10605 - SPIRITUALITÀ

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Voce narrante ► SILVIA CANEPARO

Vol.10 • cap.605 •
Disperazione e suicidio di Giuda Iscariota. Avrebbe ancora potuto salvarsi se si fosse pentito.

  31 marzo 1944. Venerdì di Passione, ore 2 ant.ne
  605.1Ecco  la mia penosissima visione di queste prime ore del Venerdì di Passione,  presentatamisi mentre facevo l’Ora di Maria Desolata, perché avevo  pensato che passare la notte, che precede la Professione, in compagnia  della Vergine dei Sette Dolori fosse la più bella preparazione alla  Professione.
                                                                                                          
  605.2Vedo  Giuda. È solo. Vestito di giallo chiaro e con un cordone rosso alla  vita. Il mio interno ammonitore mi avverte che da poco è stato catturato  Gesù e che Giuda, fuggito subito dopo la cattura, è ora in preda ad un  contrasto di pensieri. Infatti l’Iscariota pare una belva furente e  braccata da una muta di mastini. Ogni sospiro di vento fra le fronde, il  frusciare che fa un qualche che per le vie, il gemito di una  fontanella, lo fanno sussultare e volgersi con sospetto e terrore, come  si sentisse raggiunto da un giustiziere. Gira il capo tenendolo basso, a  collo torto, gira gli occhi come chi vuol vedere e ha paura di vedere  e, se un giuoco di luna crea un’ombra dalla parvenza umana, egli sbarra  gli occhi, fa un salto indietro, diventa anche più livido di quanto non  sia, si arresta un istante e poi fugge a precipizio, tornando sui suoi  passi, scantonando per altre viuzze, sinché un altro rumore, un altro  giuoco di luce, lo fa arretrare e fuggire in altra direzione.
   Nel  suo andare pazzo va così verso l’interno della città. Ma un clamore di  popolo l’avverte che è presso alla casa di Caifa, e allora, portandosi  le mani al capo e curvandosi come se quei gridi fossero altrettante  pietre che lo lapidino, fugge, fugge. E nel fuggire prende una stradetta  che lo porta diritto verso la casa dove fu consumata la Cena. Se ne  accorge, quando è davanti ad essa, per una fontanella che geme a quel  punto della via. Il piangere dell’acqua, che goccia e cade nel piccolo  bacino di pietra, e un fischio debole di vento, che insinuandosi per la  via stretta fa come un represso lamento, gli devono sembrare il pianto  del Tradito e il lamento del Suppliziato. Si tappa gli orecchi per non  udire e scappa ad occhi chiusi per non vedere quella porta, da cui poche  ore avanti è passato col Maestro e dalla quale egli è uscito per andare  a prendere gli armati per catturarlo.
                                                                                                          
  605.3Nel  correre, così alla cieca, va a urtare contro un cane randagio, il primo  cane che vedo da quando ho le visioni, un grosso cane grigio e irsuto,  che con un ringhio si scansa, pronto a slanciarsi contro il suo  disturbatore. Giuda apre gli occhi e incontra le due pupille  fosforescenti che lo fissano e vede il biancore delle zanne scoperte che  pare abbiano un riso diabolico. Dà un urlo di terrore. Il cane, che  forse lo crede un urlo di minaccia, si avventa, e i due rotolano nella  polvere: Giuda sotto, paralizzato dalla paura, il cane sopra. Quando la  bestia lascia la preda, giudicata forse indegna di una lotta, Giuda  sanguina per due o tre morsi e il suo mantello presenta dei vasti  strappi.
   Un morso lo ha proprio addentato alla guancia, nel  preciso posto dove egli ha baciato Gesù. La guancia sanguina, e sangue  brutta la veste giallognola di Giuda al collo. Gli fa come un collare di  sangue, imbibendo di sé il cordone rosso che stringe al collo la veste,  facendolo più rosso ancora. Giuda, portandosi la mano alla guancia e  guardando il cane che si allontana, ma lo guata dall’insenatura di una  porta, mormora: «Belzebù!», e con un nuovo urlo fugge inseguito dal cane  per qualche tempo. Fugge sino al ponticello che è prossimo al  Getsemani. Qui, sia perché stanco di inseguirlo, sia perché fosse  idrofobo e l’acqua lo allontani, il cane lascia la preda e torna  indietro ringhiando. Giuda, che si era gettato nel torrente per prendere  pietre da scagliare al cane, quando lo vede allontanare si guarda  intorno, si vede con l’acqua sino a metà polpaccio. Senza curarsi della  veste, che sempre più si bagna, si curva sull’acqua e beve come fosse  preso da arsione di febbre, e si lava la guancia che sanguina e deve  dolere.
                                                                                                          
