
LEGGE ► DANIELA CIAVONI
Giovanni, il quarto Evangelista, è l’Aquila. È dell’aquila il volo alto, potente e solitario, e la capacità di fissare il sole. In Giovanni evangelista vi è la nobiltà dell’uccello regale, il volo potente, e il potere di fissare il divino Sole, Gesù: Luce del mondo, Luce del Cielo, Luce di Dio, infinito Splendore, il potersi innalzare ad altezze soprannaturali alle quali nessun altro evangelista si innalzò e, così innalzandosi, il poter penetrare il mistero, e la verità, e la dottrina, e tutto dell’Uomo che era Dio.
Spaziando come aquila regale ben alto sopra le cose della Terra e dell’umanità, egli vide il Cristo nella sua vera Natura di Verbo di Dio. Più che il Taumaturgo e il Martire, Giovanni ci presenta “il Maestro”. L’unico perfettissimo Maestro che ebbe il mondo. Il Maestro-Dio, la Sapienza fattasi carne e verbale maestra agli uomini, il Verbo, o Parola del Padre, ossia la Parola che rende sensibili agli uomini i pensieri del Padre suo, la Luce venuta ad illuminare le tenebre e a fugare le penombre.
Le verità più sublimi, più soavi, più profonde, e le verità più amare, sono tutte sinceramente dette nel vangelo di Giovanni, che col suo occhio d’aquila e il suo innalzarsi con lo spirito seguendo lo spirito del Maestro ha, dall’alto, visto le supreme grandezze e le supreme bassezze, misurato l’ampiezza dell’amore di Cristo e dell’odio del mondo giudaico a Cristo; la lotta fra la Luce e le tenebre, delle troppe “tenebre”, ossia dei troppi nemici del Maestro suo, tra i quali era persino un discepolo e apostolo che Giovanni chiaramente, in questo suo vangelo della Verità e della Luce, chiama col suo vero nome, con uno dei suoi veri nomi: “ladro”; ha visto le congiure sotterranee, i tranelli sottili, usati per rendere inviso il Cristo ai dominatori romani ed ebraici e ai “piccoli” che formavano il gregge dei fedeli al Cristo. E tutte le nota e le rende note, mostrando Gesù nella sua santità sublime, non solo di Dio ma anche di Uomo.
Uomo che non viene a compromessi coi nemici per farseli amici; Uomo che sa dire la verità ai potenti e smascherare le colpe e ipocrisie degli stessi; Uomo che, non respingendo nessuno meritevole di esser avvicinato perché mosso al venire a Lui da desiderio d’anima di redimersi, sa lanciare il suo anatema a quanti, anche se potentissimi, lo circuiscono con false profferte d’amicizia per poterlo cogliere in colpa; Uomo che rispetta la Legge, ma calpesta le sovrapposizioni alla Legge: “i pesi” messi dai farisei ai piccoli; Uomo che rifiuta il regno e la corona terrena e fugge per liberarsene, ma non cessa di bandire il suo Regno spirituale e assume la corona di Redentore per confermare col sacrificio suo proprio la sua dottrina di sacrificio; l’Uomo santissimo che tutto volle conoscere dell’uomo, meno il peccato.
L’aquila non canta, come invece fanno gli altri uccelli, più o meno melodiosamente, ma getta il suo grido potente che fa tremare il cuore agli uomini e agli animali tanto è affermazione di potenza. Anche Giovanni non canta dolcemente la storia del Cristo, ma getta il suo grido potente, per celebrare l’Eroe, ed è grido tanto possente nell’affermare la Divinità, la Sapienza luminosissima del Cristo, da far tremare l’anima e il cuore sin dalle prime parole del suo proemio.
