israele vi è anche una stolta superbia, una antiumana e antispirituale abitudine: quella di giudicare bestemmia il Nome del nostro Dio su labbra pagane, e si giunge a proibire ai gentili di accostarsi al Dio vero perché si giudica ciò sacrilegio.
   Questo fino ad ora. Ora non più.
   Il Dio d’Israele è lo stesso Dio che ha creato tutti gli uomini. Perché impedire che i creati sentano l’attrazione del loro Creatore? Credete voi che i pagani non sentano qualcosa nel fondo del cuore, qualcosa di insoddisfatto che grida, che si agita, che cerca? Chi? Che? Il Dio ignoto. E credete voi che se un pagano tende se stesso all’altare del Dio ignoto – a quell’altare incorporeo che è l’anima in cui sempre è un ricordo del suo Creatore, è l’anima che attende di esser posseduta dalla gloria di Dio, così come lo fu il Tabernacolo eretto da Mosè secondo l’ordine avuto, e che piange finché questo possesso non la tiene – Dio respinga il suo offrirsi come si respinge una profanazione? E credete voi che sia peccato quell’atto, suscitato da un onesto desiderio dell’anima che svegliata da appelli celesti dice: “Vengo” al Dio che le dice: “Vieni”, mentre sia santità il corrotto culto di un d’Israele che offre al Tempio quanto avanza dal suo godimento, ed entra al cospetto di Dio e lo nomina, questo Purissimo, con anima e corpo che è tutta una verminaia di colpe?
   No. In verità vi dico che la perfezione del sacrilegio è in quell’israelita che con anima impura pronuncia invano il Nome di Dio. È pronunciarlo invano quando, e stolti non siete, quando per lo stato dell’anima vostra sapete che inutilmente lo pronunciate. Oh! che Io vedo il volto sdegnato di Dio che si volge con disgusto altrove quando un ipocrita lo chiama, quando lo nomina un impenitente! E ne ho terrore, Io che pure non merito quel corruccio divino.

   121.8 Leggo in più di un cuore questo pensiero: “Ma allora, fuorché i pargoli, nessuno potrà chiamare Iddio, perché dovunque nell’uomo è impurità e peccato”. No. Non dite così. È dai peccatori che quel Nome va invocato. È da coloro che si sentono strozzati da Satana e che vogliono liberarsi dal peccato e dal Seduttore. Vogliono. Ecco ciò che muta il sacrilegio in rito. Volere guarire. Chiamare il Potente per essere perdonati e per essere guariti. Invocarlo per mettere in fuga il Seduttore.
   È detto nella Genesi che il Serpente tentò Eva nell’ora in cui il Signore non passeggiava nell’Eden. Se Dio fosse stato nell’Eden, Satana non avrebbe potuto esservi. Se Eva avesse invocato Iddio, Satana sarebbe fuggito. Abbiate sempre nel cuore questo pensiero. E con sincerità chiamate il Signore. Quel Nome è salvezza.
   Molti di voi vogliono scendere a purificarsi. Ma purificatevi il cuore, incessantemente, scrivendovi sopra con l’amore la parola: Dio. Non bugiarde preghiere. Non consuetudinarie pratiche. Ma col cuore, col pensiero, con gli atti, con tutto voi stessi dite quel Nome: Dio. Ditelo per non essere soli. Ditelo per essere sostenuti. Ditelo per essere perdonati.
   Comprendete il significato della parola del Dio del Sinai. “Invano” è quando dire “Dio” non è mutazione in bene. Ed è peccato allora. “Invano” non è quando, come il battito di sangue nel cuore, ogni minuto del vostro giorno e ogni vostra onesta azione, bisogno, tentazione, dolore, vi riporta sulle labbra la figliale parola d’amore: “Vieni, Dio mio!”. Allora, in verità, non peccate nominando il Nome santo di Dio.
   Andate. La pace sia con voi».

   121.9 Non c’è nessun malato. Gesù resta con le braccia conserte addossato alla parete, sotto la tettoia in cui già calano le ombre. Gesù guarda chi parte sui ciuchini, chi si affretta al fiume per un impulso di purificazione, chi attraverso ai campi si dirige al paese.
   L’uomo vestito di rosso cupissimo pare incerto sul da farsi. Gesù lo tiene d’occhio. Infine costui si muove e va al suo cavallo, poiché costui ha un bellissimo cavallo bianco ornato di una gualdrappa rossa che spenzola da sotto la sella piena di borchie.
   «Uomo, attendimi», dice Gesù e lo raggiunge. «La sera scende. Hai dove dormire? Vieni da lontano? Sei solo?».
   L’uomo risponde: «Da molto lontano… e andrò… non so…
   In paese, se troverò… se no… a Gerico… Vi ho lasciato la scorta di cui non mi fidavo».
   «No. Ti offro il mio letto. È già pronto. Hai cibo?».
   «Nulla ho. Credevo trovare più ospitale paese…».
   «Nulla vi manca».
   «Nulla. Neppur l’odio per Erode. Sai chi sono?».
   «Il nome di quelli che mi cercano è uno solo: fratelli nel nome di Dio. Vieni. Spezzeremo il pane insieme. Puoi ricoverare il cavallo in quello stanzone. Io dormirò lì e te lo guarderò…».
   «No, questo mai. Io dormirò lì. Accetto il pane ma non di più. Non metterò il mio corpo sozzo dove Tu adagi il tuo santo».
   «Santo mi credi?».
   «Santo ti so. Giovanni, Cusa… le tue opere… le tue parole…
   La reggia ne è suonante come conchiglia che conserva il rumore del maroso. Io scendevo da Giovanni… poi l’ho perso. Ma mi aveva detto: “Uno che è più di me ti raccoglierà e ti eleverà”. Non potevi essere che Te. Sono venuto quando ho saputo dove eri».
   Sono rimasti soli sotto la tettoia. I discepoli parlottano presso la cucina e sbirciano.

   121.10 Torna dal fiume lo Zelote, che era oggi il battezzatore, con gli ultimi battezzati. Gesù li benedice e poi dice a Simone: «L’uomo è il pellegrino che cerca ricovero in nome di Dio. E nel nome di Dio lo salutiamo amico».
   Simone si inchina e l’uomo pure. Entrano nello stanzone e Mannanen lega il cavallo alla greppia. Accorre Giovanni, avvertito da un cenno di Gesù, e porta erba e un secchio d’acqua. Accorre anche Pietro con un lumicino ad olio perché è già scuro.
   «Qui starò benissimo. Dio vi compensi», dice il cavaliere e poi entra fra Gesù e Simone nella cucina in cui fa da luce un fascio di stipa acceso allora.
   Tutto ha fine.