  605.4Al  lume di un primo svegliarsi di alba risale il greto. Dal­l’altra parte,  come avesse ancora paura del cane e non osasse tornare verso la città.  Fa qualche metro e si trova nell’ingresso dell’orto degli Ulivi. Grida:  «No! No!», riconoscendo il posto. Ma poi, non so per quale forza  irresistibile o per quale sadismo satanico e criminale, avanza in quel  luogo. Cerca il posto dove è avvenuta la cattura. La terra del sentiero  scompigliata da molte pedate, l’erba calpestata in un dato punto e del  sangue per terra, forse quello di Malco, lo avvisano che lì egli ha  indicato ai carnefici l’Innocente.
   Guarda, guarda… e poi ha un  urlo roco e fa un balzo indietro. Grida: «Quel sangue, quel sangue!…», e  lo indica… a chi? col braccio teso e l’indice puntato. Nella luce che  aumenta il suo volto è terreo e spettrale. Pare un pazzo. Ha gli occhi  sbarrati e lucidi come per delirio, i capelli scompigliati dalla corsa e  dal terrore sembrano stare irti sul capo, la guancia che va enfiando  gli torce la bocca in un ghigno. La veste strappata, insanguinata,  bagnata, motosa, perché la polvere si è appiccicata al bagnato ed è  divenuta fango, lo fa simile ad un accattone. Il manto, pure lacero e  motoso, gli pende giù da una spalla come uno straccio, e in questo egli  si impiglia quando, continuando a gridare: «Quel sangue, quel sangue!»,  arretra come se quel sangue divenisse un mare che monta e sommerge.
    Giuda cade riverso e si ferisce al capo, dietro al capo, contro una  pietra. Ha un gemito di dolore e di paura. «Chi è?», grida. Deve aver  pensato che qualcuno l’abbia fatto cadere per colpirlo. Si volge con  terrore. Nessuno! Si alza. Ora il sangue goccia anche sulla nuca. Il  cerchio rosso si allarga sulla veste.
    Non cade in terra[18], perché è poco. La veste lo beve. Ora il capestro rosso pare già al collo.
                                                                                                          
  605.5Cammina.  Ritrova le tracce del fuocherello acceso da Pietro ai piedi di un  ulivo. Ma egli non sa che è opera di Pietro e deve credere che lì fu  Gesù. Grida: «Via! Via!», e con ambe le mani, tese avanti a sé, pare  respingere un fantasma che lo tormenta. Scappa. E va a finire proprio  contro il masso dell’Agonia.
   Ormai l’alba è netta e permette  vedere bene e subito. Giuda vede il mantello di Gesù rimasto piegato sul  masso. Lo conosce. Vuole toccarlo. Ha paura. Stende e ritira la mano.  Vuole. Disvuole. Ma quel manto lo affascina. Geme: «No. No». Poi dice:  «Sì, per Satana! Sì. Voglio toccarlo. Non ho paura! Non ho paura!». Dice  che non ha paura, ma batte i denti dal terrore, e il rumore che fa sul  suo capo un ramo d’ulivo, mosso dal vento e urtante contro un tronco  vicino, lo fa urlare di nuovo. Pure si sforza e afferra il mantello. E  ride. Un riso da pazzo, da demonio. Un riso isterico, spezzato, lugubre,  che non finisce mai, perché ha vinto la sua paura.
   E lo dice:  «Non mi fai paura, Cristo. Più paura. Avevo tanta paura di Te perché ti  credevo un Dio e un forte. Ora non mi fai più paura perché non sei Dio.  Sei un povero pazzo, un debole. Non ti sei saputo difendere. Non mi hai  incenerito come non hai letto nel mio cuore il tradimento. Le mie  paure!… Che stolto! Quando parlavi, anche ieri sera, io credevo Tu  sapessi. Nulla sapevi. Era la mia paura che dava tono di profezia alle  tue comuni parole. Sei un nulla. Ti sei lasciato vendere, indicare,  prendere come un sorcio nella tana. Il tuo potere! La tua origine! Ah!  Ah! Ah! Buffone! Il forte è Satana! Più forte di Te. Ti ha vinto! Ah!  Ah! Ah! Il Profeta! Il Messia! Il Re d’Israele! E mi hai tenuto soggetto  per tre anni! Con la paura sempre nel cuore! E dovevo mentire per  ingannarti con finezza quando volevo godere la vita! Ma anche avessi  rubato e fornicato senza tutta l’astuzia che usavo, Tu non mi avresti  fatto nulla. Imbelle! Pazzo! Vigliacco! Toh! Toh! Toh! Ho avuto torto a  non fare a Te quel che faccio al tuo manto per vendicarmi del tempo in  cui mi hai tenuto schiavo della paura. Paura di un coniglio!… Toh! Toh!  Toh!».
                                                                                                          