L’aquila ama le vette solitarie su cui il sole dardeggia tutti i suoi fuochi, e più il sole splende e più l’aquila lo fissa, come affascinata dal suo splendore e dal suo calore. Anche Giovanni, il solitario, anche se era coi compagni sia prima che dopo la Passione e Ascensione del Maestro — perché veramente era l’Apostolo diverso, unico in particolari aspetti d’uomo e di discepolo, unito agli altri solo per la carità in lui vivissima — anche Giovanni come l’aquila amava stare sulla vetta, sotto all’incendio del suo Sole, e guardare Lui solo, ascoltarne tutte le parole verbali e quelle segrete, ossia le lezioni e le conversazioni profonde e amabili del Cristo, e le sue effusioni solitarie, le sue preghiere e comunioni col Padre, nel silenzio delle notti, o nel profondo dei boschi, dovunque il Cristo – il grande Solitario, perché il grande Sconosciuto ed Incompreso – si isolava per trovare conforto dall’unione col Padre suo.
Gesù: il Sole della Carità; Giovanni: l’amante del Sole di Carità e il vergine sposato alla Carità, attratto, lui il puro, da Gesù, Purezza perfetta. L’amore dà speciali comprensioni. E più è forte l’amore e più l’amante comprende anche i moti intimi dell’amato. Giovanni, il fedelissimo e amantissimo di Gesù-Dio e Uomo, comprese tutto di Lui, come fosse non sul suo Cuore divino ma nel suo Cuore.
Nessuno conobbe il Cristo intimo quanto Giovanni. Tutte le perfezioni del Cristo gli furono note. Penetrò nel suo mistero e nell’oceano delle sue virtù, misurandone veramente l’altezza, la larghezza e la profondità di questo Tempio vivente non fatto da mano d’uomo e che invano gli uomini cercavano di distruggere. E tutte, a distanza di decenni, le scrisse e descrisse, lasciando il Vangelo più perfetto in veridicità storica, più potente in dottrina, più luminoso di luci sapienziali e caritative, più fedele nella descrizione degli episodi e caratteri, capace di superare le restrizioni mentali degli ebrei e descrivere anche quanto gli altri evangelisti non avevano osato dire: la samaritana, l’ufficiale regio, lo scandalo e fuga e rivolta contro il Maestro dei discepoli dopo il discorso del Pane del Cielo, e l’adultera, e le aperte dispute con i Giudei, Farisei, Scribi e Dottori, e il suo rifugiarsi in Samaria ad Efraim, e i suoi contatti coi Gentili, e la verità su Giuda “che era ladro”, e altre cose ancora.
Più che maturo d’anni, perché longevo quando scrisse il suo vangelo, ma perennemente giovane perché puro, ma sempre ugualmente e ardentemente amoroso del Cristo, perché nessun altro amore umano aveva sottratto fiamme alla sua carità per l’Amato, Giovanni, l’amorosa aquila di Cristo, ci ha rivelato il Cristo, con una potenza superiore ad ogni altra, inferiore solo a quella del Cristo stesso, la quale era infinita perché potenza di Dio, nel rivelarci il Padre suo.
Tutti i quattro che stavano intorno al trono erano coperti d’occhi. Infatti erano i contemplatori, coloro che avevano ben contemplato il Cristo per poterlo ben descrivere e confessare.
Ma Giovanni, l’aquila, coi suoi occhi mortali e immortali, lo aveva contemplato da aquila, con sguardo d’aquila, penetrando nell’ardente mistero del Cristo. E oltre la vita, ormai al fianco del suo Amato, con vista perfetta, fissa, penetra sin nel centro del Mistero, e intona l’inno di lode che gli altri e i 24 vegliardi seguono, per fortificarsi lo spirito ad enunciare le cose dei tempi ultimi: il supremo orrore, la suprema persecuzione, i flagelli ultimi e le supreme vittorie del Cristo, e le supreme, eterne gioie dei suoi fedeli seguaci.
Le prime parole del suo cantico evangelico sono lode alla Luce. Le sue estreme all’Apocalisse sono un grido d’amorosa risposta e d’amorosa domanda: “Sì, vengo presto!”, “Vieni, Signore Gesù!”. E questi due gridi, dell’Amato e dell’Amante, più di ogni altra cosa ci disvelano cosa era Giovanni per Gesù, e Gesù per Giovanni. Era: l’Amore.
A questo amante ardente, che portato dall’amore salì con lo spirito e l’intelletto a zone eccelse e penetrò nei misteri più alti come nessun altro apostolo ed evangelista, contrapponiamo l’uomo: Matteo. Giovanni tutto spirito, sempre più spirito; Matteo materia, tutto materia sinché il Cristo non lo convertì e fece suo. Giovanni: l’angelo in aspetto d’uomo, il serafino, anzi, che con le sue ali d’aquila saliva là dove solo a pochissimi è dato salire; Matteo: l’uomo, ancora l’uomo anche dopo la conversione che di lui, uomo peccatore, fece l’uomo di Dio, ossia un uomo rielevato al grado di creatura ragionevole e destinata all’eterna vita del Cielo. Ma sempre uomo, senza la coltura di Luca, senza la sapienza soprannaturale di Giovanni, senza la forza leonina di Marco. Nella mistica scala degli evangelisti si può mettere Matteo al primo gradino, Marco ad un quarto della scala, Luca al mezzo di essa e Giovanni sul culmine.
Pure l’esser rimasto “l’uomo” non gli nocque, anzi servì a portarlo in alto nella perfezione tenendolo umile, contrito per il suo passato, così come il suo descrivere il Verbo fatto Carne come “l’Uomo” più che come il Maestro, il Taumaturgo, il Dio, servì, allora e nei secoli futuri, a ribadire e confessare, e affermare la vera Natura del Cristo, che era il Verbo del Padre, in eterno, ma che fu realmente l’Uomo incarnatosi per un miracolo unico e divino, nel seno della Vergine per essere il Maestro e il Redentore per i secoli dei secoli.
Non ebbe nè i rapimenti d’amore di Giovanni, né l’economia mirabile di Luca, che non si limitò a parlare del Cristo Maestro, ma ci parla anche di quanto è preparazione al Cristo, ossia della Madre di Lui, degli eventi che precedettero le manifestazioni pubbliche di Gesù Cristo, per renderci noto tutto, per confermare i profeti, per abbattere, con la narrazione più esatta della vita nascosta di Gesù, di Maria, di Giuseppe, le future eresie che sarebbero sorte – né ancor tutte sono finite – le quali alterano la verità sul Cristo, sulla sua vita e dottrina, sulla sua persona sana, forte, paziente, eroica come nessuna altra mai fu. Chi come Luca ci mostra il Cristo Salvatore e Redentore che inizia la Passione col sudor sanguigno del Getsemani? Ma se Luca è lo storico erudito, Marco è l’impulsivo che impone il Cristo alle folle pagane facendone risaltare la potenza soprannaturale, anzi divina, di miracolo d’ogni specie.
Ognuno dei quattro servì per comporre il mosaico che ci dà il vero Gesù Cristo Uomo-Dio, Salvatore, Maestro, Redentore, Vincitore della morte e del demonio, Giudice eterno e Re dei re in eterno. Per questo, nella teofania che descrive l’Apostolo Giovanni nel suo Apocalisse, i quattro, coi loro quattro diversi aspetti, fanno da base e corona al Trono dove è assiso Colui che è, che era, che ha da venire e che è l’Alfa e l’Omega, principio e fine di tutto quanto era, è, e sarà, e le loro voci, unite a quelle dei ventiquattro, ossia dei dodici principali patriarchi e dei dodici più grandi profeti, o profeti maggiori, cantano l’eterna lode a Colui che è Santissimo e Onnipotente.
Dodici e dodici. Questo numero era uno dei numeri sacri agli ebrei. Dodici i Patriarchi, dodici i figli di Giacobbe, dodici le tribù d’Israele; e se i Comandamenti della Legge sono dieci – i Comandamenti dati da Dio-Padre a Mosè sul Sinai – in verità essi sono dodici da quando il Verbo del Padre, l’eterna e perfettissima Sapienza, completò la Legge e la perfezionò, insegnando che i comandamenti dei comandamenti sono: “Ama Dio con tutto te stesso e il tuo prossimo come te stesso’’ perché questi due primi e principali comandamenti sono, in realtà, base di vita ai dieci comandamenti tutti, dato che i primi tre non possono praticarsi se non si ama Dio con tutto sé stesso, con tutte le proprie forze, con tutta l’anima, e gli altri sette neppure possono praticarsi se non si ama il prossimo come se stessi non mancando all’amore, alla giustizia, all’onestà in nessuna cosa o verso nessuna persona.