  605.6Ad  ogni «toh!» Giuda morde e cerca strappare la stoffa del manto. Lo  spiegazza fra le mani. Ma nel farlo lo apre e appaiono le macchie che lo  bagnano. Giuda si ferma nella sua furia. Fissa quelle macchie. Le  tocca. Le fiuta. Sono sangue…-Spiega tutto il mantello. È ben visibile  l’impronta lasciata dalle due mani sanguinose quando si premevano la  stoffa sul viso.
   «Ah!… Sangue! Sangue! Il suo… No!». Giuda lascia  cadere il mantello e guarda intorno. Anche contro il masso, là dove  Gesù si è appoggiato con la schiena quando l’Angelo lo confortava, vi è  uno scuro di sangue che secca. «Là!… Là!… Sangue! Sangue!…». Abbassa gli  occhi per non vedere, e vede l’erba tutta rossa del sangue gocciato su  essa. Questo, per la rugiada che lo ha tenuto sciolto, pare appena  gocciato. È rosso e brilla al primo sole. «No! No! No! Non voglio  vedere! Non posso vedere quel sangue! Aiuto!», e porta le mani alla gola  e annaspa come se stesse affogando in un mare di sangue. «Indietro!  Indietro! Lasciami! Lasciami! Maledetto! Ma questo sangue è un mare!  Copre la Terra! La Terra! La Terra! E sulla Terra non c’è posto per me,  perché io non posso vedere quel sangue che la copre. Sono il Caino  dell’Innocente!».
   L’idea del suicidio credo sia venuta in questo momento in quel cuore. Il volto di Giuda fa paura.
                                                                                                          
  605.7Si  butta dal balzo e fugge per l’uliveto senza tornare per la via già  fatta. Pare un inseguito dalle fiere. Torna in città. Si avvolge nel  mantello come può e cerca coprirsi la ferita e il volto per quanto può.
    Si dirige al Tempio. Ma, mentre va a quella volta, ad un incrocio di  via si trova di fronte alle canaglie che trascinano Gesù da Pilato. Non  può ritirarsi, perché altra folla lo preme alle spalle, accorrendo a  vedere. E, alto come è, domina per forza e vede. E incontra lo sguardo  di Cristo… I due sguardi si allacciano un momento. Poi Cristo passa,  legato, percosso. E Giuda cade riverso come svenuto. La folla lo  calpesta senza pietà, né egli reagisce. Deve preferire essere calpestato  da tutto un mondo anziché incontrare quello sguardo.
                                                                                                          