Dodici erano gli anni prescritti dalla Legge perché un fanciullo ebreo divenisse figlio della Legge. E Gesù, fedele alla Legge, volle dodici apostoli al suo seguito perché sacro era tal numero. Ché se poi un ramo cadde, putrido, e la pianta novella rimase con soli undici rami, presto un novello dodicesimo ramo, e santo, rinacque sulla pianta del cristianesimo, e il numero sacro fu ristabilito.
Quanti numeri sacri in Israele! E ognuno col suo simbolo che fu poi trasferito nella novella Chiesa. Il tre. Il sette. Il dodici. Il settantadue. E, nei tempi futuri, splenderà la verità sui numeri ancora oscuri contenuti nell’Apocalisse, numeri che stanno ad indicare la Perfezione e Santità infinita, e l’Empietà pure senza misura.
Jehoshua = Perfezione, Santità, Salvezza, nome dalle otto lettere.
Satana = Empietà, nemico del genere umano, perfezione del male, nome dalle sei lettere.
E poiché il primo è nome di Bene perfettissimo e il secondo di Male perfettissimo, ossia senza misura, ognuno di essi moltiplica per 3, numero della perfezione, il numero delle sue lettere, divenendo il primo ottocentoottantotto e il secondo seicentosessantasei. E guai, quattro volte guai a quei giorni in cui l’infinito Bene e l’infinito Male si daranno l’ultima battaglia prima della definitiva vittoria del Bene e dei Buoni, e della definitiva sconfitta del Male e dei suoi Servi!
Quanto di orrore e di sangue vi fu nella Terra da quando il Creatore la fece, sarà un nulla rispetto all’orrore dell’ultima lotta. Per questo Gesù Maestro parlò così chiaro ai suoi quando predisse gli ultimi tempi. Per preparare gli uomini alle lotte ultime in cui solo coloro che avranno una fede intrepida, una carità ardente, una speranza incrollabile, potranno perseverare senza cadere in dannazione e meritare il Cielo.
Per questo dovrebbesi — poiché il mondo sempre più scende verso l’abisso, verso la non fede, o una troppo debole fede, e carità e speranza languono in troppi, e in molti sono già morte — per questo dovrebbesi, con ogni mezzo, far sì che Dio sia più conosciuto, amato, seguito. Ciò che non può ottenere il Sacerdote, da troppi sfuggito o non ascoltato, può farlo la stampa, i libri in cui la Parola di Dio sia di nuovo presentata alle folle.
Una parola talora basta a rialzare uno spirito caduto, a ricondurre sulla via giusta uno smarrito, ad impedire il suicidio definitivo di un’anima.
Per questo Dio, che tutto vede e conosce degli uomini, con mezzi della sua infinita Carità, rivela il suo pensiero, il suo desiderio a delle anime da Lui scelte per tale missione, e vuole che il suo aiuto non resti inerte, e soffre di vedere che quanto sarebbe pane di salute per molti non venga dato ad essi.
Sempre più cresce il bisogno di cibo spirituale alle anime languenti. Ma il grano eletto, dato da Dio, sta serrato e inutile, e il languore cresce, e cresce sempre più il numero di coloro che periscono non tanto in questa quanto nell’altra vita.
Quando, per una conoscenza più vera, vasta, profonda, di Cristo, quando, per aver finalmente levato i sigilli a ciò che è fonte di vita, di santità, di salute eterna, una moltitudine di anime potrà cantare l’inno di gioia, di benedizione, di gloria a Dio che li aiutò a salvarsi e a far parte del popolo dei Santi?
Con quali parole e quali sguardi il Giudice eterno parlerà e guarderà coloro che impedirono coi loro voleri a molti di salvarsi? Come chiederà loro conto di chi non ebbe il Cielo perché essi, come gli antichi Scribi e Farisei, hanno serrato in faccia alla gente la via che poteva portarli al regno dei Cieli, e acciecandosi volontariamente gli occhi e indurendo il loro cuore
non vollero vedere né intendere?
Troppo tardi e inutilmente si batteranno allora il petto e chiederanno perdono del modo come agirono.
Ormai il giudizio sarà stato dato e irrevocabile, e dovranno espiare la loro colpa e pagare anche per coloro ai quali, col loro modo di agire, impedirono di ritrovare Dio e di salvarsi.
NOTE:
Spaziando come aquila regale ben alto sopra le cose della Terra e dell’umanità, egli vide il Cristo nella sua vera Natura di Verbo di Dio. Più che il Taumaturgo e il Martire, Giovanni ci presenta “il Maestro”. L’unico perfettissimo Maestro che ebbe il mondo. Il Maestro-Dio, la Sapienza fattasi carne e verbale maestra agli uomini, il Verbo, o Parola del Padre, ossia la Parola che rende sensibili agli uomini i pensieri del Padre suo, la Luce venuta ad illuminare le tenebre e a fugare le penombre.
Le verità più sublimi, più soavi, più profonde, e le verità più amare, sono tutte sinceramente dette nel vangelo di Giovanni, che col suo occhio d’aquila e il suo innalzarsi con lo spirito seguendo lo spirito del Maestro ha, dall’alto, visto le supreme grandezze e le supreme bassezze, misurato l’ampiezza dell’amore di Cristo e dell’odio del mondo giudaico a Cristo; la lotta fra la Luce e le tenebre, delle troppe “tenebre”, ossia dei troppi nemici del Maestro suo, tra i quali era persino un discepolo e apostolo che Giovanni chiaramente, in questo suo vangelo della Verità e della Luce, chiama col suo vero nome, con uno dei suoi veri nomi: “ladro”; ha visto le congiure sotterranee, i tranelli sottili, usati per rendere inviso il Cristo ai dominatori romani ed ebraici e ai “piccoli” che formavano il gregge dei fedeli al Cristo. E tutte le nota e le rende note, mostrando Gesù nella sua santità sublime, non solo di Dio ma anche di Uomo.
Uomo che non viene a compromessi coi nemici per farseli amici; Uomo che sa dire la verità ai potenti e smascherare le colpe e ipocrisie degli stessi; Uomo che, non respingendo nessuno meritevole di esser avvicinato perché mosso al venire a Lui da desiderio d’anima di redimersi, sa lanciare il suo anatema a quanti, anche se potentissimi, lo circuiscono con false profferte d’amicizia per poterlo cogliere in colpa; Uomo che rispetta la Legge, ma calpesta le sovrapposizioni alla Legge: “i pesi” messi dai farisei ai piccoli; Uomo che rifiuta il regno e la corona terrena e fugge per liberarsene, ma non cessa di bandire il suo Regno spirituale e assume la corona di Redentore per confermare col sacrificio suo proprio la sua dottrina di sacrificio; l’Uomo santissimo che tutto volle conoscere dell’uomo, meno il peccato.
L’aquila non canta, come invece fanno gli altri uccelli, più o meno melodiosamente, ma getta il suo grido potente che fa tremare il cuore agli uomini e agli animali tanto è affermazione di potenza. Anche Giovanni non canta dolcemente la storia del Cristo, ma getta il suo grido potente, per celebrare l’Eroe, ed è grido tanto possente nell’affermare la Divinità, la Sapienza luminosissima del Cristo, da far tremare l’anima e il cuore sin dalle prime parole del suo proemio.
L’aquila ama le vette solitarie su cui il sole dardeggia tutti i suoi fuochi, e più il sole splende e più l’aquila lo fissa, come affascinata dal suo splendore e dal suo calore. Anche Giovanni, il solitario, anche se era coi compagni sia prima che dopo la Passione e Ascensione del Maestro — perché veramente era l’Apostolo diverso, unico in particolari aspetti d’uomo e di discepolo, unito agli altri solo per la carità in lui vivissima — anche Giovanni come l’aquila amava stare sulla vetta, sotto all’incendio del suo Sole, e guardare Lui solo, ascoltarne tutte le parole verbali e quelle segrete, ossia le lezioni e le conversazioni profonde e amabili del Cristo, e le sue effusioni solitarie, le sue preghiere e comunioni col Padre, nel silenzio delle notti, o nel profondo dei boschi, dovunque il Cristo – il grande Solitario, perché il grande Sconosciuto ed Incompreso – si isolava per trovare conforto dall’unione col Padre suo.