  605.8Quando  la canea deicida è passata col Martire e la via è vuota, si rialza e  corre al Tempio. Urta e quasi rovescia una guardia messa alla porta del  recinto. Altre guardie accorrono per interdire al forsennato di entrare.  Ma egli, come un toro furente, sgomina tutti. Uno, che gli si aggrappa  per impedirgli di penetrare nell’aula del Sinedrio, dove sono ancora  tutti raccolti a discutere, viene afferrato per la gola, strozzato e  gettato, se non morto certo moribondo, giù dai tre scalini.
   «Il  vostro denaro, maledetti, non lo voglio», egli urla, ritto in mezzo  all’aula, al posto dove prima era Gesù. Pare un demone sbucato  dall’inferno. Insanguinato, spettinato, acceso dal delirio, con la bava  alla bocca, le mani ad artiglio, egli urla e pare che abbai tanto la sua  voce è stridula, roca, ululante. «Il vostro denaro, maledetti, non lo  voglio. Mi avete perduto. Mi avete fatto commettere il più grande  peccato. Come voi, come voi sono maledetto! Ho tradito il Sangue  innocente. Ricada su voi quel Sangue e la mia morte. Su voi… No! Ah!…».  Giuda vede il pavimento bagnato di sangue. «Anche qui, anche qui è  sangue? Da per tutto! Da per tutto è il suo Sangue! Ma quanto Sangue ha  l’Agnello di Dio per coprirne così la Terra e non morirne? Ed io l’ho  sparso! Per istigazione vostra. Maledetti! Maledetti! Maledetti in  eterno! Maledizione a queste mura! Maledizione a questo Tempio  profanato! Maledizione al Pontefice deicida! Maledizione ai sacerdoti  indegni, ai dottori falsi, ai farisei ipocriti, ai giudei crudeli, agli  scribi subdoli! Maledizione a me! A me maledizione! A me! Tenete il  vostro denaro e vi strozzi l’anima nella gola come a me il capestro», e  getta la borsa in faccia a Caifa e va con un urlo, mentre le monete  suonano spargendosi al suolo dopo aver colpito a sangue la bocca di  Caifa.
   Nessuno osa trattenerlo.
                                                                                                          
  605.9Esce. Corre per le vie. E fatalmente torna ad incrociare altre due volte Gesù, che va e viene da Erode.
    Abbandona il centro della città, prendendo a casaccio per le viette  più misere, e va a finire da capo contro la casa del Cenacolo. È tutta  chiusa. Come abbandonata. Si ferma. La guarda. «La Madre!», mormora. «La  Madre!…». Resta in sospeso… «Ho anche io una madre! E ho ucciso un  figlio a una madre! Pure… Voglio entrare… Rivedere quella stanza. Là non  c’è sangue…».
   Dà un picchio alla porta. Un altro… Un altro… La  padrona di casa viene ad aprire e socchiude l’uscio. Una fessura… E  vedendo quell’uomo stravolto, irriconoscibile, getta un urlo e tenta  rinchiudere l’uscio. Ma Giuda con una spallata lo spalanca e,  travolgendo la donna esterrefatta, passa oltre.
   Corre verso la  porticina che mette nel Cenacolo. L’apre. Entra. Un bel sole entra dalle  finestre spalancate. Giuda tira un respiro di sollievo. Si inoltra. Qui  tutto è calmo e silenzioso. Le stoviglie sono ancora come furono  lasciate. Si capisce che per ora nessuno se ne è occupato. Si potrebbe  credere che si sia per mettersi a tavola.
   Giuda va verso la  tavola. Guarda se vi è vino nelle anfore. Ce ne è. Beve avidamente  dall’anfora stessa, che solleva a due mani. Poi si lascia cadere seduto e  appoggia il capo sulle braccia conserte sulla tavola. Non si accorge  che si è seduto proprio al posto di Gesù e che ha di fronte il calice  usato per l’Eucarestia. Sta fermo qualche tempo. Finché l’ansito del  gran correre si placa. Poi alza il capo. E vede il calice. E riconosce  dove si è seduto.
   Si alza come spiritato. Ma il calice lo  affascina. Un poco di vino rosso è ancora nel fondo e il sole,  percuotendo il metallo (pare argento), accende quel liquido. «Sangue!  Sangue! Sangue anche qui! Il suo Sangue! Il suo Sangue!… “Fate questo in  memoria di Me!… Prendete e bevete. Questo è il mio Sangue… Il Sangue  del nuovo testamento che sarà sparso per voi…”. Ah! maledetto me! Per me  non può più esser sparso per remissione del mio peccato. Non chiedo  perdono perché Egli non mi può perdonare. Via, via! Non c’è più un posto  dove il Caino di Dio possa conoscere quiete. A morte! A morte!…».
                                                                                                          