Gesù: il Sole della Carità; Giovanni: l’amante del Sole di Carità e il vergine sposato alla Carità, attratto, lui il puro, da Gesù, Purezza perfetta. L’amore dà speciali comprensioni. E più è forte l’amore e più l’amante comprende anche i moti intimi dell’amato. Giovanni, il fedelissimo e amantissimo di Gesù-Dio e Uomo, comprese tutto di Lui, come fosse non sul suo Cuore divino ma nel suo Cuore.
Nessuno conobbe il Cristo intimo quanto Giovanni. Tutte le perfezioni del Cristo gli furono note. Penetrò nel suo mistero e nell’oceano delle sue virtù, misurandone veramente l’altezza, la larghezza e la profondità di questo Tempio vivente non fatto da mano d’uomo e che invano gli uomini cercavano di distruggere. E tutte, a distanza di decenni, le scrisse e descrisse, lasciando il Vangelo più perfetto in veridicità storica, più potente in dottrina, più luminoso di luci sapienziali e caritative, più fedele nella descrizione degli episodi e caratteri, capace di superare le restrizioni mentali degli ebrei e descrivere anche quanto gli altri evangelisti non avevano osato dire: la samaritana, l’ufficiale regio, lo scandalo e fuga e rivolta contro il Maestro dei discepoli dopo il discorso del Pane del Cielo, e l’adultera, e le aperte dispute con i Giudei, Farisei, Scribi e Dottori, e il suo rifugiarsi in Samaria ad Efraim, e i suoi contatti coi Gentili, e la verità su Giuda “che era ladro”, e altre cose ancora.
Più che maturo d’anni, perché longevo quando scrisse il suo vangelo, ma perennemente giovane perché puro, ma sempre ugualmente e ardentemente amoroso del Cristo, perché nessun altro amore umano aveva sottratto fiamme alla sua carità per l’Amato, Giovanni, l’amorosa aquila di Cristo, ci ha rivelato il Cristo, con una potenza superiore ad ogni altra, inferiore solo a quella del Cristo stesso, la quale era infinita perché potenza di Dio, nel rivelarci il Padre suo.
Tutti i quattro che stavano intorno al trono erano coperti d’occhi. Infatti erano i contemplatori, coloro che avevano ben contemplato il Cristo per poterlo ben descrivere e confessare.
Ma Giovanni, l’aquila, coi suoi occhi mortali e immortali, lo aveva contemplato da aquila, con sguardo d’aquila, penetrando nell’ardente mistero del Cristo. E oltre la vita, ormai al fianco del suo Amato, con vista perfetta, fissa, penetra sin nel centro del Mistero, e intona l’inno di lode che gli altri e i 24 vegliardi seguono, per fortificarsi lo spirito ad enunciare le cose dei tempi ultimi: il supremo orrore, la suprema persecuzione, i flagelli ultimi e le supreme vittorie del Cristo, e le supreme, eterne gioie dei suoi fedeli seguaci.
Le prime parole del suo cantico evangelico sono lode alla Luce. Le sue estreme all’Apocalisse sono un grido d’amorosa risposta e d’amorosa domanda: “Sì, vengo presto!”, “Vieni, Signore Gesù!”. E questi due gridi, dell’Amato e dell’Amante, più di ogni altra cosa ci disvelano cosa era Giovanni per Gesù, e Gesù per Giovanni. Era: l’Amore.
A questo amante ardente, che portato dall’amore salì con lo spirito e l’intelletto a zone eccelse e penetrò nei misteri più alti come nessun altro apostolo ed evangelista, contrapponiamo l’uomo: Matteo. Giovanni tutto spirito, sempre più spirito; Matteo materia, tutto materia sinché il Cristo non lo convertì e fece suo. Giovanni: l’angelo in aspetto d’uomo, il serafino, anzi, che con le sue ali d’aquila saliva là dove solo a pochissimi è dato salire; Matteo: l’uomo, ancora l’uomo anche dopo la conversione che di lui, uomo peccatore, fece l’uomo di Dio, ossia un uomo rielevato al grado di creatura ragionevole e destinata all’eterna vita del Cielo. Ma sempre uomo, senza la coltura di Luca, senza la sapienza soprannaturale di Giovanni, senza la forza leonina di Marco. Nella mistica scala degli evangelisti si può mettere Matteo al primo gradino, Marco ad un quarto della scala, Luca al mezzo di essa e Giovanni sul culmine.