  605.10Esce.  Si trova di fronte Maria, ritta sulla porta della stanza dove Gesù l’ha  lasciata. Ella, udendo un rumore, si è affacciata sperando forse vedere  Giovanni, che manca da tante ore. È pallida come un svenata. Ha degli  occhi che il dolore fa ancor più simili a quelli del Figlio. Giuda  incontra quello sguardo che lo guarda con la stessa accorata e cosciente  cognizione con cui Gesù lo ha guardato per via, e con un «Oh!» spaurito  si addossa al muro.
   «Giuda!», dice Maria. «Giuda, che sei venuto  a fare?». Le stesse parole di Gesù. E dette con amore doloroso. Giuda  le ricorda e urla.
   «Giuda», ripete Maria, «che hai tu fatto? A tanto amore hai risposto tradendo?». La voce di Maria è carezza che trema.
    Giuda fa per scappare. Maria lo chiama con una voce che avrebbe  dovuto convertire un demonio: «Giuda! Giuda! Fermati! Fermati! Ascolta!  Io te lo dico in suo Nome: pentiti, Giuda. Egli perdona…». Giuda è  fuggito.
   La voce di Maria, il suo aspetto è stato il colpo di grazia, ossia di disgrazia perché egli le resiste.
    Va a precipizio. Incontra Giovanni che corre verso la casa a  prendere Maria. La sentenza è pronunciata. Gesù sta per andare al  Calvario. È ora che la Madre sia condotta dal Figlio.
   Giovanni  riconosce Giuda per quanto ben poco resti del bel Giuda di poco tempo  prima. «Tu qui?», gli dice Giovanni con palese ribrezzo. «Tu qui?  Maledizione a te, uccisore del Figlio di Dio! Il Maestro è condannato.  Giubila, se puoi. Ma sgombra la via. Vado a prendere la Madre. Che Ella,  l’altra tua Vittima, non ti incontri, rettile».
                                                                                                          
  605.11Giuda  fugge. Si è avvolto il capo nei brandelli del manto, lasciando  unicamente uno spiraglio per gli occhi. La gente, la poca gente che non è  verso il Pretorio, lo scansa come vedesse un pazzo. E tale sembra.
    Vaga per la campagna. Il vento porta ogni tanto un’eco del clamore  che proviene dalla turba che segue imprecando Gesù. Ogni volta che tale  eco giunge a Giuda, egli urla come uno sciacallo.
   Io credo che  sia realmente impazzito, perché batte la testa ritmicamente contro i  muretti di pietra. Oppure è divenuto idrofobo perché, quando vede un  liquido purché sia — acqua, latte portato in un recipiente da un  bambino, olio che geme da un otre — urla, urla e grida: «Sangue! Sangue!  Il suo Sangue!». Vorrebbe bere ai ruscelli e alle fonti. Non può,  perché l’acqua gli pare sangue, e lo dice: «È sangue! È sangue! Mi  affoga! Mi brucia! Ho il fuoco! Il suo Sangue, che ieri mi ha dato, è  divenuto fuoco in me! Maledizione a me e a Te!».
                                                                                                          
  605.12Sale  e scende per i colli che circondano Gerusalemme. E l’occhio,  irresistibilmente, gli va al Golgota. E due volte vede da lungi il  corteo snodarsi nella salita. Guarda e urla.
   Eccolo alla cima.  Anche Giuda è in cima di un piccolo colle coperto d’ulivi. Vi è  penetrato aprendo una chiudenda rustica come ne fosse padrone o per lo  meno molto pratico. Già ho l’impressione che Giuda non avesse molti  riguardi per l’altrui proprietà. Ritto sotto un ulivo al limite di un  balzo, guarda verso il Golgota. Vede drizzare le croci e comprende che  Gesù è crocifisso. Non può vedere né udire. Ma il delirio o un malefizio  di Satana gli fan vedere e udire come fosse sulla cima del Calvario.
    Guarda, guarda come allucinato. Si dibatte: «No! No! Non mi  guardare! Non mi parlare! Non lo sopporto. Muori, muori, maledetto! Ti  chiuda la morte quegli occhi che mi fan paura, quella bocca che mi  maledice. Ma anche io ti maledico. Perché non mi hai salvato».
   Il  volto è talmente stralunato che non si può più guardare. Due fili di  bava scendono dalla bocca urlante. La guancia morsa è livida e enfiata, e  il viso ne appare storto. I capelli appiccicati, la barba, molto scura,  cresciuta sulle guance in quelle ore, mette un bavaglio lugubre sulle  gote e sul mento. Gli occhi poi!… Roteano, si torcono, sono  fosforescenti. Da vero demonio.
                                                                                                          
  605.13Strappa  dalla sua cintura il cordone di grossa lana rossa che lo cinge con tre  giri. Ne prova la solidità avvinghiandolo intorno ad un ulivo e tirando  con tutta la sua forza. Resiste. È forte.
   Sceglie un ulivo atto  alla bisogna. Ecco. Questo, proteso oltre la balza con la sua chioma  spettinata, va bene. Monta sull’albero. Assicura solidamente un cappio  al ramo più robusto e sporgente nel vuoto. Ha già fatto il nodo  scorsoio. Guarda un’ultima volta al Golgota. Poi infila la testa nel  nodo scorsoio. Ora pare avere due collane rosse alla radice del collo.  Si siede sulla balza. Poi di colpo si lascia scivolare nel vuoto.
    Il nodo lo stringe. Si dibatte qualche minuto. Strabuzza gli occhi,  diviene nero d’asfissia, apre la bocca, le vene del collo si gonfiano e  si fanno nere. Tira quattro o cinque calci per aria, nelle ultime  convulsioni. Poi la bocca si apre e ne pende la lingua scura e bavosa, e  i globi oculari restano scoperti, sporgenti, mostranti il bulbo  bianchiccio iniettato di sangue. L’iride scompare in alto. È morto.
    Il forte vento, che si è alzato per l’imminente bufera, ciondola il  macabro pendolo e lo fa roteare come un orrido ragno appeso al filo  della ragnatela.
   La visione finisce così. E mi auguro a avermi a dimenticare presto tutto ciò, perché le assicuro che è visione orrenda.
                                                                                                          
  
  605.14Dice Gesù:
    «Orrenda, ma non inutile. Troppi credono che Giuda abbia commesso  cosa da poco. Alcuni giungono anzi a dire che egli è un benemerito  perché senza di lui la Redenzione non sarebbe venuta e che, perciò, egli  è giustificato al cospetto di Dio.
   In verità vi dico che, se  l’Inferno non fosse già esistito, ed esistito perfetto nei suoi  tormenti, sarebbe stato creato per Giuda ancor più orrendo e eterno,  perché di tutti i peccatori e i dannati egli è il più dannato e  peccatore, né per lui in eterno vi sarà ammolcimento di condanna.
   Il rimorso l’avrebbe anche potuto salvare, se egli avesse fatto del rimorso un pentimento.  Ma egli non volle pentirsi e, al primo delitto di tradimento, ancora  compatibile per la grande misericordia che è la mia amorosa debolezza,  ha unito bestemmie, resistenze alle voci della Grazia che ancora gli  volevano parlare attraverso i ricordi, attraverso i terrori, attraverso  il mio Sangue e il mio mantello, attraverso il mio sguardo, attraverso  le tracce dell’istituita Eucarestia, attraverso le parole di mia Madre.
   Ha resistito a tutto. Ha voluto resistere. Come aveva voluto tradire. Come volle maledire. Come si volle suicidare.
                                                                                                          
  605.15 È la volontà quella che conta nelle cose. Sia nel bene che nel male.
    Quando uno cade senza volontà di cadere, Io perdono. Vedi Pietro. Ha  negato. Perché? Non lo sapeva esattamente neppure lui. Vile Pietro? No.  Il mio Pietro non era vile. Contro la coorte e le guardie del Tempio  aveva osato ferire Malco per difendermi e rischiare d’essere ucciso per  questo. Era poi fuggito. Senza averne volontà di farlo. Aveva poi  negato. Senza averne volontà di farlo. Ha saputo poi ben restare e  procedere sulla sanguinosa via della Croce, sulla mia Via, fino a  giungere alla morte di croce. Ha saputo poi molto bene testimoniare di  Me, sino ad esser ucciso per la sua fede intrepida. Io lo difendo il mio  Pietro. Il suo è stato l’ultimo smarrimento della sua umanità. Ma la  volontà spirituale non era presente in quel momento. Ottusa dal peso  dell’umanità, dormiva. Quando si destò, non volle restare nel peccato e volle esser perfetta. Io l’ho perdonato subito.
                                                                                                          