Pure l’esser rimasto “l’uomo” non gli nocque, anzi servì a portarlo in alto nella perfezione tenendolo umile, contrito per il suo passato, così come il suo descrivere il Verbo fatto Carne come “l’Uomo” più che come il Maestro, il Taumaturgo, il Dio, servì, allora e nei secoli futuri, a ribadire e confessare, e affermare la vera Natura del Cristo, che era il Verbo del Padre, in eterno, ma che fu realmente l’Uomo incarnatosi per un miracolo unico e divino, nel seno della Vergine per essere il Maestro e il Redentore per i secoli dei secoli.
Non ebbe nè i rapimenti d’amore di Giovanni, né l’economia mirabile di Luca, che non si limitò a parlare del Cristo Maestro, ma ci parla anche di quanto è preparazione al Cristo, ossia della Madre di Lui, degli eventi che precedettero le manifestazioni pubbliche di Gesù Cristo, per renderci noto tutto, per confermare i profeti, per abbattere, con la narrazione più esatta della vita nascosta di Gesù, di Maria, di Giuseppe, le future eresie che sarebbero sorte – né ancor tutte sono finite – le quali alterano la verità sul Cristo, sulla sua vita e dottrina, sulla sua persona sana, forte, paziente, eroica come nessuna altra mai fu. Chi come Luca ci mostra il Cristo Salvatore e Redentore che inizia la Passione col sudor sanguigno del Getsemani? Ma se Luca è lo storico erudito, Marco è l’impulsivo che impone il Cristo alle folle pagane facendone risaltare la potenza soprannaturale, anzi divina, di miracolo d’ogni specie.
Ognuno dei quattro servì per comporre il mosaico che ci dà il vero Gesù Cristo Uomo-Dio, Salvatore, Maestro, Redentore, Vincitore della morte e del demonio, Giudice eterno e Re dei re in eterno. Per questo, nella teofania che descrive l’Apostolo Giovanni nel suo Apocalisse, i quattro, coi loro quattro diversi aspetti, fanno da base e corona al Trono dove è assiso Colui che è, che era, che ha da venire e che è l’Alfa e l’Omega, principio e fine di tutto quanto era, è, e sarà, e le loro voci, unite a quelle dei ventiquattro, ossia dei dodici principali patriarchi e dei dodici più grandi profeti, o profeti maggiori, cantano l’eterna lode a Colui che è Santissimo e Onnipotente.
Dodici e dodici. Questo numero era uno dei numeri sacri agli ebrei. Dodici i Patriarchi, dodici i figli di Giacobbe, dodici le tribù d’Israele; e se i Comandamenti della Legge sono dieci – i Comandamenti dati da Dio-Padre a Mosè sul Sinai – in verità essi sono dodici da quando il Verbo del Padre, l’eterna e perfettissima Sapienza, completò la Legge e la perfezionò, insegnando che i comandamenti dei comandamenti sono: “Ama Dio con tutto te stesso e il tuo prossimo come te stesso’’ perché questi due primi e principali comandamenti sono, in realtà, base di vita ai dieci comandamenti tutti, dato che i primi tre non possono praticarsi se non si ama Dio con tutto sé stesso, con tutte le proprie forze, con tutta l’anima, e gli altri sette neppure possono praticarsi se non si ama il prossimo come se stessi non mancando all’amore, alla giustizia, all’onestà in nessuna cosa o verso nessuna persona.
Dodici erano gli anni prescritti dalla Legge perché un fanciullo ebreo divenisse figlio della Legge. E Gesù, fedele alla Legge, volle dodici apostoli al suo seguito perché sacro era tal numero. Ché se poi un ramo cadde, putrido, e la pianta novella rimase con soli undici rami, presto un novello dodicesimo ramo, e santo, rinacque sulla pianta del cristianesimo, e il numero sacro fu ristabilito.