  605.16Giuda non volle. Tu dici che pareva pazzo e idrofobo. Lo era di rabbia satanica.
    Il suo terrore nel vedere il cane, bestia rara, in Gerusalemme in  specie, venne dal fatto che si attribuiva a Satana, da tempi  immemorabili, quella forma per apparire ai mortali. Nei libri di magia è  detto tuttora che una delle forme preferite da Satana per apparire è  quella di un cane misterioso o di un gatto o di un capro. Giuda, già  preda del terrore nato dal suo delitto, convinto d’esser di Satana per  il suo delitto, vide Satana in quella bestia randagia.
   Chi è  colpevole, in tutto vede ombre di paura. È la coscienza che le crea.  Satana poi aizza queste ombre, che potrebbero ancora dare pentimento ad  un cuore, e ne fa larve orrende che portano alla disperazione. E la  disperazione porta all’ultimo delitto: al suicidio.
   A che pro  gettare il prezzo del tradimento quando questo spogliamento è solo  frutto dell’ira e non è corroborato da una retta volontà di pentimento?  Allora spogliarsi dai frutti del male diviene meritorio. Ma così come  egli fece, no. Inutile sacrificio.
                                                                                                          
  605.17Mia Madre, ed era la Grazia che parlava e la mia Tesoriera che largiva perdono[19] in mio Nome, glielo disse: “Pentiti, Giuda. Egli perdona…”.
    Oh! se lo avrei perdonato! Se si fosse gettato ai piedi della Madre  dicendo: “Pietà!”, Ella, la Pietosa, lo avrebbe raccolto come un ferito e  sulle sue ferite sataniche, per le quali il Nemico gli aveva inoculato  il Delitto, avrebbe sparso il suo pianto che salva e me lo avrebbe  portato, ai piedi della Croce, tenendolo per mano perché Satana non lo  potesse ghermire e i discepoli colpirlo, portato perché il mio Sangue  cadesse per primo su lui, il più grande dei peccatori. E sarebbe stata,  Ella, Sacerdotessa[20] mirabile sul suo altare, fra la Purezza e la Colpa, perché è Madre dei vergini e dei santi, ma anche Madre dei peccatori.
   Ma egli non volle.
                                                                                                          
  605.18Meditate  il potere della volontà di cui siete arbitri assoluti. Per essa potete  avere il Cielo o l’Inferno. Meditate cosa vuol dire persistere nella  colpa.
   Il Crocifisso, Colui che sta con le braccia aperte e  confitte per dirvi che vi ama, e che non vuole, non può colpirvi perché  vi ama, e preferisce negarsi di potervi abbracciare, unico dolore del  suo esser confitto, anziché aver libertà di punirvi, il Crocifisso,  oggetto di divina speranza per coloro che si pentono e che vogliono  lasciare la colpa, diviene per gli impenitenti oggetto di un tale  orrore che li fa bestemmiare e usare violenza verso se stessi. Uccisori  del loro spirito e del loro corpo per la loro persistenza nella colpa. E  l’aspetto del Mite, che si è lasciato immolare nella speranza di  salvarli, assume l’apparenza di uno spettro di orrore.
                                                                                                          
  605.19Maria, ti sei lamentata di questa visione. Ma è il Venerdì di Passione, figlia. Devi  soffrire. Alle sofferenze per le sofferenze mie e di Maria devi unire  le tue per l’amarezza di vedere i peccatori rimanere peccatori. È stata  sofferenza nostra, questa. Deve esser tua. Maria ha sofferto, e  soffre ancora, di questo, come delle mie torture. Perciò tu devi  soffrire questo. Ora riposa. Fra tre ore sarai tutta mia e di Maria. Ti  benedico, violetta della mia Passione e passiflora di Maria».[21]

[18] Non cade in terra, perché non doveva mescolarsi… al Sangue purissimo dell’In­nocente,  come è detto in 603.5 e come sarà ribadito in 639.3. La relazione tra  Giuda e il sangue, che nel presente capitolo assume aspetti  ossessionanti, trova un fondamento anche in 92.6, 361.5 e 496.4.
[19] largiva perdono, nel significato e nella misura che emergono in 574.13.
[20] Sacerdotessa  è un titolo già dato alle donne discepole e illustrato in: 95.6 - 151.3  - 153.3 - 157.2.5 - 262.9 - 307.2. Nello stesso senso, ma in misura  piena, deve intendersi quando è riferito a Maria Ss., che in 610.11 si  definisce “Sacerdotessa” in virtù della propria Maternità, e in 618.5 è  proclamata da Gesù “Regina del Sacerdozio”. (Del sacerdozio comune a  tutti si dirà in 606.15).
[21] di Maria». Segue, sul manoscritto originale, l’annotazione a matita di MV: sono le 5 e 1/4!!! Grano (proprio così: Grano ).


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