Quanti numeri sacri in Israele! E ognuno col suo simbolo che fu poi trasferito nella novella Chiesa. Il tre. Il sette. Il dodici. Il settantadue. E, nei tempi futuri, splenderà la verità sui numeri ancora oscuri contenuti nell’Apocalisse, numeri che stanno ad indicare la Perfezione e Santità infinita, e l’Empietà pure senza misura.
Jehoshua = Perfezione, Santità, Salvezza, nome dalle otto lettere.
Satana = Empietà, nemico del genere umano, perfezione del male, nome dalle sei lettere.
E poiché il primo è nome di Bene perfettissimo e il secondo di Male perfettissimo, ossia senza misura, ognuno di essi moltiplica per 3, numero della perfezione, il numero delle sue lettere, divenendo il primo ottocentoottantotto e il secondo seicentosessantasei. E guai, quattro volte guai a quei giorni in cui l’infinito Bene e l’infinito Male si daranno l’ultima battaglia prima della definitiva vittoria del Bene e dei Buoni, e della definitiva sconfitta del Male e dei suoi Servi!
Quanto di orrore e di sangue vi fu nella Terra da quando il Creatore la fece, sarà un nulla rispetto all’orrore dell’ultima lotta. Per questo Gesù Maestro parlò così chiaro ai suoi quando predisse gli ultimi tempi. Per preparare gli uomini alle lotte ultime in cui solo coloro che avranno una fede intrepida, una carità ardente, una speranza incrollabile, potranno perseverare senza cadere in dannazione e meritare il Cielo.
Per questo dovrebbesi — poiché il mondo sempre più scende verso l’abisso, verso la non fede, o una troppo debole fede, e carità e speranza languono in troppi, e in molti sono già morte — per questo dovrebbesi, con ogni mezzo, far sì che Dio sia più conosciuto, amato, seguito. Ciò che non può ottenere il Sacerdote, da troppi sfuggito o non ascoltato, può farlo la stampa, i libri in cui la Parola di Dio sia di nuovo presentata alle folle.
Una parola talora basta a rialzare uno spirito caduto, a ricondurre sulla via giusta uno smarrito, ad impedire il suicidio definitivo di un’anima.
Per questo Dio, che tutto vede e conosce degli uomini, con mezzi della sua infinita Carità, rivela il suo pensiero, il suo desiderio a delle anime da Lui scelte per tale missione, e vuole che il suo aiuto non resti inerte, e soffre di vedere che quanto sarebbe pane di salute per molti non venga dato ad essi.
Sempre più cresce il bisogno di cibo spirituale alle anime languenti. Ma il grano eletto, dato da Dio, sta serrato e inutile, e il languore cresce, e cresce sempre più il numero di coloro che periscono non tanto in questa quanto nell’altra vita.
Quando, per una conoscenza più vera, vasta, profonda, di Cristo, quando, per aver finalmente levato i sigilli a ciò che è fonte di vita, di santità, di salute eterna, una moltitudine di anime potrà cantare l’inno di gioia, di benedizione, di gloria a Dio che li aiutò a salvarsi e a far parte del popolo dei Santi?
Con quali parole e quali sguardi il Giudice eterno parlerà e guarderà coloro che impedirono coi loro voleri a molti di salvarsi? Come chiederà loro conto di chi non ebbe il Cielo perché essi, come gli antichi Scribi e Farisei, hanno serrato in faccia alla gente la via che poteva portarli al regno dei Cieli, e acciecandosi volontariamente gli occhi e indurendo il loro cuore
non vollero vedere né intendere?
Troppo tardi e inutilmente si batteranno allora il petto e chiederanno perdono del modo come agirono.
Ormai il giudizio sarà stato dato e irrevocabile, e dovranno espiare la loro colpa e pagare anche per coloro ai quali, col loro modo di agire, impedirono di ritrovare Dio e di salvarsi.
NOTE:
[485] evangelizzeranno Maria nel senso di predicheranno Maria, cioè: daranno a Maria il giusto posto nell’evangelizzazione.